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Nella Basilica di Sant'Eugenio a Valle Giulia (26-VI-1985).

Il 26 giugno 1985, nella ricorrenza del decimo anniversario della morte del Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, il Prelato dell'Opus Dei ha presieduto una solenne concelebrazione della Santa Messa nella Basilica di Sant'Eugenio a Valle Giulia. Con Mons. Alvaro del Portillo concelebrarono il Vicario Generale della Prelatura, Mons. Javier Echevarría; il Vicario Regionale dell'Opus Dei per l'Italia, Rev.mo don Mario Lantini; il parroco di Sant'Eugenio, Rev. don Luigi Tirelli, e il Postulatore della Causa di Beatificazione del Servo di Dio, Rev. don Flavio Capucci.

Il Prelato dell'Opus Dei pronunziò la seguente omelia:

Sono passati dieci anni da quel giovedì, 26 giugno 1975, in cui il Signore chiamò a Sé il suo Servo Josemaría Escrivá de Balaguer e gli concesse il premio di una lunga vita interamente spesa al servizio delle anime: "Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone"[1] Quel giorno, secondo la comune persuasione di centinaia di migliaia di cristiani che —senza voler in modo alcuno precorrere il giudizio ufficiale della Chiesa— ricorrono a Dio mediante l'intercessione del Fondatore dell'Opus Dei, si accese una nuova luce nel firmamento dei santi.

Dieci anni! E' un tempo troppo breve per consentire una valutazione adeguata di questa figura di sacerdote esemplare, ma è senz'altro sufficiente ad offrirci l'evidenza che essa si è progressivamente ingigantita agli occhi di innumerevoli fedeli di tutte le razze, età e condizioni sociali. Come ogni anno in questa ricorrenza, essi oggi colmeranno cattedrali e chiese dei cinque continenti; pregheranno per la beatitudine eterna della sua anima, ringrazieranno il Signore per tutti i benefici ricevuti attraverso la sua mediazione e continueranno ad affidare alla paterna sollecitudine del Servo di Dio le proprie necessità spirituali e materiali.

La sintesi più appropriata della vita del Fondatore dell'Opus Dei ci viene offerta proprio dalle parole del Vangelo appena citate: Mons. Escrivá fu veramente un "servo buono e fedele". Il suo unico orgoglio fu di servire Dio, la Chiesa e tutte le anime. La missione ricevuta dal Signore esigeva il totale sacrificio di se stesso e, in questo servizio gioioso ed abnegato, egli profuse tutte le proprie energie. Quante volte, lasciando libero sfogo alle effusioni del cuore, si proclamava davanti a Dio pauper servus et humilis, un servo povero e sprovvisto di tutto! Molti di noi conservano incancellabile nella memoria l'immagine di Mons. Escrivá che protendeva la mano a mendicare l'elemosina di una preghiera, supplicando, con accenti di commovente sincerità: "Chiedetegli (al Signore) di farmi diventare buono e fedele". Può sembrare un'aspirazione da poco; tuttavia, se ci riflettete, scoprirete che questa —"servo buono e fedele"— è proprio la formula di canonizzazione coniata da Cristo stesso nel suo Vangelo. Ed è che donare a Dio la propria vita e consumarla appassionatamente giorno per giorno al servizio degli altri, in un lavoro costante e nascosto, nello slancio della preghiera e della penitenza protratte al di là di ogni fatica, tutto questo costituisce il nerbo della santità cristiana.

Il servizio prestato da Mons. Escrivá alla Chiesa ed indirettamente anche alla società civile, in forza delle conseguenze pratiche del messaggio che egli annunciò anzitutto con l'esempio, può sintetizzarsi in un'espressione, densa di suggestivi richiami, che traggo dalla sua stessa predicazione: dischiudere i cammini divini della terra a tutte le anime desiderose di dare autentico compimento al mandato con cui il Maestro ci invita a raggiungere la perfezione cristiana[2] la santità, senza abbandonare il nostro posto nel mondo: la famiglia, il lavoro, l'ambiente sociale e professionale.

