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Sacerdote di Gesù Cristo : Sulla missione ecclesiale del Beato Josemaría Escrivá Fondatore dell’Opus Dei

INTRODUZIONE

FATTI STORICI, SIGNIFICATI TEOLOGICI

Laddove la Volontà salvifica di Dio si manifesta esplicitamente alla coscienza del credente, nelle realtà che strutturano la vita della Chiesa o attraverso una persona designata per svolgere un ruolo specifico, ha luogo un avvenimento di natura non soltanto storico-temporale ma anche teologica. Tale avvenimento possiede un significato che richiede d’essere considerato sia sotto il profilo della storia che, soprattutto, alla luce della fede. Va, cioè, analizzato in rapporto all’intera storia della salvezza.

Dio ha eternamente ordinato le proprie azioni nei confronti degli uomini in una oikonomia nella quale si esprimono e dispiegano amorevolmente in nostro favore i misteri della theologia, in quanto contesto permanente e immutabile dei doni divini. Se il pensiero cristiano può riflettere sul significato teologico dei fatti storici, e persino concepire una vera teologia della storia (elaborazione intellettuale tipicamente cristiana) è proprio per la profonda certezza, derivante dalla fede, che l’uomo e tutta la realtà creata sono stati concepiti e voluti da Dio all’interno di tale contesto. Essi trovano quindi la fonte ultima del proprio significato nella generosa e gratuita comunicazione della Vita trinitaria alla creatura amata: all’uomo, amato nell’Amato, elevato e chiamato in Cristo per lo Spirito Santo alla condizione di figlio del Padre.

Il mistero del Dio-Uomo, pienezza della donazione trinitaria, è, conseguentemente, la luce che ci consente di raggiungere, con il suo splendore, la conoscenza del “mistero del Padre e del suo amore” e, in esso, il mistero della nostra condizione e del nostro destino filiale. Cristo è la luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo (Gn 1, 9). Nella sua vita, morte e resurrezione e nel Dono dello Spirito Santo che da esse promana sull’uomo redento, si trova la chiave di volta dell’economia salvifica e della storia umana costruita su di essa. Perciò qualunque avvenimento appartenente a quest’ambito —qualunque evento latore e testimone della sacramentalità della Chiesa—, dev’essere accolto e studiato in rapporto a Cristo e alla sua missione, nonché al Corpo che ne prolunga la presenza e l’efficacia salvifica sino alla fine dei tempi.

La vocazione sacerdotale e la missione fondazionale del Beato Josemaría Escrivá costituiscono, nella loro unità, di cui parleremo, un avvenimento dotato di tali caratteristiche. Lo approfondiremo analizzando il contenuto dei dati storici per poi proporci, in base ad essi, la questione teologica che vi soggiace e che potrebbe essere così formulata: «Se, come provato dagli studi biografici e dalle ricerche storiche, Dio ha chiamato Josemaría Escrivá anzitutto al sacerdozio, in quanto via o condizione per chiamarlo poi a fondare l’Opus Dei, stabilendosi così un evidente rapporto di continuità temporale e di “causalità” (reciproca esigenza) tra la vocazione sacerdotale e la missione fondazionale, come esprimere il fondamento della correlazione teologica che accompagna ed illumina tale nesso storico»? Oppure: come interpretare teologicamente che egli dovesse essere chiamato al sacerdozio prima di ricevere la successiva missione fondazionale e proprio in funzione di essa?

Questi enunciati ci pongono dinanzi ad una questione storico-teologica molto interessante sulla figura del Beato Josemaría, che certamente darà luogo in futuro ad ulteriori studi. Nella sua formulazione più diretta, la questione sarebbe: qual è la relazione tra i doni sacramentali ricevuti come sacerdote e i doni carismatici che l’accompagnarono nello svolgimento della sua missione specifica? Se si considera che il dono ministeriale per eccellenza è la potestà di agire in persona Christi Capitis, cioè, la partecipazione alla capitalità di Cristo rispetto alla Chiesa, la domanda potrebbe essere questa: «In che modo e per quale ragione, fatta salva la libera Volontà divina dispositiva e sempre nel quadro della presente economia della salvezza, la partecipazione ministeriale alla capitalità di Cristo era condizione necessaria perché il Beato Josemaría Escrivá fosse Fondatore dell’Opus Dei?».

Sembra evidente che tale questione andrebbe studiata prendendo come punto di partenza la riflessione sulla natura e sulla missione dell’Opus Dei, per proiettarne la luce sulla condizione sacerdotale del Fondatore. È la luce che cercheremo di evidenziare nelle presenti pagine. Ma, a questo scopo, non è necessario che lo studio prenda le mosse dal punto appena indicato; speriamo piuttosto che esso venga raggiunto al termine, dopo un’indagine che metta a fuoco i fatti storici[1].

I. IL BEATO JOSEMARÍA, SACERDOTE DI CRISTO

CORNICE ESSENZIALE DI UNA VITA E DI UNA MISSIONE

Nella prima parte della ricerca considereremo alcuni aspetti della vocazione sacerdotale di Josemaría Escrivá, ricordando i dati biografici salienti. Sulla premessa di questa chiamata —caratterizzata da alcune circostanze singolari—, e della risposta con cui egli l’accolse, cercheremo di determinare la cornice storica all’interno della quale egli riceverà e svilupperà la propria missione fondazionale. Oltre ad analizzare i fatti, ci soffermeremo sul contenuto e sul significato teologico del quadro risultante, poiché da ambedue i punti di vista (quello storico e quello teologico) il sacerdozio del Beato Josemaría offre numerosi spunti di riflessione.

A. Fatti che configurano la cornice fondazionale

1. Perché sacerdote?: una domanda che precede il 2 ottobre 1928.

Nei racconti autobiografici in cui Josemaría Escrivá racconta in modo succinto i fatti più rilevanti della sua vita[2], compaiono quasi sempre anche i dati fondamentali sulla chiamata al sacerdozio. Ciò significa che essa era per lui un fatto di tale rilievo da dovervi necessariamente accennare nel riferire sulla propria persona e sulle proprie opere.

Ciò, del resto, appare ovvio nel caso di qualunque sacerdote chiamato a raccontare gli avvenimenti della propria vita: l’origine e le circostanze della vocazione sacerdotale avrebbero sempre un ruolo di spicco nel ricordo e nel racconto. Ma in questo caso si aggiunge un fattore che lo stesso protagonista non mancava di ricordare e che ci può aiutare a capire meglio. Esso emerge in alcune narrazioni autobiografiche sotto forma di una domanda concisa, in prima persona: «perché mi sono fatto sacerdote?», di cui cercheremo di indagare non solo la risposta, ma anche il perché della domanda.

Talvolta il Beato Josemaría commentava che egli stesso si era rivolto spesso tale domanda negli anni trascorsi tra la decisione di divenire sacerdote (ultimi giorni del 1917 e primi mesi del 1918) e la data fondazionale dell’Opus Dei (2 ottobre 1928). Ecco, ad esempio, un testo che allude ad uno dei suoi atteggiamenti più caratteristici di quel periodo: «(...) Ed io, quasi cieco, sempre in attesa del perché: perché mi faccio sacerdote? Il Signore vuole qualcosa, ma che cosa? E in un rozzo latino, raccogliendo le parole del cieco di Gerico, ripetevo: Domine, ut videam! Ut sit! Ut sit! Avvenga ciò che Tu vuoi, e che io non so»[3].

Questo ricordo, dato il rilievo che aveva nella coscienza del Beato Josemaría Escrivá, costituisce un dato importante anche per il nostro studio: la chiamata al sacerdozio si presentò fin dal primo momento come un mezzo necessario per un altro fine, ulteriore ad esso... Non è comune che la chiamata al sacerdozio si presenti così: come un qualcosa voluto da Dio, ma che nel contempo non esaurisce ciò che Egli vuole. E non è abituale neppure che l’interessato —in questo caso un ragazzo di 16 anni— percepisca senza dubitarne e fin dal primo momento questa singolare caratteristica della propria vocazione. Non si può dimenticare che il sacerdozio non solo costituisce una realtà teologicamente piena, dotata di significato in se stessa e perciò non bisognosa di alcun’aggiunta che le dia senso; ma anche psicologicamente esso si presenta al chiamato come un orizzonte di pienezza (pienezza del dono di sé a Dio e pienezza di servizio alla Chiesa...). La condizione sacerdotale non è mai —né teologicamente né psicologicamente— un passaggio verso qualcos’altro che non sia la sua stessa ricezione ed il suo esercizio per il bene della Chiesa. Umanamente non vi è nulla che ne vada al di là e, ponendosi come un traguardo ulteriore, ne rappresenti la vera sorgente di significato. Il sacerdozio è una realtà in sé, sostantiva, sia in quanto sacramento e sia per il suo statuto ecclesiale ed esistenziale.

Josemaría avverte sin dal principio un duplice stimolo dell’azione di Dio in lui (la chiamata al sacerdozio e un “qualcos’altro” unito ad essa ed ancora ignoto), ma fin dal principio vivrà la donazione alla vocazione in modo assoluto. Ciò offre uno spunto di notevole interesse per noi. Negli anni del seminario e del ministero sacerdotale precedenti alla data fondazionale dell’Opus Dei, il suo impegno nella vocazione sacerdotale è pieno ed assoluto, e così sarà per sempre. Il sacerdozio costituiva per lui già dall’origine un’esigenza ed una condizione irrecusabili della volontà di Dio, sicché quel “qualcos’altro”, ancora ignoto, che Dio gli faceva presagire non relativizzava l’autenticità del suo cammino sacerdotale, bensí —senza indebolirne l’essenza e il contenuto— lo orientava verso un reale, ma tuttora conosciuto, volere divino.

«Perché mi son fatto sacerdote? Perché pensai che in questo modo sarebbe stato più facile compiere una volontà di Dio, che non conoscevo. Da circa otto anni prima dell’ordinazione la presentivo, ma non sapevo che cosa fosse, e non lo seppi fino al 1928. Per questo mi feci sacerdote»[4]. Queste parole, come le precedenti, mettono a fuoco la questione essenziale. Nell’anima di quel ragazzo, che decide di diventare sacerdote perché sa di essere indubbiamente chiamato da Dio, fin dall’inizio della chiamata sono rimaste scolpite una certezza e un interrogativo: Dio vuole che io sia sacerdote, ma vuole anche “qualcos’altro”. Che cosa?

