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Un invito alla fedeltà

Non è stato solo né soprattutto per l’eco suscitata nei media che il cinquantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Papa ha assunto speciale rilievo fra gli eventi che hanno segnato il 1996. Una ricorrenza che trascende la cronaca e la cui comprensione, al di là dei sentimenti di simpatia e di stima che tanta gente nutre per la persona di Giovanni Paolo II, chiama in causa il sensus fidei: la coscienza che la Chiesa ha di se stessa, il ruolo di Pietro nella fede del popolo di Dio, il senso che esso attribuisce al sacerdozio. Un fatto, insomma, che, anche per la spontaneità con cui si è imposto, ha acquistato lo spessore di un autentico luogo teologico.

Non una semplice commemorazione, per quanto affettuosa. Non un risalire la china dei ricordi, pur nella gratitudine e nella commozione. Il Santo Padre stesso ne ha estratto una valenza pastorale, un appello alla coscienza dei cristiani: «Vorrei che questa mia testimonianza personale fosse per voi aiuto e invito alla fedeltà»[1]. In piena sintonia con il Papa, anche Mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, aveva scritto: «Quasi per istinto ci sentiamo portati a leggere quest’evento come un messaggio sul valore ed i frutti della fedeltà»[2]. Dunque, con lo sguardo rivolto al futuro, perché la fedeltà è virtù che nasce dall’amore e, come precisa Mons. Echevarría nell’articolo appena citato, «l’amore ha più futuro che passato».

Dono e mistero è un libro che non si lascia inquadrare in un genere letterario. Non mancano suggestivi squarci autobiografici, ma non è autobiografia. Ogni pagina è innervata da dense riflessioni teologiche, ma non è un trattato di teologia. Qui la scrittura del Papa possiede quella flessibilità e quella densità che appartengono solo alla preghiera. È dialogo con Dio, ove le domande si plasmano in certezze e — questo il sigillo della vera orazione — si condensano in decisioni irrevocabili. Ed il lettore ne viene coinvolto: ci si sente chiamati, sulla scia delle confidenze del Papa, a rispondere più fedelmente alla propria vocazione. Esordio quanto mai appropriato di questo primo anno di preparazione al grande Giubileo del 2000, che ha il suo perno nella riflessione sulla figura e sulla missione di Cristo.

Il Santo Padre segue le tracce del progressivo, discreto e tuttavia sempre più esplicito insinuarsi di Dio nella propria vicenda personale; ma va assai oltre il ricordo. Gli inserti narrativi sono strutturalmente finalizzati all’intento — secondo l’espressione testuale — di «scrutare il mistero che da cinquant’anni mi accompagna e mi avvolge» (p. 83). E di trarne luce per una risposta che prefigura tutto il suo futuro di uomo, di sacerdote, di Pontefice.

La voce di Dio raggiunge l’uomo nella concretezza irripetibile del tempo: risuona nella penombra delle circostanze di cui è intessuta la nostra storia. Ma la sua chiamata proviene dall’eternità[3] e in essa avrà compimento. Per decifrare gli interventi di Dio nel tempo occorre mettere in tensione il tempo con l’eterno: un’intersezione che soltanto la preghiera può disvelare. Qui passato e presente, attraverso segni per lo più allusivi, ci mostrano la trama del disegno di Dio e, perciò stesso, si aprono al futuro e lo travalicano per preparare l’eternità.

Segni allusivi, dicevamo, discreti. Dio non grida, rispetta la libertà dell’uomo, anzi, la provoca. La vocazione cristiana chiama in campo la categoria del mistero. Essa è teologica ed esistenziale insieme: da una parte, implica la consapevolezza dell’irriducibilità di Dio alla nostra comprensione e, proprio per questo, dall’altra, fonda la libertà della nostra risposta.