Gli osservatori attenti della vita della Chiesa oggi riconoscono unanimemente che il fenomeno pastorale ed ascetico dell'Opus Dei, suscitato da Dio più di cinquant'anni or sono, ha contribuito in misura decisiva a preparare il terreno sul quale sono maturati i frutti più caratteristici del Concilio Vaticano II, vale a dire la proclamazione della chiamata universale alla santità e della vocazione di tutti i fedeli all'apostolato. Malgrado la forza di questo messaggio appartenga ormai al comune patrimonio dottrinale della Chiesa, tuttavia non di rado essa appare come imprigionata nelle coscienze. Molti infatti non riescono a trovare nella pratica il modo per far traboccare di questa pienezza di senso divino tutte le espressioni nelle quali di volta in volta si articola la loro esistenza quotidiana. Senza l'indicazione di concreti sbocchi pratici, la dottrina rischia di restare inoperante. Anche in questo Mons. Escrivá ha offerto alla Chiesa un servizio di incalcolabile fecondità: nella sua infaticabile predicazione ed in una moltitudine di scritti, in massima parte ancora inediti, egli ha infatti sviscerato i contenuti essenziali di quel messaggio; ma soprattutto lo ha incarnato senza residui nella propria vita e lo ha messo alla portata di tutti. Il cammino da lui percorso, e sul quale sono rimaste impresse con tanta nitidezza le sue orme, è così divenuto una strada ampia e chiara, sulla quale un numero incalcolabile di anime giunge con semplicità a quell'incontro con Cristo che trasfigura tutti gli istanti del nostro vivere.

Uno degli aspetti fondamentali di questo spirito così attraente è appunto ciò che egli chiamava l'ambizione di servire. Tale audace espressione sintetizza efficacemente l'insegnamento del Servo di Dio sulla necessità di riconoscere il proprio nulla e, insieme, i doni ricevuti dal Signore; di sforzarsi nell'acquisire e sviluppare le qualità necessarie per rendersi utili alla Chiesa ed alle anime, ma senza servirsi né della Chiesa né delle anime per inseguire i propri interessi o tentare la scalata verso posizioni di prestigio; di servire la diffusione del Regno di Dio, dando al proprio lavoro professionale un carattere di servizio agli altri.

Lavorare e servire. Il lavoro è vissuto spesso come luogo della propria affermazione, terreno battuto dall'ambizione, dalla vanità, dallo spirito di dominio. Nell'insegnamento e nella vita di Mons. Escrivá de Balaguer, il lavoro riacquista pienamente il suo carattere di collaborazione al disegno divino della creazione e della redenzione. L'unico trionfo che ci ha insegnato a desiderare con tutte le forze è quello della Croce, che voleva porre al vertice di ogni attività umana. Proprio in questo modo egli riuscì a fondere, non solo nella teoria, bensì nella realtà di ogni giornata, due concetti che appartengono all'essenza stessa dello spirito dell'Opus Dei e che tutti i membri dell'Opera —laici e sacerdoti, uomini e donne— debbono incarnare nella propria vita: anima veramente sacerdotale e mentalità pienamente laicale.

Anima sacerdotale e mentalità laicale: queste parole, con cui Mons. Escrivá descriveva i poli della santificazione del lavoro, non costituiscono soltanto un'espressione letterariamente felice. Si tratta di un'intuizione teologica profondissima, capace di illuminare il senso più autentico del lavoro, cioè appunto il servizio. Anima sacerdotale: il cristiano che porta in sé la vita della grazia trasforma la propria attività professionale in un'opera divina; con l'esempio della rettitudine a cui sa improntare il lavoro, ne fa un mezzo di unione con gli altri uomini e ne ricava continue occasioni per sospingerli verso la luce della verità e per aiutarli a raggiungere quella serenità interiore che solo la coscienza di essere in pace con Dio può dare. Mentalità laicale: la professione segna il luogo dell'inserimento del cristiano nel mondo e, mostrandogli il valore positivo delle realtà terrene in quanto create da Dio, lo aiuta ad amare il lavoro e a comprendere che esso gli è stato affidato da Dio e a lui deve tendere.