È importante osservare più da vicino il quadro che si prospetta dinanzi a noi, per cercare di discernere la fisionomia della specifica chiamata di Dio a Josemaría:

—C’è, in primo luogo, una vocazione divina per lui inattesa e imprevedibile: «Non avevo mai pensato di diventare sacerdote, o di dedicarmi a Dio. Non mi ero posto il problema, perché ritenevo che non mi riguardasse»[5]. «Anzi: mi dava fastidio il pensiero di poter un giorno arrivare al sacerdozio (...). Amavo molto i sacerdoti, perché in casa avevo ricevuto una formazione profondamente religiosa; mi avevano insegnato a rispettare, a venerare il sacerdozio. Ma non (lo volevo) per me: per qualcun altro»[6].

— Questa venerazione per il sacerdozio dimostra infatti una profonda formazione cristiana, intrisa delle disposizioni d’animo riscontrabili in tutta la tradizione cristiana. Il giovane Josemaría guarda al sacerdozio con quella consapevolezza profonda e semplice che è racchiusa nella multisecolare venerazione di cui è partecipe. Quando gli si svelerà la volontà di Dio e nella sua anima si accenderà la luce del sacerdozio, comprenderà il significato fondamentale di ciò che Dio gli chiede: essere un sacerdote nella Chiesa, un sacerdote secolare. Rimane tuttavia l’oscurità del perché.

— Josemaría comunica agli altri (a suo padre per primo) la decisione di diventare sacerdote: è la certezza senza ombre che Dio ormai ha acceso in lui. Ma non accenna all’altra certezza, ancora pervasa di oscurità. Capisce che cosa vuol dire essere sacerdote e sa che Dio vuole che egli segua questo cammino in tutta normalità, seguendo il processo di formazione e la disciplina stabilita dalla Chiesa. In questi termini gli altri comprendono la sua decisione ed in questo senso si indirizzano i consigli che riceverà. «Vidi con chiarezza che Dio voleva qualcosa, ma non sapevo che cosa. Per questo parlai con mio padre e gli dissi che volevo essere sacerdote (...). Fu l’unica volta che ho visto delle lacrime nei suoi occhi. Mi rispose: guarda, figlio mio, se non diventi santo, perché vuoi essere sacerdote? Comunque non mi opporrò a ciò che desideri. E mi presentò a un suo amico sacerdote, perché mi orientasse»[7].

— Le narrazioni biografiche inquadrano l’episodio nel suo contesto e aiutano a capire meglio la ragione di quelle lacrime del padre di Josemaría[8]. A noi basti considerare la scena come testimonianza indicativa dell’aspetto che stiamo esaminando: l’annuncio da parte del figlio, e la presa di coscienza da parte del padre, di una decisione che ha per oggetto il sacerdozio, in un contesto familiare cristiano nel quale le esigenze della vita sacerdotale vengono comprese in tutta la loro densità. Tutto ciò emerge implicitamente dalla conversazione di Josemaría con il padre, dalle parole e dalle lacrime di questi (conscio che il cammino intrapreso dal figlio comporta una dedizione esclusiva e ne preclude altri, nei quali il genitore aveva legittimamente riposto le proprie speranze), e dai consigli che riceverà dai sacerdoti amici del padre con i quali parlerà. Josemaría presagisce che Dio vuole qualcosa da lui in quanto sacerdote, e decide di diventarlo, con tutte le conseguenze che ne derivano, giacché quel “qualcos’altro” sarebbe arrivato proprio per questa via. «Vidi con chiarezza che Dio voleva qualcosa, ma non sapevo che cosa (...). Non sapevo quello che Dio voleva da me, ma era —evidentemente— una elezione. Qualunque cosa fosse, sarebbe venuto... E intanto mi rendevo conto che io non servivo a nulla e recitavo una litania, che non è espressione di falsa umiltà, ma di conoscenza di me stesso: non valgo nulla, non ho nulla, non sono nulla, non so nulla...»[9]. Ciò che sarebbe accaduto, secondo quanto lasciano intravvedere queste parole e i fatti che stiamo commentando, non veniva considerato da Josemaría come un qualcosa che, pur avendo un qualche rapporto con il futuro sacerdozio, ne avrebbe toccato la sostanza. Con quella “litania” egli mostra d’aver compreso che la sua vita è entrata in una dinamica divina sconosciuta e per la quale si ritiene incapace. Tutto ci ricorda l’atteggiamento del profeta Geremia di fronte alla chiamata di Dio (cfr. Ger 1, 6).

— Il quadro può essere completato da una frase molto significativa, con cui Josemaría descriveva le proprie disposizione interiori dopo gli incontri con il sacerdote cui lo presentò suo padre e con altri sacerdoti conoscenti della famiglia Escrivá: «Non era questo che il Signore voleva da me, e me ne rendevo conto: non volevo fare il sacerdote tanto per fare il sacerdote»[10]. Che significa questo nel contesto di un’indubbia chiamata al sacerdozio? La chiamata di Dio al giovane Escrivá, come stiamo vedendo, aveva un duplice contenuto. In primo luogo, consisteva nella vocazione sacerdotale “normale” e, una volta accolta, avrebbe provocato un notevole cambiamento nella vita dell’interessato (andare in Seminario, abbandonare altre possibilità future fino ad allora aperte e persino desiderate...). La vocazione sarebbe culminata nella ricezione del sacramento dell’Ordine, per svilupparsi poi nell’esercizio della funzione ministeriale che naturalmente vi si accompagna. Se qualcuno è sacerdote nella Chiesa, lo è per il ministero; su questo punto Josemaría non aveva dubbi, giacché questa realtà fa parte integrante dell’immagine del sacerdote nella tradizione della Chiesa. Ma, in secondo luogo, c’era la certezza, altrettanto indubbia, che quella chiamata al sacerdozio e all’esercizio del ministero si poneva in funzione di un’ulteriore volontà divina e, per così dire, di un plus di significato ancora ignoto. In questo senso, come rivelano le sue parole, Josemaría era cosciente di essere chiamato non solo all’esercizio comune del ministero (non solo al consueto lavoro pastorale), ma anche per una finalità “aggiunta”, non compresa di per sé nel servizio pastorale abituale.

La storia ha dimostrato che tale finalità “aggiunta”, questa nuova sorgente di significato, allora ignota ma in certo qual modo già attiva, era una missione fondazionale imprevedibile, in quanto basata esclusivamente sulla libertà di Dio: sulla indeducibilità del suo Amore e della sua Volontà salvifica. Senza inoltrarci adesso nel contenuto della missione, che analizzeremo in seguito, bisogna sottolineare come la sua presenza, latente all’interno della vocazione sacerdotale di Josemaría, trasformasse quest’ultima nel seno della propria gestazione. Perciò, pur senza identificarsi con l’esercizio consueto del ministero, la missione appare inseparabilmente collegata fin dall’origine alla funzione ministeriale del futuro sacerdote. Ciò che Dio determinava e chiedeva (la missione latente) si rivelava connaturale al sacerdozio e al ministero.

Tutto ciò è molto importante per individuare e descrivere i tratti morfologici della missione fondazionale, ancora occulta ma già attivata da Dio nello spirito del giovane Josemaría. Era una missione per un sacerdote. E questa qualità irradierà la propria luce sulla natura della fondazione che, a sua volta, illuminerà la figura sacerdotale del Fondatore. Ne parleremo nella seconda parte di questo lavoro, ma ci resta ancora da concludere la prima.

2. Piena dedizione al sacerdozio, sebbene in attesa

Gli avvenimenti storici successivi sono contrassegnati dalle medesime caratteristiche generali e rivestono un significato globale in sintonia con gli elementi appena rilevati. In breve: il cammino sacerdotale seguito da Josemaría è quello normale per un futuro sacerdote diocesano, poiché egli dovrà essere anzitutto un “comune” sacerdote nella Chiesa. L’insieme dei fatti, in estrema sintesi, è costituito dal processo della sua formazione sacerdotale in Seminario (dapprima a Logroño, poi a Saragozza), dalla ricezione dei Sacri Ordini e dal successivo esercizio del ministero pastorale in un piccolo paese rurale (Perdiguera), in una parrocchia cittadina di Saragozza e, infine, in diversi ambienti di una grande città come Madrid e, in particolare, in una cappellania che lo pone in stretto contatto con l’emarginazione, la malattia e la povertà.

Non è necessario ora addentrarci nei particolari della vita spirituale di questo seminarista, poi giovane sacerdote, e del suo progresso nell’intimità con Dio: tali dimensioni progredivano, scandite dai fatti qui considerati (non possiamo dimenticare che stiamo parlando di un uomo che sarà elevato agli onori degli altari); qui ci interessa concentrare la nostra attenzione su alcuni aspetti significativi di questo periodo.

Uno di questi è l’intensità con cui Josemaría affronta la formazione sacerdotale. Nella sua anima palpita una profonda inquietudine, che oltrepassa i limiti immediati del quotidiano (e lo conduce all’orazione e al sacrificio), tuttavia egli vive asai intensamente il periodo di formazione, senza lasciare che nulla lo distragga dall’osservanza dei propri specifici doveri. Il suo atteggiamento ci dice che egli si sa chiamato a percorrere tale cammino con tutta la perfezione possibile: sa che questa è la via ordinaria per giungere al sacerdozio e a quel qualcos’altro che Dio vuole. Col permesso dei superiori riesce ad armonizzare tale formazione con gli studi universitari presso la Facoltà di Giurisprudenza, e questo rivela l’impegno a perfezionare la propria preparazione intellettuale ed umana, ma non al margine o a danno di quella specifica per il servizio sacerdotale, che detiene il primo posto nei suoi interessi e nella sua attività.

