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Intorno al ventesimo anniversario del transito del Beato Josemaría

Il 26 giugno 1975, a mezzogiorno, nella sua stanza di lavoro, il Fondatore dell’Opus Dei rendeva santamente l’anima a Dio. Nella ricorrenza del ventesimo anniversario del suo dies natalis, i mezzi di comunicazione di diversi Paesi hanno voluto ricordarne la figura con servizi speciali.

Riportiamo un articolo del Card. Camillo Ruini, Vicario del Papa per la diocesi di Roma e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, pubblicato il 24 giugno sul quotidiano “Avvenire” di Milano.

ROMA GRATA PER UNA PRESENZA UNITARIA,

MULTIFORME E FORMATIVA

Giovedì 26 giugno 1975, Monsignor Josemaría Escrivá de Balaguer veniva sottratto agli occhi di quanti lo conoscevano e lo amavano. A Roma, nella città del Papa, lo raggiungeva quella chiamata radicale di Dio che nella dimensione del tempo è la morte corporale e nella luce della fede è, per i buoni, la vita piena, l’ingresso irreversibile nella realtà nuova del Cristo Risorto.

Sono passati 20 anni da quel giorno e la Chiesa sa che quel sacerdote non solo era buono, ma era un santo, come ha solennemente riconosciuto il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II il 17 maggio 1992 attribuendogli il titolo di beato.

Cosa sia la santità è scritto nelle prime righe della Lettera apostolica, documento ufficiale di quella beatificazione. Si tratta di due frasi, tolte, la prima, dalla Lumen Gentium, la seconda, da uno scritto del Beato, dal titolo Amici di Dio. L’una suona così: «La Chiesa è l’universale sacramento della salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso l’uomo». L’altra recita: «Tutti sono chiamati alla santità, il Signore chiede amore a ciascuno: giovani e anziani, celibi e sposati, sani e malati, dotti e ignoranti, dovunque lavorino, dovunque si trovino». Alcune parole della Lettera apostolica congiungono tra loro le due frasi, con questo riconoscimento: «il messaggio del venerabile Josemaría Escrivá rispecchia con mirabile congruenza l’universale portata del mistero salvifico».

La chiave dei due testi è la parola amore, quella che qualifica e riassume la rivelazione di Gesù Cristo; amore come elemento costitutivo dell’essere e dell’agire creativo e redentivo di Dio; amore come richiesta di Dio a tutte le sue creature; amore come risposta delle creature redente e introdotte nella figliolanza divina all’amore riversato su di esse da Dio. Non c’è santità senza amore, anzi, la santità è essenzialmente amore, nelle sue forme molteplici, che si manifestano nella vita interiore non meno che nell’attività esteriore dei figli di Dio.

La ricorrenza ventennale del trapasso del Beato si colloca, liturgicamente, all’indomani di quel soffio potente dello Spirito Santo che è costituito dalle solennità e memorie via via celebrate nei giorni scorsi: la Pentecoste, la Santissima Trinità, il Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, il Sacro Cuore di Gesù, il Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria. È il momento dell’anno liturgico forse più denso di richiami quasi martellanti: al mistero dell’amore di Dio, alle Tre Persone uguali e distinte immerse dall’eternità in una vita di amore, alla manifestazione di tale amore agli uomini attraverso il Cuore di Cristo e quello di Maria Immacolata, al dono spirituale dell’amore, compiutosi attraverso l’irruzione dello Spirito Santo nella vita dei fedeli. Si comprende da ciò come san Paolo abbia potuto scrivere quell’inno all’amore che non ha eguali nella letteratura universale: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore (agàpe, carità) sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono un nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova» (1 Cor 13 1-3).

Il Beato Josemaría ha compreso, assimilato, vissuto e riversato attorno a sé questo valore assoluto e primario, muovendosi all’interno della Chiesa con la prudenza e l’ardimento dei santi, in umiltà, obbedienza e fedeltà alla sede di Pietro, manifestando una cattolicità e una romanità esemplari.

Non parlerò della sua fondazione, l’Opus Dei, istituita nel 1928 e completata nel 1930 con la sua estensione al mondo femminile, allo scopo di chiamare alla santità ogni categoria di persone, indicando nella vita ordinaria e nel lavoro quotidiano l’ambito entro il quale accoglierla e farla fiorire. Voglio limitarmi a ricordare quanto il Beato ha fatto per la diocesi di Roma, personalmente in vita e successivamente attraverso i continuatori della sua opera. L’Opus Dei, eretta dal Papa a Prelatura personale nel 1982, è una realtà ecclesiale profondamente unita, i cui membri sono presenti in ogni parte del mondo. Ma non lo sono come corpo ecclesiale a parte, bensì come elementi di cooperazione con le Chiese locali, come forze che contribuiscono all’amalgama delle comunità cattoliche in ogni ambito territoriale. In questo spirito a Roma tre parrocchie sono affidate alle cure pastorali di sacerdoti della Prelatura.

In realtà è ben visibile in Roma il duplice impegno dell’Opus: da una parte, la cura pastorale e il sostegno dei fedeli in essa incorporati attraverso un itinerario ascetico e formativo particolarmente intenso e rivolto a plasmare cristiani adulti nella fede e capaci di testimoniarla; dall’altra la dedizione a diffondere in tutti gli ambienti della città una profonda presa di coscienza della chiamata universale alla santità e all’apostolato, e in concreto del valore santificante del lavoro professionale ordinario. Hanno preso vita così le Residenze universitarie, le scuole di formazione professionale, i servizi sportivi e culturali, le residenze per studenti lavoratori. Nel cuore di Roma, a Sant’Apollinare, è sorto il nuovo Ateneo Romano della Santa Croce e da ultimo ha iniziata la sua attività il Libero Istituto Universitario «Campus Bio-Medico», oltre ad altri istituti di ricerca scientifica, di didattica e di assistenza sanitaria.

Di questa presenza unitaria e al contempo multiforme Roma è grata all’Opus Dei e al suo Fondatore. Egli, che ha fortemente creduto alla missione specificata della Chiesa di Roma, ha molto contribuito al realizzarsi nel nostro tempo di questa missione. Così alla gratitudine si unisce l’attesa: in questi anni che ci conducono al Giubileo del terzo millennio, e poi nel secolo nuovo che ormai si apre al nostro sguardo, la testimonianza esemplare di Josemaría Escrivá, assimilata e continuata dai suoi figli spirituali, costituisce infatti una energia preziosa per favorire quel rinnovato, personale e consapevole incontro con Gesù Cristo che è il fine dell’opera missionaria della Chiesa.

Camillo Ruini

Vicario del Papa per la diocesi di Roma

Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

Romana, n. 20, Gennaio-Giugno 1995, p. 174-176.

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