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Riflessioni sull’esemplarità del mistero dell’Incarnazione del Verbo nell’insegnamento del Beato Josemaría Escrivá

Giuseppe Tanzella-Nitti

Pontificio Ateneo della Santa Croce

La riflessione sul mistero del Verbo incarnato, «insieme mediatore e pienezza di tutta intera la Rivelazione»[1], rappresenta il più importante luogo di comprensione della storia della salvezza e del piano divino sulla creazione. Si tratta di un mistero inesauribile, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della scienza e della sapienza»[2] capace di catturare costantemente lo studio e la contemplazione dei teologi e dei santi. Proprio questi ultimi, con la diversità, ma anche con la profonda consonanza con cui hanno proposto lungo i secoli le modalità della sequela Christi, ci hanno offerto un esempio di quante luci, anche per la riflessione teologica, derivino dalla venerazione sincera e affezionata al Figlio di Dio fatto uomo. La conoscenza della Parola rivelata progredisce infatti non solo mediante lo studio, ma anche grazie «ad una più profonda esperienza delle cose spirituali»[3]. Da Francesco d’Assisi a Caterina da Siena, da Ignazio di Loyola a Teresa di Lisieux, da Tommaso Moro a Alfonso Maria de’ Liguori, le pagine che i santi hanno dedicato alla meditazione del mistero del Cristo sono sempre state tesoro di inestimabile valore per l’intelligenza della fede.

Per quanto riguarda gli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá, leggiamo in proposito nel Decreto Pontificio sull’eroicità delle sue virtù: «Grazie ad una vivissima percezione del mistero del Verbo Incarnato, egli comprese che l’intero tessuto delle realtà umane si compenetra, nel cuore dell’uomo rinato in Cristo, con l’economia della vita soprannaturale e diviene luogo e mezzo di santificazione»[4]. Nelle opere del Fondatore dell’Opus Dei vi sono infatti tracce evidenti di come la considerazione della perfezione divino-umana del Verbo incarnato lo abbia condotto con sorprendente naturalezza a comprendere e predicare in modo attraente e profondo il nucleo essenziale della condizione e della vita cristiana. Il suo insegnamento è stato un continuo invito a guardare Cristo Gesù, per riconoscere in Lui il vero Dio e il vero uomo e, attraverso la contemplazione della sua umanità, poter aver accesso al mistero della sua divinità[5]. Tale itinerario, così come ci viene mostrato nei suoi scritti, trae origine in primo luogo dalla sua orazione personale. Lo si potrebbe facilmente mostrare, quasi a modo di riassunto, ricordando la tenera devozione che già nei primi anni di lavoro sacerdotale egli manifestò verso un’immagine del bambino Gesù proprietà della comunità di religiose agostiniane delle quali egli era cappellano: un’immagine che amava portare con sé, a casa sua, quasi mosso dal bisogno imperioso di una presenza sensibile che fosse di aiuto alla sua preghiera[6].

Negli insegnamenti del Beato Josemaría ci si imbatte spesso nella descrizione di numerose implicazioni ascetiche e dottrinali che derivano proprio dalla condizione divino-umana di Cristo. In questo lavoro ci proponiamo di esplorare alcuni fra i principali contenuti teologici associati a tali implicazioni, limitandoci agli scritti finora pubblicati. Data l’ampiezza della tematica — di fatto, le conseguenze dell’Incarnazione coinvolgono, direttamente o indirettamente, ogni aspetto della fede cristiana — queste nostre osservazioni possono avere solo un valore indicativo e circoscritto. Esse si limitano inoltre, come suggerito dal titolo del nostro studio, ad offrire una lettura del mistero dell’Incarnazione in chiave essenzialmente noetica, senza poter sviluppare le corrispondenti riflessioni sulla sua centralità salvifica. Questa distinzione, utile per l’analisi teologica, non sarebbe pertinente cercarla nell’esperienza spirituale del Beato Josemaría, ove la comprensione del valore salvifico del mistero di Gesù Cristo, l’adesione alla sua persona e le sue implicazioni per la vita cristiana, analogamente a quanto avviene di fatto nella vita di ogni credente e dei santi in modo particolare, precedono ogni riflessione oggettiva sul contenuto o la portata noetica del mistero stesso.

Come pista principale per la nostra ricerca utilizzeremo i numerosi riferimenti all’espressione perfectus Deus, perfectus homo, talvolta anche impliciti, presenti negli scritti del Beato, per rivolgerci poi ad altri testi ove l’Autore si trattiene a commentare in modo intenzionale i risvolti dottrinali o pastorali collegati al mistero del Verbo incarnato. Cercheremo infine di organizzare tali testi attorno ai corrispondenti contesti tematici che ne risultano interessati. Il tema che qui ci occupa non è estraneo a quello affrontato in studi precedenti, i quali, sotto diverse angolature, hanno già messo in evidenza altri importanti aspetti del cristocentrismo del Beato Josemaría[7].

1. Il mistero del Verbo incarnato nell’economia della Rivelazione

A scopo introduttivo, può essere utile riepilogare brevemente quali sono le principali coordinate bibliche e teologiche che consentono una lettura del mistero dell’Incarnazione come specificità del cristianesimo e principio ermeneutico del rapporto fra Dio e l’uomo.