In tutto questo periodo, dal Seminario in poi, non mancano a Josemaría ostacoli, alcuni dei quali molto consistenti, che avrebbero potuto frenare in qualche modo lo sviluppo ordinario della vocazione sacerdotale; ma nulla lo distoglie da ciò che Dio gli chiede. Risulta per noi particolarmente significativa la lettura di alcuni cenni autobiografici, che alludono alle difficoltà di quegli anni e lasciano trapelare l’atteggiamento di Josemaría: «Erano colpi di scure di Dio Nostro Signore per preparare —da questo albero— la trave che doveva servire, malgrado la sua debolezza, per fare la sua Opera. Io, quasi senza rendermene conto, ripetevo: Domine, ut videam! Domine, ut sit! Non sapevo di che si trattava, ma andavo avanti, avanti, senza corrispondere pienamente alla bontà di Dio, aspettando ciò che più tardi avrei ricevuto: una collezione di grazie, una dopo l’altra, che non sapevo come qualificare e che chiamavo operative, perché dominavano talmente la mia volontà, che quasi non dovevo sforzarmi»[11]. Proseguiva e sperava: questi due verbi descrivono eloquentemente la situazione, in cui si percepisce con chiarezza l’azione di Dio. La Provvidenza protegge il suo cammino sacerdotale.

I dati relativi ai suoi primi servizi pastorali —dopo l’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 28 marzo 1925— mostrano una totale dedizione al ministero[12], indipendentemente dal fatto che dentro di sé egli continuasse a sentire di dover ancora aspettare. Aveva una coscienza assai viva del dovere di servire tutti come sacerdote. Dobbiamo di nuovo ricordare che stiamo parlando di un giovane sacerdote incamminato seriamente verso la santità: per lui il termine “servizio” significa donazione pastorale illimitata, sull’esempio di Cristo. Don Josemaría si considera soprattutto «sacerdote di Cristo». Questo sarà sempre il titolo che compendia tutto il suo essere, il più suo alto onore. Anni più tardi scriverà: «Sono un sacerdote secolare: un sacerdote di Cristo, che ama appassionatamente il mondo»[13].

Un’attenta lettura delle sue opere consente di scoprire risonanze sacerdotali molto profonde nelle rare allusioni personali che vi compaiono; quest’impronta —la traccia dell’incontro spirituale con Cristo Sacerdote, che raggiungerà in lui un grado elevatissimo— è già presente nei primi anni di abnegato esercizio del ministero. Anche chi non conoscesse bene gli avvenimenti biografici può captare l’intensa coscienza ministeriale da cui è pervaso il Beato Josemaría: dalle sue parole, infatti, traspare una dedizione pastorale generosa, intrisa di impegno al servizio della verità di Dio e dell’uomo[14], della carità[15], e della giustizia[16], fino alle ultime conseguenze[17].

3. Una missione fondazionale in un’esistenza sacerdotale

Tre anni dopo l’ordinazione, mentre si trova immerso in un’intensissima dedizione al ministero, quel giovane sacerdote di Cristo riceverà una missione fondazionale. È il 2 ottobre 1928[18]. Quello che Dio gli ispira quel giorno si presenta al suo spirito, al tempo stesso, come un’illuminazione e come una missione che gli viene affidata. Egli comprende che ciò è proprio quel “qualcos’altro” contenuto nella chiamata originaria: l’ulteriore e tanto attesa sorgente di significato degli avvenimenti che si sono succeduti sino a confluire nell’esistenza sacerdotale. Ma, inoltre, esso deve prendere vita in una fondazione.

È interessante soffermarsi sui fatti, sul contesto in cui nasce e comincia a svilupparsi l’opera fondazionale di don Josemaría. Essi sembrano rivelare fin dall’origine, come abbiamo visto, un’esistenza sacerdotale orientata già a radice verso una specifica missione fondazionale, oppure —se si vuole osservare il fenomeno al rovescio— ad un’attività fondazionale di natura tale da dover nascere in un’esistenza sacerdotale. C’è una reciproca riferibilità e, per così dire, una “causalità” ad invicem. Ma in che senso?

Bisogna tornare a sottolineare la sostantività teologica del sacerdozio, il quale non riceve contenuto e significato da nulla di esterno ad esso (cioè, estrinseco alla propria essenza). L’essenza del sacerdozio è costituita dalla consacrazione sacramentale e dalla conseguente capacità di esercitare la funzione ministeriale. Nulla può incidere dall’esterno su questo nucleo teologico. Ciò significa, fra l’altro, che il sacerdozio viene ricevuto nella Chiesa per esercitare il ministero e non per altri fini: la consacrazione è finalizzata al compimento della funzione. Non esiste un sacerdozio “speciale” o, per così dire, un sacerdozio “per questo” o “per quello”. C’è solo un sacerdozio per il ministero. Ne deriva, per tornare al caso in esame, che il sacerdozio di quell’uomo, scelto per una missione fondazionale, non era essenzialmente determinato dalla suddetta missione: non era un sacerdozio speciale per fondare l’Opus Dei. Don Josemaría Escrivá era sacerdote, come qualunque altro, per esercitare la funzione ministeriale nella Chiesa.

Ebbene, i dati storici dimostrano che la chiamata al sacerdozio portava iscritto anche un orientamento alla missione fondazionale. Josemaría non aveva ricevuto un sacerdozio “speciale” per essere Fondatore dell’Opus Dei, ma per essere ministro di Cristo nella Chiesa; tuttavia era stato chiamato al sacerdozio per compiere quella fondazione. Queste due realtà sono entrambe vere (e di Dio) allo stesso tempo; e questo ci obbliga a sottolineare la necessaria connessione fra il contenuto della funzione ministeriale e quello della missione fondazionale. Inoltre, poiché il contenuto del ministero può venire determinato solamente dal proprio statuto teologico interno (e non da qualcosa d’esterno), ne consegue che la necessità di tale connessione deriva dalla missione fondazionale. Era quest’ultima a richiedere per natura di radicarsi su un “terreno” ministeriale: il suo contenuto specifico le imponeva di nascere e di svilupparsi in essenziale dipendenza dall’esercizio della funzione ministeriale di un sacerdote di Cristo. Affermiamo perciò, e ci sembra importante sottolinearlo, che l’Opus Dei così come Dio lo volle (per la sua specifica natura, potremmo dire) doveva essere radicato nel Corpo di Cristo mediante la condizione sacerdotale del proprio Fondatore. Questa conclusione aprirà un interessante orizzonte di riflessione teologica.

Prima di concludere questa parte del nostro studio —dedicata alla descrizione della cornice fondazionale—, riprendiamo alcuni testi del Beato Josemaría che confermano in modo implicito quanto appena scritto. In modo implicito, poiché questi brani non svolgono considerazioni strettamente teologiche sull’Opus Dei o sul Fondatore, ma piuttosto di carattere spirituale, e quindi la base teologica del ragionamento rimane latente. Tre di questi passi, paralleli tra loro, affrontano la questione quasi dal di fuori, trattando un altro argomento, ma sono ugualmente molto indicativi. Il quarto testo, invece, coglie il nucleo stesso del problema, pur situandosi su un piano di comprensione che eccede il nostro.

Nei primi tre torna una frase che il Beato Escrivá usava spesso per riferirsi all’inizio della propria missione fondazionale, sottolineando l’insieme delle limitazione umane che avevano accompagnato la nascita dell’Opus Dei. Pur partendo da prospettive differenti, essi coincidono nell’evidenziare la giovinezza del sacerdote che aveva ricevuto quella missione, ed evocano poi altri elementi:

— Il primo mette l’accento sulla carenza di mezzi umani da parte del Fondatore: «Come fu fondata? Senza alcun mezzo umano. Io avevo solo 26 anni, grazia di Dio e buon umore. L’Opera nacque piccola: non era altro che l’aspirazione di un giovane sacerdote che si sforzava di fare ciò che Dio gli chiedeva»[19].

— Il secondo esprime la profonda coscienza che quel giovane sacerdote aveva della propria missione: «Quando avevo ventisei anni e compresi in tutta la sua profondità il dovere di servire il Signore nell’Opus Dei, chiesi a Dio, con tutta l’anima, ottant’anni di gravità. Chiedevo più anni al mio Dio —con ingenuità da principiante, in modo infantile— per sapere usare il tempo, per imparare a utilizzare ogni minuto al suo servizio. Il Signore sa concedere tali ricchezze»[20].

— Il terzo passo rivela, sulla scia del ricordo delle origini, una viva esperienza del potere di Dio: «Avevo ventisei anni, ripeto, la grazia di Dio e buon umore: nient’altro. Ma così come gli uomini scrivono con la penna, il Signore scrive con la gamba del tavolo, perché si veda che è Lui a scrivere: è questo che è incredibile, è questo che è meraviglioso. C’era da creare tutta la dottrina teologica e ascetica, e tutta la dottrina giuridica. Trovai una soluzione di continuità di secoli: non c’era nulla. L’Opera intera, agli occhi umani, era uno sproposito. Per questo taluni dicevano che ero pazzo e che ero un eretico, e tante altre cose»[21].

A prescindere dalla prospettiva propria di ciascuno, questi testi rivelano la sproporzione fra le esigenze della missione fondazionale ed i mezzi umani per condurla a termine. Ma sono utili anche per cogliere il fondamento essenziale assegnatole da Dio: la condizione sacerdotale del Fondatore. La nascita dell’Opus Dei aveva bisogno non tanto della sua esperienza umana e pastorale, che, a ventisei anni e dopo solo tre anni dall’ordinazione, non poteva consentirgli neppure di concepire l’immensa realtà ecclesiale che ne sarebbe scaturita, quanto del suo sacerdozio. Il Fondatore era soltanto un giovane sacerdote: giovane (la giovinezza non sembra costituire un ostacolo), ma sacerdote (ecco il dato essenziale). E, in quanto sacerdote, capace di partecipazione ministeriale alle azioni di Cristo Capo della Chiesa: azioni con cui il Redentore edifica ed alimenta il suo Corpo, disponendolo a continuare l’opera redentrice. Quel giovane sacerdote doveva fondare l’Opus Dei senza mezzi umani, ma “con il sacerdozio ministeriale”, cioè con il mezzo sacramentale con cui Cristo e lo Spirito Santo danno vita soprannaturale ed efficacia salvifica alla Chiesa.

Il quarto testo, come abbiamo detto, ci suggerisce considerazioni molto più profonde, sebbene non eterogenee rispetto alle precedenti. Le parole del Beato Josemaría, che rivelano un’intima azione soprannaturale di Dio nella sua anima, dicono:

«Sono arrivato a sessantacinque anni per fare una scoperta meravigliosa. Mi affascina celebrare la Santa Messa, ma ieri mi è costata una fatica tremenda. Un duro sforzo! Ho visto che la Messa è veramente Opus Dei, lavoro, come lavoro è stata per Cristo la sua prima Messa: la Croce. Ho visto che il compito del sacerdote, la celebrazione della Santa Messa, è un lavoro per confezionare l’Eucaristia; vi si sperimenta dolore e gioia, e stanchezza. Ho sentito nella mia carne la spossatezza di un lavoro divino.