Queste premesse aiutano a meglio comprendere l’impianto della riflessione del Santo Padre quando, in Dono e mistero, ripercorre la storia della propria vocazione sacerdotale. Dalla traiettoria della vita la preghiera estrae l’evidenza di un piano divino coerente e teso soltanto alla scoperta, prima, e poi al compimento della chiamata al sacerdozio. Le atrocità della guerra, il distacco dai progetti giovanili, «tutto volgeva in direzione del bene costituito dalla vocazione» (p. 45). Gli interessi forgiatisi negli anni, gli studi, i differenti compiti pastorali, le circostanze storico-politiche, gli incontri che ebbero a scandire il passato di colui che oggi è Giovanni Paolo II appaiono come altrettanti gradini di un’ascesa lungo la quale il Signore lo ha guidato passo passo: «Ciascuno di loro ha offerto il proprio contributo alla realizzazione del mio sacerdozio. In qualche modo essi mi hanno indicato la strada, aiutandomi a capire meglio il mio ministero e a viverlo in pienezza (...). Ho imparato molto» (pp. 79-80).

Parole, queste, in cui sarebbe errato vedere la conclusione di un capitolo biografico. Altri pensieri, altre esperienze vitali assunte nel raccoglimento dell’anima che scruta la volontà di Dio, ce le presentano come un nuovo punto di partenza, il rilancio di una scommessa per un premio che si consumerà nel Cielo. Anche rintracciare una sola di queste sonde — il tema del sacrificio nella vita del sacerdote — basta a capire come l’anima sacerdotale debba essere pronta a dare sempre di più. Riandando alle atrocità della guerra, in cui nacque il suo sacerdozio, Giovanni Paolo II afferma: «In qualche modo esse mi hanno introdotto su questa strada, additandomi nella dimensione del sacrificio la verità più profonda ed essenziale del sacerdozio di Cristo» (p. 47). Ancora, in riferimento al rito della prostrazione durante la cerimonia dell’ordinazione sacerdotale, scrive: «In quel giacere per terra in forma di croce prima dell’Ordinazione, accogliendo nella propria vita — come Pietro — la croce di Cristo e facendosi con l’Apostolo “pavimento” per i fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale» (p. 54).

Ma, se questo è un nuovo punto di partenza, come non scorgervi l’allusione a nuove croci? Quali? La risposta echeggia quasi profeticamente in una poesia composta da Karol Woytila all’inizio del Concilio, proprio a San Pietro e proprio ricordando il momento ormai lontano di quella prostrazione: «Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento su cui camminano gli altri... per giungere là dove guidi i loro passi... / Vuoi essere Colui che sostiene i passi — come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge: / Roccia è anche il pavimento d’un gigantesco tempio. / E il pascolo è la croce» (p. 54). Pronto a soffrire ogni cosa per la Chiesa: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa»[4].

Il prezzo della fedeltà è Cristo a fissarlo di volta in volta per ciascuno di noi. Solo Lui può stabilire il contributo che ognuno può dare alla redenzione. Quella del Papa è la testimonianza di un uomo che usa la propria libertà per lasciare che sia Gesù a disporre della sua vita, senza porre limiti. Così, commentando l’esclamazione della liturgia della Messa subito dopo la consacrazione, confida: «A cinquant’anni dall’Ordinazione, posso dire che ogni giorno di più in quel Mysterium fidei si ritrova il senso del proprio sacerdozio. È lì la misura del dono che esso costituisce, e lì è pure la misura della risposta che questo dono richiede. Il dono è sempre più grande! Ed è bello che sia così. È bello che un uomo non possa mai dire di aver risposto pienamente al dono. È un dono ed è anche un compito: sempre! Avere consapevolezza di questo è fondamentale per vivere appieno il proprio sacerdozio» (p. 90). Chi ascolta Dio che ci parla nel silenzio della preghiera sa che il cristiano non può mai dire basta!, se vuole essere fedele alla propria vocazione, come ci ammonisce un pensiero del Beato Josemaría: «Essere cristiano — e in modo particolare essere sacerdote; ricordando anche che tutti noi battezzati partecipiamo al sacerdozio regale — significa stare continuamente in Croce»[5].