In primo luogo l’epistolario paolino ci presenta il piano salvifico divino come un mistero che appartiene al Padre, taciuto nei secoli, ma rivelato adesso nel Figlio[8]. Questo mistero è il Cristo stesso nelle sue nature umana e divina[9], condizione di una mediazione grazie alla quale si è compiuta la redenzione, nelle sue dimensioni sia di rappacificazione di Dio con l’umanità, sia di ricapitolazione-riordinamento della creazione col suo Creatore. L’Incarnazione del Verbo si presenta così come un evento sommamente rivelatorio, non solo, evidentemente, per la forma con cui la Parola di Dio viene consegnata all’umanità — parola divina incarnata, espressa dalle parole e dai gesti umani del Verbo —, ma anche per la sua capacità di riassumerne l’intero contenuto: tutto quanto la Trinità divina vuole rivelare/donare agli uomini è racchiuso e compiuto nel dono del Figlio eterno del Padre, fatto uomo per opera dello Spirito Santo. Guardando Cristo vi si può leggere l’intera parola che Dio rivolge all’uomo e, in forza della sua mediazione umana, le modalità della parola con cui l’uomo deve rispondere a Dio.

In secondo luogo, il fatto che la pienezza della rivelazione e della donazione di Dio al mondo — come ci ricorda il prologo giovanneo — avvengano nella Persona del Verbo fatto uomo, non può non caratterizzare in modo determinante i rapporti fra Dio e il mondo, fra Dio ed ogni persona umana. Nel mistero del Cristo trovano compimento l’opera della creazione e quella della redenzione. Egli, nel presentarsi come la ragione ed il modello della nostra predestinazione alla filiazione divina e della nostra eterna partecipazione alla vita trinitaria[10], si propone a noi, già nella presente economia, come il luogo della nostra trascendenza[11]. Detto in altre parole, il rapporto fra ciò che è umano e ciò che è divino non può non essere essenzialmente «cristiano». Questo aggettivo ha in sé la capacità di originare e di illuminare in modo coerente tutto un intero panorama teologico dai non pochi risvolti sul piano storico, esistenziale e perfino culturale. Nel rapporto fra ciò che è umano e ciò che è divino, sono infatti implicitamente contenuti temi assai più ampi. Esso è rappresentativo della relazione che intercorre fra natura e grazia, fra immanenza e trascendenza, fra storia ed eternità, fra segno e sacramento, fra la ragione e la fede, fra il lavoro e la preghiera, fra la città degli uomini e la città di Dio. Dalla nostra comprensione di cosa sia l’Incarnazione non dipende solo la nostra comprensione del rapporto tra natura e grazia, ma si gioca anche la nostra concezione del mondo e dell’uomo, e si decide la nostra concezione di Dio.

In terzo luogo, la centralità del mistero del Cristo nel piano della creazione, non solo in quello della redenzione, pone l’Incarnazione del Verbo in condizione di rivelare in modo privilegiato il progetto di Dio sulla creazione stessa[12]. In lui sussistono tanto le ragioni della prima creazione, quanto quelle della nuova creazione. Più ancora, proprio perché della creazione Egli ne costituisce il senso ultimo e la ragione della sua ordinabilità al Padre nello Spirito, la condizione divino-umana del Verbo incarnato rivela la capacità che le realtà umane e terrene hanno di poter condurre a Dio e, pertanto, il loro implicito valore salvifico, quando esse sono lette, ma soprattutto vissute, nella luce dell’evento terreno del Cristo, in modo particolare nella luce del suo mistero pasquale[13]. In sostanza, il mondo creato appartiene al mistero del Verbo incarnato e può essere pienamente compreso, custodito e condotto al suo fine soltanto in unione con Cristo, cioè partecipando al suo mistero e riproducendone in noi la sua logica salvifica.

2. L’origine ed il significato dell’espressione perfectus Deus, perfectus homo

Negli scritti finora pubblicati del Fondatore dell’Opus Dei, il richiamo diretto alla perfetta umanità e alla perfetta divinità di Gesù Cristo, mediante la nota dizione del Simbolo pseudoatanasiano Quicumque nella sua forma latina «perfectus Deus, perfectus homo»[14] o nel suo equivalente in lingua spagnola, compare in modo esplicito 18 volte[15]. Se includiamo nell’analisi delle frequenze l’espressione equivalente «vero Dio e vero uomo» ed i riferimenti diretti alla «perfetta umanità del Verbo incarnato», il numero totale dei richiami sale a 44 volte[16]. Possiamo dunque affermare che, insieme a quella «alter Christus, ipse Christus» riferita alla condizione del cristiano, siamo di fronte ad una delle formule concettuali più frequenti nella predicazione del Beato Josemaría[17].

Ma quale fu l’origine di questa espressione nel magistero della Chiesa antica e quali le sue finalità dogmatiche? Se astraiamo per il momento dal Simbolo Quicumque, sorto fra la fine del V e l’inizio del VI secolo per scopi catechetici e liturgici, e nel quale l’enunciato «perfectus Deus, perfectus homo» viene raccolto assieme alle principali affermazioni trinitarie e cristologiche elaborate in precedenza[18], un primo cenno ad una espressione di questo genere lo incontriamo nell’anno 374, in una lettera del papa Damaso I. Stigmatizzando contro gli ariani e gli apollinaristi, egli obietterà l’errore dei primi che del Figlio «dicono imperfetta la divinità», e quello dei secondi che ne «asseriscono falsamente un’umanità imperfetta»[19].