»Anche a Cristo è costata fatica. La sua Santissima Umanità faceva resistenza ad aprire le braccia sulla Croce, in gesto di eterno Sacerdote. La celebrazione del Santo Sacrificio non mi è mai costata tanto come ieri, quando ho sentito che anche la Messa è Opus Dei. Mi ha dato molta gioia, ma mi sono ritrovato sfinito.

»Sono dottore in Teologia, e accademico della Pontificia Accademia Romana di Teologia...; però questo lo si vede soltanto quando Dio lo vuole concedere. E poi, quando si racconta, lo si dice con la vergogna di non aver saputo comprenderlo fino ad allora. Ma non importa; non avete sentito San Paolo?: Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.

»Non è questione di sentimento, figli. Io non sento nulla: vado contropelo quasi sempre. Non è sentire: è vivere d’amore e di fede»[22].

Ci si consenta una sola annotazione, relativa all’argomento che stiamo studiando, benché queste parole si prestino a diverse considerazioni. Il Beato Josemaría narra un evento soprannaturale nel corso del quale ha compreso e sperimentato («ho visto», «ho sentito») che la celebrazione della Messa —azione ministeriale per eccellenza— è lavoro divino, operatio Dei, Opus Dei. Dio gli concesse quel giorno il dono di capire, in modo nuovo, che nell’azione sacramentale svolta nel Santo Sacrificio era racchiusa una profonda sorgente di significato riguardante la stessa missione fondazionale. Con quelle parole il Beato Josemaría non proponeva soltanto una considerazione ascetica, bensì la testimonianza di un’evidenza soprannaturale, chiara nella forma ma misteriosa nella radice.

Per quanto concerne la nostra ricerca, quest’avvenimento conferma che al Beato Josemaría, in quanto Fondatore dell’Opus Dei, fu concesso di sperimentare —nella luminosità del mistero— che il nucleo centrale della sua funzione di sacerdote (confezionare l’Eucaristia), possedeva una stretta relazione con la natura specifica della fondazione. In altri termini: gli fu permesso di sperimentare che l’azione ministeriale con cui si edifica e si alimenta la Chiesa (il compimento del Sacrificio), essendo veramente operatio Dei, opus Dei, costituiva come l’analogatum princeps della sua missione fondazionale. Dal suo stesso sacerdozio, si può dedurre, emerge la forza del carisma fondazionale; e dalla natura di questo carisma viene propiettata una luce sul perché della chiamata ad essere sacerdote di Cristo.

B. Essere Sacerdote: uno sguardo teologico alla cornice fondazionale

La condizione sacerdotale —che nel caso del Beato Josemaría Escrivá è, come abbiamo appena visto, la cornice essenziale della sua missione di Fondatore— racchiude in sé un contenuto teologico generale, su cui dobbiamo riflettere. Che cosa significa teologicamente essere sacerdote? O, nel nostro caso, quali sono le coordinate teologiche della fondazione dell’Opus Dei? Queste coordinate sono infatti le stesse che inquadrano teologicamente la persona del Fondatore, poiché la fondazione, in quanto avvenimento storico, è opera sua. Ma il Fondatore è caratterizzato teologicamente dalla condizione di ministro di Cristo, vale a dire, dalla partecipazione sacramentale alla capitalità di Cristo rispetto alla Chiesa. Questa è dunque la questione che dobbiamo affrontare: essa si riduce alla riflessione sul significato teologico dell’espressione “agere in persona Christi Capitis”.

La formula tradizionale “agere in persona Christi Capitis”[23] consente di esprimere con esattezza l’essenza della condizione ministeriale, come capacità di partecipare efficacemente, tramite la ricezione del sacramento dell’Ordine, alle azioni proprie della capitalità di Cristo rispetto alla Chiesa. Per determinare il suo significato teologico occorre rispondere brevemente a due domande: perché un sacerdote può esercitare efficacemente delle azioni salvifiche rappresentando Cristo Capo? Qual è il fine di tale capacità?

Perché un sacerdote può esercitare efficacemente delle azioni salvifiche rappresentando Cristo Capo? Qual è il fondamento dell’efficacia ministeriale? La risposta è una: la potestà ricevuta con il sacramento. In virtù della potestas conferitagli con l’Ordine, il sacerdote è reso partecipe dell’efficacia dello stesso Cristo nel compimento delle azioni specifiche del ministero. Ma qual è il fine di tale capacità? Perché gli viene conferita? Anche qui c’è una sola risposta: per rendere presente, come strumento, l’azione redentrice di Cristo; per prolungarne sacramentalmente la missione salvifica: per dare vita al suo Corpo e sostenere la sua missione.

Pertanto il fondamento della ministerialità, in quanto partecipazione alla capitalità di Cristo, è la potestà ricevuta, mentre la sua finalità è il rendere presente qui e ora, attraverso delle specifiche azioni, la salvezza come vita della Chiesa (e, nella Chiesa, del mondo). “Agere in persona Christi Capitis” significa sia una cosa che l’altra: il fondamento e la finalità dell’esercizio della funzione ministeriale. Dunque questa formula esprime la sacramentalità delle azioni sacerdotali rispetto alla vita della Chiesa. La condizione di ministro di Cristo si riferisce interamente a quest’ultima. In termini di rigore teologico la ministerialità (partecipazione alla capitalità di Cristo) dev’essere definita come pura relazione ad vitam Ecclesiae, la quale a sua volta dice relazione alla vita del mondo. Questa è l’essenza della funzione ministeriale, che denomineremo ecclesialità”: capacità di dar vita partecipatamente al Corpo di Cristo sulla terra, con potestà ed efficacia, per la salvezza del mondo.

In Cristo Sacerdote la relazione alla vita della Chiesa si manifesta e si dispiega come amore sponsale: la sua capitalità —“Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo” (Ef 5, 23)— si traduce nell’amore e nella donazione per la Chiesa (5, 25), per darle vita, cioè per santificarla, purificarla per mezzo dell’acqua e della parola, così da renderla santa e immacolata (5, 26-27). Queste espressioni paoline uniscono in modo implicito il dono amoroso di sé compiuto da Cristo con il dono sacramentale dello Spirito Santo alla Chiesa. Essa è Corpo di Cristo proprio in quanto vivificata dallo Spirito di Cristo. La Chiesa vive per opera dello Spirito. La dottrina del Corpo Mistico, tanto cara a San Paolo, consente d’esprimere sia la realtà teologica della Chiesa (l’unità organica, in un’unica vita, del Capo con le membra e di queste tra di loro), sia la sua origine (il dono dello Spirito, conseguenza del dono che Cristo fa della propria vita).

La formulazione di questa dottrina nel NT si presenta connessa e, in certo modo, conseguenziale alla capitalità universale di Cristo, concessagli dal Padre “quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto ha infatti sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1, 20-23). La capitalità universale di Cristo, conseguenza del suo sacrificio e della sua vittoria, si concentra, per così dire, nella capitalità rispetto alla Chiesa, suo Corpo in quanto animato dal suo Spirito. E questa unità dei due (Cristo e la Chiesa), che sono una cosa sola (Capo e Corpo) giacché possiedono uno stesso Spirito e una stessa vita (quella del Risorto), trova in San Paolo la migliore espressione nell’immagine dell’unità fondata sull’amore sponsale (cfr. Ef 5, 29-32).

Così dunque la capitalità universale di Cristo, unico Sacerdote, unico Mediatore dal quale deriva ogni salvezza (cfr. Eb 8, 1-6), si “condensa” nella sua capitalità rispetto alla Chiesa, alla quale Egli dà la propria vita per la vita del mondo. In questo senso si può affermare anche che la capitalità di Cristo si realizza di fatto, storicamente, come ecclesialità: come donazione sponsale ad vitam Ecclesiae.

Riferendo queste idee ai sacerdoti, ministri di Cristo che, nell’esercizio delle proprie funzioni specifiche, agiscono in persona Christi Capitis, partecipando della sua capitalità rispetto alla Chiesa, si deve dire che il loro ministero richiede di essere compiuto radicalmente come dono sponsale alla Chiesa e, in essa, alla missione salvifica. La traduzione di tale realtà teologica sul piano spirituale e personale del ministro (ciò che deve caratterizzare la sua coscienza di essere ministro di Cristo qui e ora) consiste principalmente in: a) un amore indiviso per la Chiesa e per la sua missione; b) una mentalità di servizio ad entrambe; c) la fedeltà all’unità organica della Chiesa su cui si fonda l’efficacia della missione.

II. IL BEATO JOSEMARÍA, FONDATORE DELL’OPUS DEI

IL SENSO DI UNA VITA E DI UN MINISTERO SACERDOTALE

Abbiamo fin qui studiato la cornice della vita e della missione fondazionale del Beato Josemaría Escrivá, cioè il suo sacerdozio: la condizione di sacerdote di Gesù Cristo. L’abbiamo esaminata attraverso gli avvenimenti biografici, mettendo in evidenza l’inserimento della missione fondazionale in questa cornice sacerdotale. Abbiamo visto che la missione non si identifica con l’esercizio del ministero del sacerdote-fondatore, ma, per grazia di Dio, nasce e si sviluppa sul fondamento della sua condizione ministeriale. Infine abbiamo rilevato brevemente il significato teologico e spirituale di tale condizione, in quanto partecipazione alla capitalità di Cristo. Questo il traguardo raggiunto dalla nostra riflessione sulla cornice sacerdotale della fondazione dell’Opus Dei da parte del Beato Josemaría.

Dopo quest’analisi, che proietta una luce importante sulla natura della fondazione, vogliamo adesso invertire i termini, passando a studiare come il contenuto della missione fondazionale si adegua a tale cornice sacerdotale. Perciò, dopo avere studiato come Josemaría Escrivá fu chiamato da Dio al sacerdozio per diventare —nella sua condizione sacerdotale— Fondatore dell’Opus Dei, cercheremo ora di vedere come l’origine e lo sviluppo di quella specifica missione fondazionale si articolino e si sviluppino attorno al sacerdozio del Fondatore. Se il sacerdozio fu la cornice della fondazione, questa costituì il senso della vita e del ministero sacerdotale del Beato Josemaría.