Il primo campo in cui tale ambizione di servire dovrà esprimersi è l'indiscussa adesione alla fede della Chiesa e lo sforzo per tradurla in pratica, senza alcuna riserva, nella propria vita. L'esistenza sacerdotale di Mons. Escrivá è stata una continua catechesi della dottrina cristiana: posso affermare che egli spese tutte le proprie energie, con eroico sacrificio, per far giungere ovunque l'eco della dottrina di Cristo e percorse interi continenti, predicandola a viva voce dinanzi a centinaia di migliaia di anime, incurante della fatica, della salute, dell'età. Diffuse dappertutto l'insegnamento del Magistero ecclesiastico su Dio, sui sacramenti, sulla morale cattolica, sui doveri del cristiano dinanzi al Supremo Giudice e dinanzi alla società. Il Fondatore dell'Opus Dei ci ha insegnato, con l'esempio prima ancora che con le parole, che vale la pena consumare la vita intera nello sforzo di difendere e di sviluppare nelle anime il dono di quella fede che opera per la carità[3]: non esiste tesoro più grande di questo, nulla che possa maggiormente arricchire il passaggio dell'uomo sulla terra. Egli assicurava che avrebbe dato la vita, e mille vite se le avesse avute, per la Chiesa e per il Papa. Chi lo vide e lo ascoltò non potrà mai dimenticare quel volto, quell'accento appassionato, quell'umanità così palpitante e piena di Dio che rendevano irresistibilmente attraenti le chiare esigenze della nostra fede cattolica.

Nell'ardente desiderio di servire che abbiamo appreso da Mons. Escrivá palpita tutta la vibrazione dell'autentica umiltà cristiana. Tra i più concreti atti di umiltà, vorrei ricordare la confessione sincera e contrita dei nostri peccati nel Sacramento della Penitenza. Il sacerdote non solo rappresenta Cristo, ma è Cristo stesso nel momento in cui ci impartisce l'assoluzione sacramentale: Gesù che si china su di noi con infinita dolcezza e ci perdona. Mediante questo sacramento della misericordia divina, strappiamo dal cuore il peccato, il peso di tanta debolezza, di tanta superbia, cioè l'unico ostacolo che può impedirci di servire Dio e gli uomini; ed il Signore ci colma della sua grazia. La Confessione sacramentale non è principalmente un modo per ritrovare la pace: è anche questo, ma prima di tutto è il modo per riacquistare o intensificare in noi la grazia. Lasciate che vi ricordi ciò che con santo zelo ci raccomandava Mons. Escrivá: oltre ad accostarvi personalmente ad esso, portate altre anime al confessionale! Le restituirete all'amicizia con Dio, le renderete felici e quella felicità inonderà poi la loro famiglia, il loro ambiente di lavoro, questo mondo assetato di Dio.

Non posso ricordare il 26 giugno 1975 senza commozione, perché il distacco fu duro ed occorre una grazia speciale per rassegnarsi alla perdita di una presenza così amabile, di una guida così dolce e sicura. Ma il Signore ha concesso al nostro Fondatore di continuare ad assistere tutti noi, che privatamente ricorriamo con filiale fiducia alla sua intercessione. Fra pochi mesi si compiranno anche dieci anni da quando Iddio volle porre sulle mie spalle l'eredità di Mons. Escrivá de Balaguer. In questi anni ho sperimentato in modo particolare —non è vana presunzione da parte mia— questa comune esperienza della vicinanza spirituale del nostro carissimo Fondatore, ne ho toccato con mano l'aiuto. A tutti voi chiedo di pregare per me: rivolgetevi a lui e supplicatelo, come io faccio ogni giorno per voi, di aiutarmi ad essere anch'io un "servo buono e fedele".

Il Signore inviò in quest'epoca tanto tribolata del mondo e della Chiesa il suo Servo Josemaría. Oggi Iddio accende nella nostra anima la certezza della sua potente mediazione spirituale in ogni circostanza della nostra vita di creature piccole, ma capaci dei desideri più grandi. Che la Madonna, Madre della Chiesa, Madre dei cristiani, Virgo fidelis, mantenga sempre viva in noi la percezione della nostra pochezza e la coscienza della incomparabile dignità della nostra vocazione al servizio della Chiesa.

[1] Matth. XXV, 21.

[2] Cfr. Matth. V, 48.

[3] cfr. Galat. V, 6

Romana, n. 1, Gennaio-Dicembre 1985, p. 64-67.

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