Ma la formulazione pseudoatanasiana compare in modo esplicito per la prima volta in lingua greca, nell’anno 433, nel cosiddetto «Decreto di Unione». In esso leggiamo: «Confessiamo dunque il signore nostro Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo (theòn théleion kaì ànthropon téleion) [composto] di anima razionale e di corpo, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, nato, per noi e per la nostra salvezza, alla fine dei tempi dalla vergine Maria secondo l’umanità, consostanziale al Padre secondo la divinità, e consostanziale a noi secondo l’umanità»[20]. Fatto redigere da Sisto III, tale Decreto sanciva la riunificazione dei Vescovi della Chiesa di Antiochia con la confessione di fede ortodossa, come naturale sbocco della soluzione della crisi nestoriana risolta dal Concilio di Efeso nel 431. La dottrina di questo Concilio aveva definito due anni prima la presenza di entrambe le nature, quella divina e quella umana, nel Figlio di Dio fatto uomo, spiegando come la loro unione avveniva nell’ipostasi, cioè nel soggetto del Verbo.

Come è noto, i chiarimenti del magistero della Chiesa circa la «perfetta umanità del Verbo incarnato» dovettero protrarsi ancora per più di due secoli, dal Concilio di Calcedonia (anno 451) fino al Concilio III di Costantinopoli (anno 681), a motivo delle frequenti messe in discussione da parte di posizioni eretiche o comunque non pienamente ortodosse[21]. Così, in una lettera indirizzata al vescovo Flaviano di Costantinopoli, papa Leone Magno puntualizzerà, contro Eutiche, che «in un’integra e perfetta natura di uomo vero è nato Dio vero, tutto nelle sue realtà, tutto nelle nostre (totus in suis, totus in nostris[22]. Pochi anni dopo, il Concilio di Calcedonia, essendosi finalmente stabilizzato l’uso del termine «persona», poté fissare il vocabolario cristologico mediante la formula «una persona, due nature», precisando come queste ultime sussistevano inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter[23]. Sarà infine il Concilio III di Costantinopoli a difendere ancora la perfetta umanità del Cristo nei confronti dell’errore monotelita, ribadendo che in Cristo Gesù sussisteva una vera volontà umana, e che l’assunzione dell’umanità da parte del Verbo non sminuiva né tantomeno annullava tale volontà, ma le dava anzi autonomia, consistenza e fondamento: «Come, infatti, la sua carne tutta santa, immacolata e animata, sebbene deificata, non è stata cancellata, ma è rimasta nel proprio stato e nel proprio modo d’essere, così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu annullata, ma piuttosto salvata»[24]. È la seconda Persona della S.S. Trinità, Colei che dopo l’Incarnazione e «durante tutta l’economia della sua vita incarnata, operò prodigi e soffrì dolori non in apparenza, ma realmente»[25].

Non è difficile comprendere la portata e le conseguenze di questa professione di fede ortodossa[26]. La Chiesa nascente, così come il magistero dei grandi Concili dell’antichità, solidamente fondati sul messaggio evangelico, erano pienamente consapevoli che soltanto la confessione di due perfette nature del Verbo incarnato, la divina e la umana, assicurava alla redenzione tutto il suo valore ed il suo realismo. Se il Cristo non fosse stato vero Dio, ne sarebbe risultata svalutata l’efficacia universale e salvifica del sacrificio vicario; se non fosse stato vero uomo, non si sarebbe compreso fino in fondo la cifra dell’amore di Dio per l’umanità, cioè la veridicità che in quel sacrificio veniva mostrata, né si sarebbe instaurata una vera solidarietà con la natura umana decaduta, pregiudicando il valore salvifico dell’umanità del Verbo come strumento della grazia divina[27]. La compiutezza della mediazione, così come l’autentico significato dell’alleanza salvifica, richiedevano tanto la pienezza dell’umanità come quella della divinità: l’Unigenito del Padre doveva essere anche il primogenito degli uomini[28]. Alla vera umanità del Verbo incarnato, inoltre, era legata la sua capacità di essere vero modello per ogni essere umano, uno da cui si può davvero prendere esempio[29].

La confessione dell’autentico dogma cristologico diviene pertanto una condizione necessaria ed irrinunciabile affinché la missione della Chiesa possa collocarsi nel prolungamento della missione del Cristo e proporre a tutti gli uomini l’universalità della Sua mediazione salvifica. Nella confessione di una lex incarnationis ove ad essere assunta dal vero Verbo divino è una vera e perfetta umanità, vi è contenuto in certo modo il fondamento stesso della chiamata universale alla santità e dell’ordinamento a Dio di tutte le realtà terrene: Dio, facendosi uomo in Cristo, «si è unito in certo modo ad ogni uomo»[30]. Nessun uomo può sentirsi estraneo a Cristo, nessuna vicenda umana può essere estranea agli eventi della Sua storia terrena. Ogni uomo è chiamato a partecipare alla ricapitolazione con cui il Figlio riconduce al Padre nello Spirito quella creazione che Egli stesso ha redento tanto in forza del suo soggetto divino, quanto in forza della sua vera umanità. Di qui la particolare sensibilità di tutta la Tradizione cristiana — di cui l’esperienza e l’insegnamento dei santi sono interpreti vivi — nel riconoscere nel perfectus Deus, perfectus homo un asserto essenziale per la proclamazione e l’efficacia dell’universalità della missione salvifica della Chiesa.