A. Missione fondazionale di un sacerdote

1. Gli inizi della fondazione

«In quel 2 ottobre 1928 si dischiusero al fondatore gli orizzonti verso i quali il Signore, affidandogli l’Opus Dei, lo chiamava: una mobilitazione di cristiani che, in tutto il mondo, in tutti gli strati sociali, attraverso il loro lavoro professionale, svolto con libertà e responsabilità altrettanto personali, ricerchino la propria santificazione santificando nel contempo, dall’interno, tutte le attività temporali, in un potente slancio di evangelizzazione per ricondurre a Dio tutte le anime»[24].

Queste parole di Mons. Alvaro del Portillo, Prelato dell’Opus Dei, offrono una descrizione completa della missione ricevuta da quel giovane sacerdote a Madrid il 2 ottobre 1928, festa dei Santi Angeli Custodi. La situazione che, in quel momento, definiva la persona e l’esistenza di don Josemaría era stata configurata da Dio come il tempo opportuno affinché egli la potesse accogliere. Cominciò allora a fare ciò che il Signore gli chiedeva: «Da quel momento non ebbi più “tranquillità” alcuna, e cominciai a lavorare, di malavoglia, perché resistevo a mettermi a fondare alcunché; ma cominciai a lavorare, a muovermi, a fare, a gettare le fondamenta»[25]. Non ci soffermeremo sulle questioni storiche, ampiamente trattate nella bibliografia sul Fondatore. Ci limiteremo a prospettarle nella prospettiva globale del nostro lavoro, seguendo la linea di riflessione abbozzata.

Nell’impronta del carisma fondazionale si profilavano nitidamente gli elementi essenziali della missione —compendiati sostanzialmente nel testo di Mons. del Portillo sopra citato—, i cui principali aspetti possono essere ulteriormente precisati con parole dello stesso Fondatore. Concentreremo perciò la nostra attenzione su alcuni passi delle sue opere che si riferiscono espressamente ai momenti iniziali della fondazione e contengono quindi un riflesso della luce ricevuta il 2 ottobre 1928.

Al centro dell’insegnamento del Fondatore troviamo l’annuncio della chiamata universale alla santità, come indica questo brano del 1930: «Siamo venuti a dire con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa (...), ma con la fede di chi si lascia condurre per mano da Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: il Signore chiama tutti, da tutti aspetta Amore: da tutti, ovunque stiano; da tutti, qualunque sia il loro stato, la loro professione o il loro mestiere»[26].

Il lavoro santificato e santificatore era contenuto nel nucleo del messaggio fondazionale, non come elemento accidentale ma come punto essenziale: «Il Signore, nel 1928, suscitò l’Opus Dei perché i cristiani ricordassero, come narra il libro della Genesi, che Dio creò l’uomo perché lavorasse. Siamo venuti a richiamare di nuovo l’attenzione sull’esempio di Gesù che visse trent’anni a Nazaret lavorando, svolgendo un mestiere. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in impresa divina, in attività redentrice, in cammino di salvezza»[27].

Alla luce della missione ricevuta, come si vede in quest’ultimo testo, la figura del Dio-Uomo e l’esempio della sua vita nascosta sono particolarmente eloquenti. Ecco un altro testo: «Gli anni della vita nascosta del Signore sono tutt’altro che insignificanti, né rappresentano una semplice preparazione agli anni della vita pubblica. Fin dal 1928 ho compreso con chiarezza che Dio desidera che i cristiani prendano esempio dalla vita del Signore tutta intera. Da allora ho capito appieno la sua vita nascosta, la sua vita di umile lavoro in mezzo agli uomini: il Signore vuole che molte anime trovino la loro via in quei suoi anni di vita silenziosa e senza splendore»[28].

Chiamata universale alla santità, attraverso la santificazione del lavoro ordinario, seguendo l’esempio luminoso della vita nascosta di Cristo... Tratti essenziali del messaggio fondazionale affidato a Josemaría Escrivá, ai quali, sempre alla luce dello splendore della vita e dell’opera di Gesù, se ne aggiunge inseparabilmente un altro: il dovere apostolico del cristiano: «Non è possibile scindere vita interiore e apostolato, come non è possibile scindere in Cristo la sua condizione di Dio-Uomo e la sua missione di Redentore. Il Verbo volle incarnarsi per salvare gli uomini, per farli una cosa sola con Lui. La ragione della sua venuta nel mondo, come recitiamo nel Credo, sta qui: per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo. Per il cristiano, l’apostolato è un fatto connaturale alla sua condizione; non è qualcosa di aggiunto, di sovrapposto, di estrinseco alla sua attività quotidiana, al suo lavoro professionale. L’ho ripetuto incessantemente, da quando il Signore volle che nascesse l’Opus Dei: bisogna santificare il lavoro ordinario, santificarsi in esso e santificare gli altri attraverso l’esercizio della propria professione, vivendo ciascuno nel proprio stato. L’apostolato è come il respiro del cristiano; un figlio di Dio non può vivere senza questo palpito spirituale»[29].

Questi nitidi elementi della missione e del messaggio fondazionali appaioni ripresi, in formulazione sintetica, in un altro testo del Fondatore, che evidenzia la sua disposizione di obbedienza a Dio e, insieme, la sua “riluttanza” ad intraprendere una nuova fondazione: «Non mi interessava essere fondatore di nulla. Per quanto riguardava la mia persona e il mio lavoro, sono sempre stato nemico delle nuove fondazioni. Perché tutte quelle antiche, come pure quelle dei secoli più vicini, mi sembravano attuali. Certo, la nostra Opera —l’Opera di Dio— sorgeva per far rinascere una spiritualità, antica e nuova, di anime contemplative, in mezzo a tutte le occupazioni temporali, santificando tutte le mansioni ordinarie di questa terra: mettendo Cristo al vertice di tutte le attività oneste in cui si impegnano gli uomini, e amando questo mondo, che fuggiva dal Creatore»[30].

Ecco la missione e la finalità attese da tanti anni da quel giovane sacerdote, che ora era chiamato a svolgerle. Quella missione implicava di per sé, per il suo contenuto, che doveva essere ricevuta e compiuta da un sacerdote? Le sue caratteristiche essenziali erano in rapporto necessario con la condizione ministeriale, cioè con la potestà di agire efficacemente in persona Christi Capitis per la vita della Chiesa e del mondo? La risposta a posteriori a queste domande è indubbiamente affermativa, ma, se proseguiamo con la nostra metodologia e riflettiamo sulla base dagli avvenimenti storici, non è ancora giunto il momento di offrirla. I fatti ci dicono soltanto che quel sacerdote —che aspettava di sapere il perché della propria chiamata al sacerdozio—, una volta conosciuta la missione cominciò «a lavorare, a muoversi, a fare: a gettare le fondamenta». Cominciò a fare quello che doveva e lo fece in conformità la propria condizione personale: come sacerdote.

Don Josemaría cominciò a lavorare a quella missione in modo sacerdotale: senza mezzi umani, ma con lo strumento soprannaturale del sacerdozio ministeriale. La fondazione dell’Opus Dei, col suo specifico messaggio di santità in qualunque stato e nelle attività di ciascuno, nasceva e iniziava così il suo cammino sulla terra. Questi sono i fatti, ed in essi dovremo cercare i significati.

2. L’ecclesialità dell’attività fondazionale

Attraverso l’incessante lavoro del Fondatore, il messaggio fondazionale si andò gradualmente estendendo, con difficoltà ma attivamente, tra uomini e donne, laici e sacerdoti diocesani, sani e malati, ricchi e poveri... I dati storici mostrano che i primi passi e i primi frutti dell’Opus Dei furono strettamente associati all’attività ministeriale di don Josemaría: alla sua predicazione, alla cura pastorale della cappellania del Patronato de enfermos, alle ore dedicate al confessionale. Don Josemaría è sacerdote, svolge un lavoro pastorale determinato, per via della sua attività sacerdotale entra in contatto con numerose gente di ambienti diversi. In tutti gli ambiti del lavoro pastorale trova terreno da seminare e appoggio allo sviluppo della missione fondazionale. Persino materialmente essa segue il cammino della vita sacerdotale del Fondatore. L’Opus Dei mosse i primi passi su questo fondamento; inoltre poggiò saldamente sul fondamento meno visibile ma più decisivo dell’orazione, della Santa Messa, della penitenza del Fondatore e di altre persone che egli assiste in quanto sacerdote e alle quali sollecita quest’aiuto.

Ecco due esempi degli inizi del lavoro fondazionale: «Quali mezzi ho impiegato? (...). Andai a cercare fortezza nei quartieri più poveri di Madrid. Ore su ore da tutte le parti, tutti i giorni, a piedi da un lato all’altro, in mezzo a poveri con decoro e a poveri miserabili, che non avevano niente (...). E poi negli ospedali, nelle case in cui c’erano dei malati, se si possono chiamare case quei tuguri... (...). E dunque andai a cercare i mezzi per fare l’Opera di Dio, in tutti quei luoghi. Intanto, lavoravo e davo formazione ai primi che avevo accanto (...). Furono anni intensi, durante i quali l’Opus Dei cresceva dall’interno senza che ce ne rendessimo conto»[31]. «L’Opera sta andando avanti a forza di orazione: della mia orazione —e delle mie miserie— che agli occhi di Dio lo costringe a concerdeci ciò di cui abbiamo bisogno per compiere la sua volontà; e dell’orazione di tante anime —sacerdoti e laici, giovani e vecchi, sani e malati—, alle quali mi rivolgo, sicuro che il Signore le ascolta, perché preghino per una determinata intenzione che, all’inizio, conoscevo solo io. E, con l’orazione, la mortificazione e il lavoro di quelli che vengono con me: queste sono state le nostre uniche e grandi armi per la lotta»[32].

La condizione ministeriale e il lavoro pastorale del Fondatore sono, negli anni degli inizi —come del resto continueranno ad essere sempre, secondo le circostanze di ogni momento—, il grande alveo nel quale la fondazione scorre e trova lo slancio soprannaturale necessario a progredire. Tuttavia, per quanto intimamente legati di fatto, il lavoro fondazionale —orientato direttamente a diffondere in tutti gli ambienti della società lo spirito dell’Opera che Dio gli ha affidato— e l’esercizio degli specifici doveri pastorali di quegli anni (come Cappellano del Patronato de Enfermos o, più tardi, come Rettore del Patronato de Santa Isabel) non si identificano. In realtà, l’aspetto più importante a mio parere è un altro e i fatti lo rivelano solo se osservati in profondità: mi riferisco alla condizione ministeriale del Fondatore e alla realtà teologica di base del ministero, cioè alla sua ecclesialità.