Il sacrificio è costitutivamente legato alla natura teologica stessa del sacerdozio. Scrive il Papa: «Il sacerdozio, fin dalle sue radici, è il sacerdozio di Cristo. È Lui che offre a Dio Padre il sacrificio di se stesso, della sua carne e del suo sangue, e con il suo sacrificio giustifica agli occhi del Padre tutta l’umanità e indirettamente tutto il creato. Il sacerdote, celebrando ogni giorno l’Eucaristia, scende nel cuore di questo grande mistero» (p. 86). Giustificare, redimere l’umanità intera e la sua storia: la portata di tale funzione è così alta da richiedere necessariamente il dono totale di sé, fino alla identificazione piena con Cristo salvatore che sacrifica la propria vita per noi: il sacerdote «dona a Cristo la sua umanità, perché Egli se ne possa servire come strumento di salvezza, quasi facendo di quest’uomo un altro se stesso» (p. 84). Infatti «Cristo è sacerdote perché Redentore del mondo. Nel mistero della Redenzione si inscrive il sacerdozio di tutti i presbiteri. Questa verità sulla Redenzione e sul Redentore si è radicata nel centro stesso della mia coscienza, mi ha accompagnato per tutti questi anni, ha impregnato tutte le mie esperienze pastorali, mi ha svelato contenuti sempre nuovi» (p. 92).

Certamente Dono e mistero è anche una meditazione sul sacerdozio. Ma al lettore resta soprattutto impresso nella memoria il ritratto che ne emerge del Papa: ritratto di un uomo che, fedele alla vocazione ricevuta, ha inteso fare della propria vita una realizzazione piena ed esclusiva della missione sacerdotale. «Qual è l’identità del sacerdote? — leggiamo in un’omelia del Beato Josemaría — Quella di Cristo. Tutti noi cristiani possiamo e dobbiamo essere non soltanto alter Christus, ma anche ipse Christus; lo stesso Cristo! Ma il sacerdote lo è in modo immediato, in forma sacramentale»[6]. Il Santo Padre traduce la medesima verità in termini pastorali: «Se si analizzano le attese che l’uomo contemporaneo ha nei confronti del sacerdote, si vedrà che, nel fondo, c’è in lui una sola, grande attesa: egli ha sete di Cristo. Il resto — ciò che serve sul piano economico, sociale, politico — lo può chiedere a tanti altri. Al sacerdote chiede Cristo!» (p. 96). Poi, poco oltre, ne trae la conseguenza spirituale: «Egli deve essere davvero uomo di scienza nel senso più alto e religioso di questo termine. Deve avere e trasmettere quella “scienza di Dio” che non è solo un deposito di verità dottrinali, ma esperienza personale e viva del Mistero» (p. 105).

Quest’esperienza trabocca da ogni pagina di Dono e mistero: è il segreto della fortissima attualità delle risposte che dalla vita di Giovanni Paolo II, oltre che dal suo insegnamento, provengono agli interrogativi dell’uomo contemporaneo[7]. Ed è, soprattutto, la ragione della forza racchiusa nel suo esempio: «Cristo ha bisogno di sacerdoti santi! Il mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo può diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente di Cristo e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare guida degli uomini e maestro di santità» (p. 101). In queste ultime parole sta la sintesi forse più efficace del ministero petrino nella fede della Chiesa.

[1] GIOVANNI PAOLO II, Dono e mistero, p. 109.

[2] Cfr., più avanti, Sezione “Del Prelato”, p. 197.

[3] «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà» (Ef 1, 4-5).

[4] Col 1, 24.

[5] Forgia, n. 882.

[6] La Chiesa nostra Madre, n. 38.

[7] «Il sacerdote non deve avere alcun timore di essere “fuori tempo”, perché l’“oggi” umano di ogni sacerdote è inserito nell’“oggi” del Cristo Redentore. Il più grande compito per ogni sacerdote e in ogni tempo è ritrovare di giorno in giorno questo suo “oggi” sacerdotale nell’“oggi” di Cristo, in quell’“oggi” del quale parla la Lettera agli Ebrei. Questo “oggi” di Cristo è immerso in tutta la storia — nel passato e nel futuro del mondo, di ogni uomo e di ogni sacerdote. “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e sempre” (Eb 13, 8). Quindi, se siamo immersi con il nostro umano, sacerdotale “oggi” nell’“oggi” di Gesù Cristo, non esiste il pericolo che si diventi di “ieri”, arretrati... Cristo è la misura di tutti i tempi. Nel suo divino-umano, sacerdotale “oggi”, si risolve alla radice tutta l’antinomia — una volta così discussa — tra il “tradizionalismo” e il “progressismo”» (pp. 95-96).

Romana, n. 23, Luglio-Dicembre 1996, p. 141-146.

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