Nel caso del Fondatore dell’Opus Dei ci pare di poter affermare che le considerazioni precedenti assumono un valore del tutto particolare. Ricordare ad ogni persona la chiamata universale alla santità, la santificazione e la santificabilità delle realtà terrene attraverso un lavoro svolto in unione con Cristo, in special modo quel lavoro ordinario che prende esempio dai trenta anni di vita nascosta di Gesù, costituiscono il nocciolo del messaggio di cui si è fatto portatore ai tempi nostri il Beato Josemaría[31]. Questo nucleo viene formalmente esplicitato nella peculiare missione pastorale affidata all’Opus Dei dalla Chiesa al momento di erigerla come Prelatura personale[32]. «Con soprannaturale intuizione — affermava Giovanni Paolo II nell’omelia della Messa della beatificazione — il Beato Josemaría predicò instancabilmente la chiamata universale alla santità e all’apostolato. Cristo convoca tutti a santificarsi nelle realtà della vita quotidiana; pertanto, il lavoro è anche mezzo di santificazione personale e di apostolato quando è vissuto in unione con Cristo, perché il Figlio di Dio, incarnandosi, in certo modo si è unito a tutta la realtà dell’uomo e a tutta la creazione. In una società nella quale la brama sfrenata per il possesso delle cose materiali le trasforma in idoli e in motivi di allontanamento da Dio e dell’ingegno umano, se si usano rettamente per la gloria del Creatore e per il servizio dei fratelli, possono essere via per l’incontro degli uomini con Cristo»[33]. Di fatto, l’appello all’imitazione della vera umanità di Cristo e l’esortazione a divinizzare il lavoro ordinario mediante una vita pienamente e sinceramente filiale, avente per fine l’identificazione con Cristo, accompagneranno ogni passo della predicazione del Beato Josemaría.

3. L’Incarnazione del Verbo, legge di condiscendenza e fondamento della santificabilità della vita ordinaria

In un primo gruppo di testi del Fondatore dell’Opus Dei contenenti la formula pseudoatanasiana (o altra ad essa equivalente), la perfetta umanità di Gesù, vero Dio ma anche vero uomo, viene proposta come modello per la vita di ogni cristiano. Il contesto più frequente è quello della catechesi morale sulle virtù, di cui parleremo nella prossima sezione, in modo particolare quelle connesse con l’esercizio del lavoro. Un secondo contesto, altrettanto rappresentativo, è quello in cui la contemplazione pausata di Cristo vero uomo «muove» il cristiano a porsi in rapporto con Dio, suscitando sentimenti di ringraziamento, ma anche di contrizione e desiderio di corrispondenza, perché l’umanità perfetta del Verbo «rivela» la cifra dell’amore di Dio per ogni essere umano.

Proprio in quest’ultimo contesto, la condizione divino-umana del Figlio di Dio viene presentata come una legge di condiscendenza, un mistero in cui «c’è qualcosa che dovrebbe emozionare profondamente i cristiani»[34], qualcosa che rende agli uomini più facile l’imitazione di Cristo e l’accesso all’amore del Padre: «Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, per far arrivare agli uomini la sua dottrina di salvezza e per manifestare loro l’amore di Dio, procedette in modo umano e divino. Dio scende al nostro livello, assume senza riserve la nostra natura, fatta eccezione per il peccato. Mi riempie di gioia considerare che Cristo ha voluto essere pienamente uomo, di carne come noi. Mi commuove contemplare il fatto meraviglioso di un Dio che ama con un cuore umano»[35]. Dall’umanità di Cristo alla Persona del Verbo si traccia così un percorso ideale in grado di rivelare la divinità attraverso la contemplazione dell’amore condiscendente manifestato dall’assunzione di una perfetta umanità: «Ognuno di questi gesti umani è un gesto divino. Cristo è Dio fatto uomo, uomo perfetto, uomo completo. E nella sua umanità ci fa conoscere la divinità. (...) Stiamo scoprendo Dio. Ogni azione di Cristo ha un valore trascendente: ci fa conoscere il modo di essere di Dio, ci invita a credere nell’amore di Dio che ci ha creati e vuole portarci nella sua intimità»[36].

Come logico, questa legge di condiscendenza e di rivelazione tocca il vertice del suo appello nella passione redentrice: «Grazie, Gesù mio! — leggiamo in Solco — perché hai voluto farti perfetto Uomo, con un Cuore amante e amabilissimo, che ama fino alla morte e che soffre: che si riempie di gioia e di dolore; che si entusiasma per i cammini degli uomini, e ci mostra quello che conduce al Cielo...»[37]. E nel commento alla Via Crucis: «I nostri peccati sono stati la causa della Passione: della tortura che deformava la fisionomia amabilissima di Gesù, perfectus Deus, perfectus homo. E sono ancora le nostre miserie a impedirci ora di contemplare il Signore, presentandoci opaca e contraffatta la sua figura»[38].