Abbiamo chiamato così, nelle pagine precedenti, la forma storica in cui si compie la partecipazione ministeriale alla capitalità di Cristo rispetto alla Chiesa. Le abbiamo dato questo nome perché l’ecclesialità, dal punto di vista teologico, consiste nella potestà e nell’obbligo di dare partecipatamente vita soprannaturale alla Chiesa, per la vita del mondo, e deve realizzarsi di fatto come dono sponsale alla Chiesa e alla sua missione. Sul piano dell’autocoscienza sacerdotale, l’ecclesialità si esprime principalmente, come abbiamo visto, come amore indiviso per la Chiesa, mentalità di servizio, fedeltà alla sua unità organica. In questa prospettiva, importa non soltanto verificare che l’attività fondazionale di Josemaría Escrivá abbia poggiato di fatto sull’esercizio della funzione ministeriale (non poteva essere altrimenti), quanto dimostrare che la fondazione fosse caratterizzata fin dall’origine dai segni indicativi dell’ecclesialità e fosse interamente orientata in se stessa, nella propria realtà storica, nel suo divenire, al servizio della missione salvifica della Chiesa.

Una fondazione orientata completamente a questo fine e caratterizzata di fatto, nella sua realizzazione pratica, da tali segni esprime a viva voce il proprio originario radicamento nel “terreno” sacerdotale. Soltanto nella coscienza d’ecclesialità propria di un sacerdote immerso nel ministero fino ad identificarsi con esso, può essere guidato e può svilupparsi un organismo ecclesiale i cui tratti distintivi siano proprio i segni dell’ecclesialità. Come tutto questo caratterizzi l’Opus Dei fin dall’inizio è quanto cercheremo di mostrare ora.

Lo si può verificare facilmente, giacché il Beato Josemaría seppe contraddistinguere in modo palese la propria attività fondazionale con un amore incondizionato alla Sposa di Cristo, una generosa dedizione al suo servizio e un’unità effettiva col Romano Pontefice e con tutti i Pastori della Chiesa. I fatti che avallano quest’affermazione sono notori e oggetto di numerose testimonianze. Fra le altre, quelle di numerosi vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose che conobbero i primi passi del lavoro fondazionale di don Josemaría e ne attestano un aspetto per loro particolarmente eloquente: la profondità del suo amore e della sua dedizione nel servizio della Chiesa. Queste testimonianze offrono un importante elemento di riflessione sul nostro argomento. Ne forniremo perciò qualche esempio, sottolineando le parole più significative.

Mons. José María García Lahiguera, già Arcivescovo di Valencia (morì in fama di santità e ne è stata incoata la Causa di canonizzazione), nel 1932, attraverso lo stesso Fondatore, venne a conoscenza della fondazione cui stava lavorando don Josemaría Escrivá. Riferendosi a quel periodo, scrisse: «Ero fortemente commosso da ciò che ascoltavo e capii subito che il Padre stava iniziando una cosa veramente trascendente, di Dio. Era un panorama d’apostolato e di servizio alla Chiesa che attraeva, meraviglioso (...). Il suo amore per la Chiesa di Dio era così grande che, in modo naturale, stimolava e incoraggiava tutte le istituzioni sorte per condurre anime a Dio (...). Ma se volessimo mettere in evidenza un settore in cui il suo amore per la Chiesa trovava agio di espandersi —oltre, come dico, all’Opera che Dio gli aveva affidato— potremmo senz’altro affermare che il clero diocesano fu uno degli oggetti principali del suo zelo apostolico»[33].

Mons. Pedro Cantero Cuadrado, Arcivescovo di Saragozza e amico del Beato Josemaría fin dal 1930, ricordando i primi tempi della fondazione, afferma: «Josemaría era un sacerdote dotato di grande spirito di orazione e amor di Dio, e capace di donare tutto se stesso (...). Non lo muoveva altro pensiero se non quello di spendersi pienamente al servizio della Chiesa, nel posto e nel modo in cui Dio lo aveva chiamato (...). Un’altra delle caratteristiche del suo spirito era l’amore per la Chiesa, non una Chiesa idealizzata, ma la Chiesa reale, storica, alla quale dobbiamo donarci con opere di servizio e di fedeltà (...).Josemaría amava svisceratamente la Chiesa. E la amava con opere di servizio. L’amore per la Chiesa colmava anzitutto la sua vita interiore: era costante la sua preghiera per il Papa, per i Vescovi di tutto il mondo, per i sacerdoti, per l’unità di tutti gli uomini in un solo credo e sotto un solo Pastore»[34].

Il Card. José María Bueno Monreal, che resse la diocesi di Siviglia per molti anni e conobbe anch’egli il Beato Josemaría fin dai primi tempi della fondazione, riferendosi al lavoro del Fondatore negli anni romani, scrive: «La sua presenza negli ambienti ecclesiastici romani, sempre attuale, fu nel contempo molto discreta, come lo era stata a Madrid. Ciò gli permise di servire la Chiesa con un lavoro silenzioso ed intenso, e di portare avanti l’Opus Dei, senza distogliersi da quanto costituiva e dava il senso più profondo alla sua vita (...). Credo che la sua fede nella Chiesa eccellesse. Così come la sua fede incondizionata nel Magistero ecclesiastico (...). Il suo amore per la libertà non trovava alcun ostacolo nell’obbedire con prontezza e fedeltà al Papa. Professava la più ossequiosa obbedienza nei confronti della Gerarchia»[35].

Mons. Juan Hervás Benet, già Vescovo di Ciudad Real, fondatore dei “Cursillos de Cristiandad”, ha notato: «Durante gli anni dei miei rapporti con Monsignor Escrivá e la sua Opera (...), l’attività di don Josemaría era costantemente diretta a porre i fondamenti ascetici, formativi e apostolici dell’Opus Dei. Tuttavia desidero far osservare anche che il suo zelo sacerdotale non si chiudeva nella sua Opera: animato da una esemplare carità pastorale (...), egli si prodigava con tutti coloro che portano il peso dei problemi della Chiesa (...).Non perse mai di vista l’obiettivo di tutte le sue attività: servire la Chiesa»[36].

Le citazioni potrebbero moltiplicarsi e ci si potrebbe dilungare ancora nella narrazione degli avvenimenti, ma tutto ciò è così noto da apparire superfluo. Per lo stesso motivo non è necessario trattenersi sui numerosi passi delle opere del Beato Josemaría riguardanti direttamente il suo amore per la Chiesa e il desiderio di servirla[37]. Vorrei fare soltanto un’eccezione e ricordare una testimonianza particolarmente autorevole di quella “passione dominante” —come la chiama Mons. Alvaro del Portillo[38]— che era per lui «servire la Chiesa senza servirsi di essa» o «servire la Chiesa come la Chiesa vuole essere servita». A tale proposito lo stesso Mons. del Portillo ha scritto: «Affermava con semplicità disarmante che amava l’Opus Dei nella misura in cui l’Opera serviva la Chiesa. Quante volte l’ho sentito esclamare: “Se l’Opus Dei non serve la Chiesa, non mi interessa!”»[39]. E ha precisato che in due momenti della vita del Fondatore (uno negli anni Trenta e l’altro nella decade dei Quaranta), Iddio ne mise alla prova lo spirito soprannaturale proprio in rapporto al servizio dell’Opus Dei alla Chiesa, chiedendogli un sacrificio simile a quello di Abramo: l’olocausto dell’Opera che gli aveva affidato. Dopo queste dure prove, Dio lo confermò immediatamente nella missione: l’Opus Dei doveva andare avanti, servendo la Chiesa, il Papa e tutte le anime[40].

Possiamo concludere questa fase del nostro studio: si può ritenere infatti acquisita la conferma che le caratteristiche dell’identità dell’opera fondazionale del Beato Josemaría sono, sin dall’origine, i segni dell’ecclesialità. La missione ricevuta il 2 ottobre 1928, con i suoi specifici contenuti spirituali e pastorali, fu condotta sotto l’impronta dell’amore e del servizio alla Sposa di Cristo. Basandosi fin dal primo istante sulla condizione ministeriale del Fondatore e sulla sua profonda coscienza d’essere sacerdote di Gesù Cristo, l’Opus Dei nacque e crebbe in tutto il mondo sino al giorno d’oggi ad vitam Ecclesiae, per far giungere a tutti gli uomini —attraverso la propria spiritualità e le specifiche modalità apostoliche— la vita che il Redentore ha conquistato per noi.

B. La figura del Fondatore alla luce della natura della missione fondazionale

Siamo così giunti al termine del nostro studio ed è arrivato il momento di tornare alla domanda da cui siamo partiti: in che modo e per quale ragione, facendo salva la libera Volontà divina dispositiva e sempre all’interno della presente economia della salvezza, la partecipazione ministeriale alla capitalità di Cristo era condizione necessaria perché il Beato Josemaría Escrivá potesse fondare l’Opus Dei? Finora ci siamo avvicinati alla riposta seguendo la via storica —i fatti realmente successi— e ci siamo interrogati sul loro significato teologico. In un certo senso abbiamo riflettuto sulla logica o sulla convenienza esterna degli avvenimenti, seguendo uno schema di pensiero che potremmo sintetizzare così: “se il Fondatore possedeva caratteristiche così, è logico che la fondazione presentasse questi elementi...”. E abbiamo verificato che, di fatto, le cose stanno proprio in questo modo: lo sviluppo della missione fondazionale evidenzia, fin dall’esordio, una palese congruenza con la condizione sacerdotale del Beato Josemaría.

Adesso cercheremo di compiere un passo in avanti. Occorre ora domandarsi se, oltre a questa convenienza esterna, esiste una correlazione interna tra la natura della missione fondazionale del Beato Josemaría e la sua condizione di sacerdote, e come esprimerla. Finora abbiamo considerato la missione partendo dal sacerdozio di don Josemaría e in rapporto con lui; in altri termini, abbiamo osservato la natura della fondazione alla luce del Fondatore. Ora invece cercheremo di contemplare la figura del Fondatore prendendo spunto dalla missione: vogliamo proiettare la luce che riverbera dall’opera fondazionale su colui che la portò a compimento, nel desiderio di poter meglio comprendere la necessità che egli fosse provvisto della condizione sacerdotale. Ci limiteremo a individuare alcuni spunti di riflessione.

«Perché mi son fatto sacerdote? Perché pensai che in questo modo sarebbe stato più facile compiere una volontà di Dio, che non conoscevo. Da circa otto anni prima dell’ordinazione la presentivo, ma non sapevo che cosa fosse, e non lo seppi fino al 1928. Per questo mi feci sacerdote». La domanda e la relativa risposta colgono il centro della nostra questione e suggeriscono che la logica interna cui ci riferivamo poc’anzi esiste. È possibile descriverla meglio, una volta conosciute la natura e le caratteristiche secondo cui tale volontà di Dio si è realizzata storicamente?

La riflessione si svolge in due momenti: vanno analizzati gli aspetti fondamentali della fisionomia dell’Opus Dei, cui in parte ci siamo già riferiti nelle pagine precedenti; ma bisogna anche tener presente che ci stiamo muovendo all’interno di questa concreta economia della salvezza, che possiede caratteristiche specifiche proprie. Occorre quindi prestare attenzione soprattutto a quest’ultimo elemento, per poi analizzare come la fisionomia dell’Opus Dei s’inserisce in esso e, infine, proporre una risposta alla questione formulata.

La presente economia della salvezza, nella sua radice più profonda, è caratterizzata da un totale orientamento a Cristo: questa è la chiave di volta della sua identità e qui troviamo tutta la luce di cui abbiamo bisogno. L’intera storia della salvezza è essenzialmente cristocentrica: la sua origine, il suo fondamento, il suo fine e tutto il suo contenuto costituiscono il divenire o la manifestazione storica del mistero del Salvatore. Egli è la Via, la Verità e la Vita (Gv 14, 6), e nessuna realtà creata, naturale o soprannaturale, ha senso al di fuori di Lui.

Come tutte le realtà umane, e in generale tutto quanto esiste, devono essere comprese alla luce di Cristo ed in relazione con Lui, così anche Cristo dev’essere contemplato alla luce della missione redentrice, perché il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore[41] sono inseparabili e reciprocamente illuminantisi. Il mistero del Figlio di Dio incarnato (cioè, la struttura e la sostanza della presente economia salvifica) è mistero di redenzione, divenuto realtà storica mediante la vita, la morte sacrificale e la risurrezione di Cristo. Ciò significa che la sostanza teologica dell’economia salvifica divina si è conformata storicamente come sacerdozio e azione sacerdotale di Gesù. La fisionomia del mistero dell’incarnazione redentrice del Verbo, ciò che ne vediamo e ciò che in esso ci viene rivelato su Dio e sull’uomo, è storicamente espressa come essere e missione sacerdotale. Nel sacerdozio di Cristo, esercitato lungo tutta la sua vita —poiché Egli è sempre il Figlio Redentore— e culminato nella sua morte e risurrezione, viene misteriosamente concentrata e compiuta la volontà salvifica divina. Lo splendore che illumina l’azione redentrice e che da essa si diffonde sull’amorosa opera della creazione colmandola con la propria luminosità, è la luce di Cristo Sacerdote che dona se stesso ut vitam habeant, et abundantius habeant (Gv 10, 10).

Quest’economia salvifica dalla fisionomia sacerdotale sussiste storicamente nella Chiesa e attraverso la Chiesa si prolunga fino alla fine dei tempi. Il Corpo di Cristo, unito al proprio Capo e animato dallo Spirito Santo, è espressione del mistero del Verbo incarnato già adesso sulla terra e lo sarà poi, perfettamente, in cielo. Perciò si può anche affermare che la dimensione teologica più profonda del mistero della Chiesa in quanto popolo di Dio è la sua condizione di popolo sacerdotale, consacrato a immagine di Cristo per continuare con Lui la missione redentrice. La Chiesa riconosce se stessa come un insieme organico di doni e di funzioni, gerarchicamente strutturato —ministri e laici, sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale—, al servizio della missione salvifica comune, per la vita del mondo. Nella potestà e nell’efficacia salvifica del sacerdozio ministeriale, essenzialmente ordinato a servizio del sacerdozio comune di tutti i fedeli, risiede e si alimenta la vitalità della Chiesa. Tramite i ministri consacrati, sacramentalmente partecipi dell’autorità e dell’azione di Cristo Capo della Chiesa, promana la vita e l’efficacia di tutti i membri del Corpo. L’essere e la missione sacerdotale della Sposa di Cristo sono quindi sostenuti storicamente dall’esercizio delle funzioni specifiche del ministero consacrato.

Questi brevi profili di teologia della Chiesa sono sufficienti al nostro scopo. Essi contribuiscono a determinare il piano su cui va considerata la fisionomia dell’Opus Dei, per cercare di individuare la luce che essa proietta sulla figura del Fondatore. Quali sono le sue caratteristiche fondamentali? Senza volerci dilungare e riprendendo alcune idee da un noto studio sull’Opus Dei[42], potremmo sinteticamente delineare tale fisionomia sulla base di diversi fattori evidenti come, ad esempio, la varietà e la molteplicità dei membri (uomini e donne; celibi e sposati; sacerdoti e laici che svolgono un’azione apostolica comune, in organica unità e intima cooperazione, ciascuno secondo le rispettive funzioni; persone dotate di piena libertà nelle questioni professionali, sociali e politiche;...). Risulta pure evidente nell’Opus Dei l’universalità o internazionalità dei componenti e delle attività apostoliche di formazione, così come l’organizzazione unitaria e interdiocesana. Insieme a questi aspetti più esterni o immediati, ci sono altre caratteristiche fisionomiche istituzionali più interne o mediate, sebbene anch’esse evidenti, come il messaggio della santificazione in mezzo al mondo e dell’animazione delle attività e realtà temporali mediante lo spirito del Vangelo; l’insegnamento sul lavoro come inserimento nel mondo e come strumento per portare in esso lo spirito di Cristo; il senso vocazionale dell’esistenza cristiana, intesa come radicale impegno di fede e quindi come sequela e imitazione di Cristo nel lavoro quotidiano e condizione dell’esistenza in mezzo al mondo; la decisa chiamata alla santità personale che diffonde nel mondo; la proclamazione della dimensione apostolica, essenziale alla vita cristiana, quale contributo personale all’opera redentrice...

Che cosa esprimono queste caratteristiche fisionomiche? Quale “sostanza” teologica rivela storicamente quest’organica e inseparabile unità di sacerdoti e laici dediti, in mezzo al mondo e nell’esercizio della propria professione o mestiere, a seguire fedelmente Cristo e a prolungare la sua missione per la vita del mondo? Un giorno, per esprimere la natura della missione fondazionale a cui Dio lo chiamava e parlando in tono colloquiale, sebbene nella pienezza del carisma fondazionale, il Beato Josemaría descrisse l’Opus Dei come «una piccola parte della Chiesa»[43]. Nel suo seno palpita, come attestano gli elementi qui tracciati, il mistero stesso della Chiesa, inteso come forza configurante e come impulso vitale: questa è la realtà teologica sottesa all’Opus Dei, fin dal 2 ottobre 1928; così lo ha inteso e proclamato la Suprema Autorità ecclesiastica con l’erezione a Prelatura personale.

Ma là dove il mistero della Chiesa si rende storicamente presente con i suoi elementi costitutivi essenziali e in tutta la sua efficacia redentrice, ci vuole, nella presenta economia della salvezza, la presenza fondante del ministero ordinato. All’origine dell’Opus Dei, segno e sigillo della sua specifica natura ecclesiologica, era necessario che vi fosse un sacerdote: un uomo capace di agire in persona Christi Capitis, consapevole di essere chiamato all’esercizio del ministero e ad assumere su di sé, con i doni ministeriali e carismatici, l’opera fondazionale. «Perché mi sono fatto sacerdote?», si domandava il Beato Josemaría. Per la natura teologica della missione fondazionale che Dio gli affidava, possiamo rispondere. Questa è la luce che la missione fondazionale proietta sulla condizione del Fondatore.

Antonio Aranda

Facoltà di Teologia

Ateneo Romano della Santa Croce

[1] L’impostazione del presente lavoro è in consonanza con quanto scritto da Pedro Rodríguez nelle pp. 73-82 dello studio “L’Opus Dei nella sua realtà ecclesiologica”, pubblicato nel volume collettivo L’Opus Dei nella Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1993. A p. 73 si legge: «Il carisma fondazionale ricevuto da Josemaría Escrivá riguardava (...) un “sacro ministro”, un sacerdote di Cristo»; la corrispondente nota 92 commenta: «Considerate le cose dal punto di vista storico e in rapporto alla struttura della Chiesa, il fatto che il fondatore fosse sacerdote risulta non solo un elemento di idoneità ma addirittura un requisito essenziale per fondare e presiedere l’istituzione che alla fine ebbe origine il 2 ottobre 1928. Sta di fatto che Josemaría Escrivá “si sapeva” fondatore dell’Opus Dei proprio in quanto sacerdote». Questo è, appunto, il problema che vogliamo analizzare nel presente studio.

[2] È noto che il Beato Josemaría “era riluttante” a parlare di se stesso -della sua vita, dell’azione di Dio in essa, delle sue opere- per umiltà; su questo punto “cedeva” soltanto se richiesto dalla carità e dall’obbedienza. I riferimenti autobiografici si ritrovano qua e là in diversi passi dei suoi scritti, oppure in testi trascritti dalla predicazione orale, ad esempio in risposta ad eventuali specifiche domande. Questi testi, che possiedono notevole valore per i biografi e gli storici, in parte sono già citati in profili biografici pubblicati, ai quali rinviamo.

[3] Parole pronunciate a Lima (Perù), il 26-VII-1974 (AGP, sez. RHF 20.771, pp. 398-399); cfr. A. DEL PORTILLO, Una vida para Dios, Rialp, Madrid 1992, 29, nota 24. (Citeremo d’ora innanzi quest’opera come “Una vida para Dios”).

[4] Parole pronunciate a Roma, il 28-III-1973 (AGP, sez. RHF 20.162, p. 310); cfr. “Una vida para Dios”, p. 28, nota 22.