Nelle sue opere egli menzionerà una consuetudine più volte seguita nei suoi primi anni di sacerdozio, quella di diffondere il Vangelo e dei libri sulla passione del Signore; pratica che assocerà ancora una volta al desiderio di muovere altri a contemplare la perfezione dell’amore divino-umano del Dio fatto uomo: «Per avvicinarci a Dio dobbiamo intraprendere la via giusta, che è la santissima umanità di Cristo. Per questo, da sempre ho consigliato la lettura di buoni libri che narrino la Passione del Signore. Tali scritti, pieni di sincera devozione, ci fanno pensare al Figlio di Dio, uomo come noi e vero Dio, che ama e che soffre nella sua carne per la redenzione del mondo»[39]. Sempre nel contesto della passione, la perfetta umanità di Cristo sarà presentata come il movente del suo desiderio, pienamente umano, di voler restare per sempre con i suoi discepoli, nonostante l’imminente distacco; desiderio che la perfetta divinità di Gesù renderà possibile nel dono dell’Eucarestia[40].

L’umanità del Verbo, rivelatrice dell’amore del Figlio per il Padre e dell’amore del Padre per tutti gli uomini nel Figlio, muove il cristiano a prendere esempio da tutta la vita di Gesù. Dalla considerazione dell’episodio delle sue tentazioni, ne nasce uno stimolo per saper lottare meglio contro i nostri limiti e le nostre passioni[41]; dall’ammirazione della sua accessibilità, manifestata da una fame, da una sete o da una stanchezza in tutto simili alle nostre, ne nasce un incoraggiamento a parlare col Signore, ad instaurare un rapporto personale con Dio in Cristo. «[Il Vangelo] ci racconta che, “rientrando al mattino in città, Gesù ebbe fame. Vedendo un fico sulla strada vi si avvicinò” (Mt 21,18-19). Che gioia, Signore, vedere che hai fame, o vedere che hai sete, come al pozzo di Sicar! Ti contemplo perfectus Deus, perfectus homo: vero Dio, ma anche vero uomo, fatto di carne come la mia. “Annientò se stesso prendendo la forma di schiavo” (Fil 2,7), affinché io non dubitassi mai che mi comprende, che mi ama. “Ebbe fame”. Quando ci stanchiamo — nel lavoro, nello studio, nell’impegno apostolico —, quando ci si restringe l’orizzonte, volgiamo gli occhi a Cristo: al Gesù buono, al Gesù stanco, al Gesù che ha fame e sete. Come ti fai capire bene, Signore! Come ti fai amare!»[42]. Con parole analoghe, tornerà in un’altra omelia sullo stesso tema: «Aveva fame. Il Creatore dell’universo, il Signore di tutte le cose soffre la fame! Signore ti ringrazio che — per ispirazione divina — lo scrittore sacro abbia lasciato, in quel brano, un particolare che mi obbliga ad amarti di più, che mi incoraggia a desiderare vivamente la contemplazione della tua santissima Umanità. Perfectus Deus, perfectus homo, perfetto Dio e perfetto uomo, di carne ed ossa, come te, come me»[43].

La centralità che la santificazione del lavoro e dei doveri del proprio stato occupa nella predicazione del Fondatore dell’Opus Dei, lo porterà a proporre insistentemente il valore redentore della vita ordinaria di Gesù a Nazaret, il cui fondamento teologico egli colloca ancora una volta nella duplice natura, divina ed umana, del Figlio di Dio: «A ben guardare, fra le molti lodi che di Gesù hanno intessuto coloro che ne ebbero modo di contemplare la sua vita, ve n’è una che, in un certo modo, le riassume tutte... “Bene omnia fecit” (Mc 7,37), ha fatto tutto ammirevolmente bene: i grandi prodigi e le cose piccole, quotidiane, che non lasciano stupefatti, ma che Cristo ha compiuto con la pienezza di chi è perfectus Deus, perfectus homo, perfetto Dio e uomo perfetto. Tutta la vita del Signore mi riempie di ammirazione. Inoltre, ho una debolezza particolare per i suoi trent’anni di esistenza occulta a Betlemme, in Egitto, a Nazaret. Questo periodo — lungo —, del quale il Vangelo fa solo un cenno, sembra privo di significato specifico agli occhi di chi lo osserva con superficialità. Invece, ho sempre sostenuto che questo silenzio sulla biografia del Maestro è molto eloquente, e racchiude meravigliose lezioni per i cristiani. Furono anni intensi di lavoro e di preghiera, durante i quali Gesù condusse una vita normale — come la nostra, se vogliamo —, divina e nello stesso tempo umana»[44]. Espressioni analoghe, nelle quali si mette in luce il valore redentore del lavoro ordinario — specie quello nascosto e fatto di cose apparentemente poco importanti — quando compiuto in unione con Cristo, si incontrano di continuo. Un buon numero di esse prenderanno avvio proprio da un riferimento al mistero dell’Incarnazione o alla condizione divino-umana di Gesù di Nazaret. Considerazioni spesso proposte con toni ricchi di emotività, come di chi voglia svelare una scoperta che ha profondamente caratterizzato tutta una vita: «Nel comportarci con normalità — come la gente uguale a noi — e con senso soprannaturale, non facciamo altro che seguire l’esempio di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Potete ben vedere che tutta la sua vita è piena di naturalezza. Per trent’anni resta nell’ombra, senza richiamare l’attenzione, come uno dei tanti lavoratori, e nel suo villaggio è conosciuto come il figlio del falegname (...). In Gesù non c’era niente di stravagante. Mi commuove sempre questa regola di comportamento del Maestro, che passa in mezzo agli uomini come uno qualsiasi»[45].

4. L’Incarnazione nell’orizzonte del rapporto fra natura e grazia: nessuno può superare il cristiano in umanità

Come accennato in precedenza, una significativa serie di richiami alla formula pseudoatanasiana compare nel contesto dell’insegnamento sulle virtù. All’interno di questo tema, come messo opportunamente in luce già da altri autori, sono contenuti alcuni importanti aspetti di una visione del rapporto fra natura e grazia proprio a partire dal mistero dell’Incarnazione[46].

Nell’omelia «Le virtù umane», pronunciata nel 1941 e raccolta in Amici di Dio, le allusioni alla formula pseudoatanasiana compaiono almeno 7 volte e gli ascoltatori vengono esplicitamente invitati, prima di ogni altra cosa, ad approfondire il mistero del Verbo incarnato[47]. La Sua duplice natura viene presentata come paradigma dell’armonia che deve esistere fra virtù umane e soprannaturali, fra natura e grazia: «Cristo è perfectus Deus, perfectus homo: Egli è Dio, Seconda Persona della Trinità Beatissima, e perfetto uomo. Porta con sé la salvezza e non la distruzione della natura»[48]. La stessa idea sarà raccolta in un punto di Solco: «Iesus Christus, perfectus Deus, perfectus Homo... Molti sono i cristiani che seguono Cristo, sbalorditi di fronte alla sua divinità, ma lo dimenticano in quanto Uomo..., e così falliscono nell’esercizio delle virtù soprannaturali — nonostante tutto l’armamentario esteriore di devozione —, perché non fanno nulla per acquisire le virtù umane»[49].

Il rapporto fra natura e grazia ci pare debba essere letto in due linee, l’una ascendente, l’altra discendente. Secondo la prima, il retto esercizio delle virtù umane costituisce il fondamento delle virtù cristiane (utilizziamo l’aggettivo cristiano di proposito, in luogo di quello soprannaturale, a motivo della sua maggiore carica noetico-positiva). Ne è un esempio esplicito il testo seguente: «Sulla terra sono molti coloro che non hanno rapporto con Dio; forse sono creature che non hanno avuto l’occasione di ascoltare la parola divina, o anche l’hanno dimenticata. Ma sovente le loro disposizioni sono umanamente sincere, leali, compassionevoli, oneste. Oso affermare che chi riunisce in sé tali disposizioni, non è lontano dall’essere generoso con Dio, perché le virtù umane sono il fondamento di quelle soprannaturali. È vero che non bastano le condizioni personali: nessuno si salva senza la grazia di Cristo. Ma quando un uomo conserva e coltiva un principio di rettitudine, Dio gli appianerà il cammino; potrà diventare santo, perché sa vivere da galantuomo»[50].

In un soggetto che «conserva e coltiva un principio di rettitudine», facendo fruttare generosamente i talenti ricevuti, la natura si dispone ad essere elevata dalla grazia sulla spinta di quella abnegazione e di quella generosità che ogni esercizio virtuoso sincero ed autentico reca con sé. Si richiede l’impegno della libertà, l’orientamento a non vivere più per se stessi, ma per gli altri; si richiede la capacità di riconoscere i valori buoni e nobili contenuti in tante realtà della terra. Senza questa base, il cristianesimo resterebbe disincarnato, puro spiritualismo incapace di integrarsi in una vera unità di vita, inadeguato non solo ad affrontare le sfide della storia, ma anche ad assolvere i compiti propri della missione della Chiesa nel mondo.

Nella sua lettura discendente, il rapporto fra grazia e natura a partire dal principio di Incarnazione ci dice che non vi è nulla che Cristo proponga all’uomo e che non rappresenti, proprio per questo, anche un’autentica promozione di ciò che è profondamente umano. In ogni credente deve nascere allora il desiderio sincero di lavorare nelle cose del mondo senza complessi o limitazioni, né sconti alla propria fede, perché il suo essere cristiano è proprio ciò che può rendere questo mondo più umano: «Il cristiano è uno dei tanti nella società; ma dal suo cuore traboccherà la gioia di chi si propone di realizzare, con l’aiuto costante della grazia, la Volontà del Padre. E nel fare ciò non si sente vittima, né in situazione di inferiorità, né coartato. Cammina a testa alta, perché è uomo e perché è figlio di Dio»[51]. Grazie alla Rivelazione, egli sa che la sua condizione di essere creato in Cristo gli ha definitivamente svelato la verità sulla natura umana[52], così come la condizione creata — cioè riferita ontologicamente a Dio — del mondo e della storia, ha svelato il senso e la verità di tutte le cose. Qui giace, a nostro modo di vedere, il senso più profondo di quella «naturalezza» che ogni cristiano, precisamente in quanto cristiano, è chiamato a vivere in mezzo al mondo[53].

La grazia e la luce ricevuta dalla Rivelazione divina non sono per la natura qualcosa di giustapposto, né tantomeno qualcosa di superfluo. Le virtù cristiane svelano al loro fondamento, alle virtù naturali, quale sia la loro origine ed il loro fine — il loro tèlos, nel senso di pieno compimento e significato. Ad imitazione di Cristo, vero uomo, il cristiano è, pertanto, uomo completo. Solo tenendo bene insieme questi due poli e l’armonia di questi due versanti, si può dare ragione della verità dell’Incarnazione: «Una certa mentalità laicista ed altri modi di pensare che potremo chiamare “pietisti” coincidono nel non considerare il cristiano come un uomo completo. Per i primi, le esigenze del Vangelo soffocherebbero le qualità umane; per gli altri, la natura decaduta metterebbe in pericolo la purezza della fede. Il risultato è lo stesso: si smarrisce il senso profondo dell’Incarnazione di Cristo, si ignora che “il Verbo si è fatto carne”, uomo, “e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14)»[54].