[5] Meditazione Los pasos de Dios, 14-II-1964 (AGP, sez. RHF 20.165, p. 853); cfr. “Una vida para Dios”, p. 27, nota 17.

[6] Parole pronunciate a Lima (Perù), il 26-VII-1974 (AGP, sez. RHF 20.771, pp. 395-397); cfr. “Una vida para Dios”, p. 27, n. 18.

[7] Meditazione Los caminos de Dios, 19-III-1975 (AGP, sez. RHF 20.164, p. 800-801); cfr. “Una vida para Dios”, p. 28, nota 20.

[8] Cfr. F. GONDRAND, Cerco il tuo volto. Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, Città Nuova, Roma 1986, pp. 34-35; P. BERGLAR, Opus Dei. La vita e l’opera del fondatore Josemaría Escrivá, Rusconi, Milano 1987, pp. 32-33; A. SASTRE, Tiempo de caminar. Semblanza de Monseñor Escrivá de Balaguer, Rialp, Madrid 1989, pp. 50-52.

[9] Meditazione Los caminos de Dios, cit.; cfr. “Una vida para Dios”, p. 28, nota 20.

[10] Meditazione Los pasos de Dios, 14-II-1964 (AGP, sez. RHF 20.165, p. 856); cfr. “Una vida para Dios”, p. 28, nota 21.

[11] Ibidem; cfr. “Una vida para Dios”, p. 31, nota 29.

[12] Cfr. i dati raccolti sinteticamente in A. DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, (a cura di C. Cavalleri), Ares, Milano 1992, pp. 61-62.

[13] Colloqui con Monsignor Escrivá, Ares, Milano 1982, 4ª ed., n. 118.

[14] «Ho concepito il mio lavoro di sacerdote e di pastore di anime come un compito volto a porre ciascuno di fronte a tutte le esigenze della sua vita, aiutandolo a scoprire ciò che in concreto Dio gli chiede, senza porre alcun limite a quella santa indipendenza e a quella benedetta responsabilità personale che sono le caratteristiche proprie della coscienza cristiana. Questo spirito e questo modo di agire si basano sul rispetto per la trascendenza della verità rivelata e sull’amore per la libertà della creatura umana. Potrei aggiungere che si basano anche sulla certezza della indeterminazione della storia, aperta a molteplici possibilità che Dio non ha voluto precludere» (È Gesù che passa, Ares, Milano 1982, 3ª ed., n. 99; il corsivo nei testi successivi è nostro).

[15] «Forse qualcuno penserà che sono un ingenuo. Non importa. Anche se mi considerassero ingenuo perché credo ancora nella carità, vi assicuro che continuerò a crederci! E, finché il Signore mi darà vita, continuerò a prodigarmi -da sacerdote di Cristo- perché regnino l’unità e la pace fra coloro che, essendo figli dello stesso Padre, sono fratelli; perché ci sia comprensione fra gli uomini; perché tutti condividano lo stesso ideale: quello della fede» (Amici di Dio, Ares, Milano 1978, n. 174).

[16] «Forse pensate al permanere di tante ingiustizie, agli abusi non aboliti, alle discriminazioni trasmesse da una generazione all’altra, sempre in attesa che si operi una soluzione radicale. Non devo, non è mio compito, proporvi le soluzioni pratiche di questi problemi. Però, come sacerdote di Cristo, è mio dovere ricordarvi ciò che dice la Sacra Scrittura (...). Un uomo o una società che non reagiscano davanti alle tribolazioni e alle ingiustizie, e che non cerchino di alleviarle, non sono un uomo o una società all’altezza dell’amore del Cuore di Cristo. I cristiani -pur conservando sempre la più ampia libertà di studiare e di mettere in pratica soluzioni diverse, e godendo pertanto di un logico pluralismo- devono coincidere nel comune desiderio di servire l’umanità. Altrimenti il loro cristianesimo non sarà la Parola e la Vita di Gesù; sarà un travestimento, un inganno, di fronte a Dio e di fronte agli uomini» (È Gesù che passa, op. cit., n. 167).

[17] «Pensate come volete in tutto ciò che la Provvidenza ha lasciato alla libera e legittima discussione degli uomini. Ma la mia condizione di sacerdote di Cristo mi impone la necessità di risalire più a monte, e di ricordarvi che, in ogni caso, non possiamo tralasciare di esercitare la giustizia, con eroismo se è necessario» (Amici di Dio, op. cit., n. 170).

[18] Sull’aspetto storico di tale data fondazionale, cfr. P. BERGLAR, op. cit., pp. 61-69; A. SASTRE, op. cit., pp. 90-99; circa aspetti più teologici, cfr. J.L. ILLANES, Dos de octubre de 1928: alcance y significado de una fecha, in “Monseñor Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei”, Eunsa, Pamplona 1985, pp. 65 ss.; A. DE FUENMAYOR - V.GÓMEZ-IGLESIAS - J.L. ILLANES, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè, Milano 1991, pp. 13-30.

[19] Colloqui con Monsignor Escrivá, op. cit., n. 32.

[20] Amici di Dio, op. cit., n. 54.

[21] Meditazione En un dos de octubre, 2-X-1962 (AGP, sez. RHF 20.161, p. 987); cfr. “Una vida para Dios”, p. 34, nota 32 e “Studi Cattolici”, gennaio 1989, p. 14.

[22] AGP, sez. RHF 20.164, p. 226. Cfr. S. BERNAL, Appunti per un profilo del Fondatore dell’Opus Dei, Ares, Milano 1977, 2ª ed., p. 77 (non include gli ultimi due paragrafi della citazione).

[23] Cfr. B.D. MARLIANGEAS, Clés pour une théologie du ministère. In persona Christi. In persona Ecclesiae, Paris 1978; G. RAMBALDI, Alter Christus, in persona Christi, personam Christi gerere. Nota sull’uso di tali e simili espressioni nel magistero da Pio XI al Vaticano II e il loro riferimento al carattere, in “Teología del sacerdocio”, vol. V, Burgos 1973.

[24] A. DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, op. cit., p. 65.

[25] Meditazione En un dos de octubre, 2-X-1962 (AGP, sez. RHF 20.161, p. 987); cfr. “Una vida para Dios”, p. 34, nota 32 e “Studi Cattolici”, gennaio 1989, p. 14.

[26] Lettera, 24-III-1930, n. 2; cfr. “Una vida para Dios”, p. 70, nota 2.

[27] Colloqui con Monsignor Escrivá, op. cit., n. 55.

[28] È Gesù che passa, op. cit., n. 20.

[29] Ibidem, n. 122.

[30] Lettera, 14-IX-1951, n. 3; cfr. “Una vida para Dios”, p. 91, nota 6.

[31] Meditazione Los caminos de Dios, 19-III-1975, op. cit.; cfr. “Una vida para Dios”, p. 35, nota 33.

[32] Lettera, 11-III-1940, n. 32; cfr. “Una vida para Dios”, p. 37-38, nota 36.

[33] Testimonios sobre el Fundador del Opus Dei, Palabra, Madrid 1991, n. 1: Mons. José María García Lahiguera, pp. 15, 29-30.

[34] Ibidem, n. 2: Mons. Pedro Cantero Cuadrado, pp. 16, 32, 49.

[35] Ibidem, n. 3: Card. José María Bueno Monreal, pp. 34, 36-37.

[36] Ibidem, n. 5: Mons. Juan Hervás Benet, pp. 42-43.

[37] Ci basti un esempio: «L’unica ambizione, l’unico desiderio dell’Opus Dei e di ciascuno dei suoi figli è di servire la Chiesa come essa vuole essere servita, all’interno della specifica vocazione che il Signore ci ha concesso» (Lettera, 31-V-1943, n. 1; cfr. “Una vida para Dios”, pp. 93-94, nota 12). Cfr. Colloqui, nn. 47. 60; Amici di Dio, nn. 11. 117. 196. 316; Cammino, Ares, Milano 1988, 23ª ed., n. 519; Solco, Ares, Milano 1986, n. 351; Forgia, Ares, Milano 1987, nn. 138. 584. Cfr. anche “Una vida para Dios”, pp. 40-42, 69-88, 103-108, 205-210.

[38] “Una vida para Dios”, p. 103.

[39] Ibidem, pp. 105-106.

[40] Cfr. ibidem, pp. 106-107.

[41] Questo principio teologico ha un ruolo fondamentale anche nell’insegnamento del Fondatore dell’Opus Dei, dal quale riportiamo la seguente formulazione: «Non è possibile separare in Cristo il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore. Il Verbo si fece carne e venne sulla terra ut omnes homines salvi fiant (cfr. 1 Tm 2, 4), per salvare tutti gli uomini. Nonostante le nostre miserie e le nostre limitazioni, ciascuno di noi è un altro Cristo, lo stesso Cristo, anche noi chiamati a servire tutti gli uomini» (È Gesù che passa, n. 106). Come abbiamo scritto altrove, «in questa frase si avverte un presupposto essenziale del pensiero cristocentrico del Beato Josemaría: l’assoluta inseparabilità fra essere e funzione di Cristo, principio teologico fondamentale che alimenta costantemente la sua spiritualità. Esplicitamente o implicitamente, questo principio, che può essere qualificato come strutturale nell’ambito del processo riflessivo del Beato Escrivá, conserva una presenza illuminante in tutti i suoi scritti. Beneficia interamente di questa luce anche la visione del Beato della Chiesa e dell’esistenza cristiana. Si può affermare infatti che, nel suo pensiero, l’inscindibile unità tra essere e funzione esprime teologicamente l’identità di Cristo, quella del suo Corpo, la Chiesa, e quella delle sue membra, i cristiani» (Il cristiano, alter Christus, ipse Christus nel pensiero del Beato Josemaría Escrivá, negli Atti del “Convegno teologico di studio sugli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá”, Roma 12-14 ottobre 1993, in corso di stampa).

[42] A. DE FUENMAYOR - V.GÓMEZ-IGLESIAS - J.L. ILLANES, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, op. cit., pp. 35-48.

[43] Cfr. P. RODRÍGUEZ, “L’Opus Dei nella sua realtà ecclesiologica”, in P. RODRÍGUEZ - F. OCÁRIZ - J.L. ILLANES, L’Opus Dei nella Chiesa, op. cit., p. 15.

Romana, n. 17, Luglio-Dicembre 1993, p. 307-327.

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