Il tema delle virtù umane come fondamento di quelle cristiane, della natura come presupposto della grazia, merita qui alcune precisazioni. L’insistenza del Fondatore dell’Opus Dei sull’importanza delle virtù umane — sono noti ad esempio il suo apprezzamento per la lealtà e la sincerità, che riconosceva come autentici valori presenti in molti ambienti anche non cristiani, o la sua insistenza sulla necessità dello studio e della competenza professionale — non va certamente letta in senso naturalista. Sarebbe una falsa interpretazione, di stampo semipelagiano, ritenere che una natura più nobile e più forte costituisca un migliore presupposto per l’azione della grazia, giustificando erroneamente una cura della natura come fosse qualcosa fine a se stessa. In una simile prospettiva, l’orizzonte virtuoso sarebbe facilmente limitato a quello di una mera forma di equilibrio o di efficacia umana. Quando invece la natura si avvia verso un compimento che oltrepassa se stessa, e le qualità umane verso una perfezione che supera l’interesse individuale di chi le esercita, le virtù umane riconoscono implicitamente il loro tèlos non già più nella natura stessa, ma in qualcosa che le trascende, aprendosi così all’azione gratuita della grazia divina. È solo da quest’ultima che, mediante la Rivelazione e la fede, può giungere la vera luce che dà significato pieno ad ogni valore umano: «La nostra fede — affermerà il Beato Josemaría nella medesima omelia sulle virtù umane — dà pieno rilievo a tutte queste virtù che nessuno dovrebbe trascurare di coltivare. Nessuno può superare il cristiano in umanità. Perciò chi segue Cristo è capace — non per merito proprio, ma per grazia di Dio — di comunicare a quanti lo circondano ciò che sovente intuiscono, ma non arrivano a comprendere: che la vera felicità, l’autentico servizio al prossimo, passano necessariamente attraverso il Cuore del nostro Redentore, perfectus Deus, perfectus homo»[55].

L’economia divino-umana inaugurata dall’evento dell’Incarnazione, il cui mistero era ed è presente nell’ordine storico-reale del piano divino sulla creazione, fa sì che ci siano solo due modi di vivere sulla terra: o si vive una vita divina, oppure una vita animale, più o meno umanamente illustrata: «Non dimentichiamo mai che per tutti — quindi per ciascuno di noi — ci sono solo due modi di stare sulla terra: o si vive vita divina, lottando per piacere a Dio; o si vive vita animale, più o meno umanamente illuminata, quando si prescinde da Lui. Non ho mai dato molto credito ai “santoni” che si vantano di non essere credenti: li amo davvero come amo tutti gli uomini, miei fratelli; ammiro la loro buona volontà, che in certe circostanze può essere eroica, ma li compiango, perché hanno l’enorme disgrazia di mancare della luce e del calore di Dio, e dell’ineffabile gioia della speranza teologale. Un cristiano sincero, coerente con la sua fede, agisce faccia a faccia con Dio, con visione soprannaturale; lavora in questo mondo che ama appassionatamente, impegnandosi nelle vicende della terra, con lo sguardo al Cielo»[56].

5. Le conseguenze della lex incarnationis: essere nel mondo senza essere del mondo, per ricondurre a Dio il mondo attraverso il lavoro

La logica consegnataci dall’evento dell’Incarnazione rivela che il mondo è in sé buono, ordinabile a Dio. Come conseguenza, il cristiano deve essere presente nel mondo e in tutte le attività umane mediante il suo lavoro, per rendere compiuto questo ordinamento in unione con Cristo. Nella storia umana, segnata dal peccato, tale ordinamento assumerà necessariamente anche un carattere di redenzione. Come il Verbo ha assunto su di Sé una natura identica alla nostra, tranne che nel peccato, così il cristiano, pienamente immerso nelle realtà del mondo, le assume su di sé e le condivide interamente, tranne il peccato stesso. Tuttavia, del peccato egli — come il Cristo — ne assume le conseguenze, le raccoglie come una materia da purificare e da ricondurre nell’alveo del progetto divino, secondo un compito che può a ragione chiamarsi corredenzione con Cristo di quelle medesime realtà[57]: «Non mi stancherò pertanto di ripetere che il mondo può essere santificato e che a noi cristiani tocca in modo particolare questo compito: purificare il mondo dalle occasioni di peccato con cui gli uomini lo imbrattano ed offrirlo al Signore come ostia spirituale, presentata e dignificata dalla grazia di Dio e dal nostro impegno. A rigore, non si danno realtà nobili che siano tali in senso esclusivamente profano, dal momento che il Verbo si è degnato di assumere integralmente la natura umana e di consacrare la terra con la sua presenza ed il lavoro delle sue mani. La grande missione che riceviamo nel battesimo è la corredenzione»[58]. Il collegamento fra lavoro umano ed Incarnazione del Verbo, non riguarda dunque solo il piano esemplare. Il cristiano non è chiamato a lavorare soltanto perché Cristo, vero uomo, ha voluto anch’Egli lavorare su questa terra. Questa motivazione, sebbene corretta, risulterebbe insufficiente. Il lavoro appartiene al mistero del Cristo perché attraverso di esso il cristiano riproduce in sé la medesima economia salvifica inaugurata dall’Incarnazione, quella del Figlio inviato dal Padre nel mondo in una vera umanità, per legarsi così ad una creazione che Egli redime e salva. E ciò è particolarmente vero per quei cristiani che lavorano nel saeculum come compito proprio, cioè i fedeli laici. Queste implicazioni della lex incarnationis vengono così riassunte dal Fondatore dell’Opus Dei con parole analoghe alle precedenti: «Non c’è nulla che sia estraneo alle attenzioni di Cristo — leggiamo in È Gesù che passa —. Parlando con rigore teologico, senza limitarci ad una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà — buone, nobili e anche indifferenti — esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l’amicizia e l’obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte. (...) Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono: il peccato di Adamo ruppe la divina armonia del creato, ma Dio ha inviato il suo Figlio unigenito a ristabilire la pace. E così noi, divenuti figli di adozione, possiamo liberare la creazione dal disordine e riconciliare tutte le cose con Dio»[59].

In forza di quella consapevolezza che deriva dalla dimensione discendente del rapporto fra grazia e natura, fra ciò che è cristiano e ciò che è umano, non vi sono ambiti della vita culturale o sociale nei quali i credenti non possano proporre a testa alta le conseguenze e le luci provenienti dalla loro fede: «Sarebbe penoso che, nel vedere i cattolici in azione nella vita sociale, qualcuno concludesse che si muovono con timidezza e complesso di inferiorità. Non si può dimenticare che il nostro Maestro era — è! — “perfectus Homo” — perfetto Uomo»[60]. L’appello ad una prassi cristiana che giunga ad illuminare e a lasciare traccia nella sfera sociale è, in molti testi del Beato Josemaría, esplicito e preciso: «Il compito apostolico che Cristo ha affidato a tutti i suoi discepoli ha dunque un riflesso concreto nell’ambito sociale. È inammissibile pensare che per poter essere cristiani sia necessario voltare le spalle al mondo, guardare con pessimismo la natura umana. Tutto ciò che è onesto, fino al più piccolo avvenimento, racchiude in sé un significato umano e divino. Cristo, perfetto uomo, non è venuto a distruggere ciò che è proprio della condizione umana; ma assumendo la nostra natura — tranne il peccato — è venuto a nobilitarla, a condividere tutte le ansie dell’uomo, tranne la triste avventura del male. Il cristiano deve essere sempre pronto a santificare la società dal di dentro, collocandosi pienamente nel mondo, ma senza essere del mondo...»[61].

Il continuo rapportarsi alla perfezione divino-umana del Verbo, evitando accuratamente di confondere i piani, ma tenendoli ben collegati insieme in quanto parte della medesima economia di salvezza, riveste un grande interesse proprio ai fini della retta comprensione di quale debba essere una autentica «prassi cristiana». Una convinta e simultanea affermazione del perfectus Deus, perfectus homo evita sia l’errore del «materialismo» che quello dello «spiritualismo»[62]. Il divino non può essere assorbito dall’umano, fino a dissolvere la grazia nella natura, né l’umano deve essere penalizzato a spese del divino, fino a perdere la propria consistenza. Un lavoro che non sa diventare preghiera cesserà ben presto di essere un lavoro cristiano, una condotta umana che non sa nutrirsi dei sacramenti della grazia terminerà col nascondere Cristo, invece di farlo presente nel mondo. Dal canto suo la natura, per servire la grazia, deve restare natura, uscita buona dalle mani di Dio: la nuova creazione non distrugge la prima, ma la riconcilia col Padre, riconducendola al suo vero fine; Gesù non abbandona il suo corpo umano alla corruzione, ma lo rende presente alla destra del Padre.

Nella predicazione del Fondatore dell’Opus Dei questi contenuti sono rintracciabili in numerosi contesti e con un linguaggio per certi versi radicale: egli parlerà ad esempio del suo «anticlericalismo», o di un vero e proprio «materialismo cristiano» opposto tanto al clericalismo ed ai falsi spiritualismi, quanto ai materialismi chiusi all’azione dello Spirito, o anche di «divinizzazione buona» e «divinizzazione cattiva», per distinguere la bontà di una natura che sa aprirsi all’azione della grazia dalla situazione di una natura che, col pretesto di unirsi col divino, non rispetta o trascura le esigenze e i doveri che sono propri del suo stato[63]. Come altri autori hanno già messo in luce, l’omelia Amare il mondo appassionatamente rappresenta il luogo ove tale insegnamento viene esposto con sorprendente chiarezza e con maggiore profondità[64].

Le conseguenze della lex incarnationis ed il senso dell’analogia fra vita cristiana e condizione divino-umana del Verbo, trovano infine il loro naturale completamento quando si sposta l’attenzione dal rapporto «obiettivo» fra natura e grazia alla sua dimensione «soggettiva», cioè quando si riflette non più sulla duplice natura umana e divina, ma sull’unica persona del Verbo. Nella persona di Gesù è sempre l’Io divino che agisce, ed è proprio questa la condizione che rende quelle azioni azioni salvifiche. Pertanto le azioni del cristiano, se vogliono partecipare a pieno titolo di quella economia e così poter corredimere, devono essere compiute in unione con la persona di Cristo, quasi nel prolungamento della Sua umanità[65]. Questo aiuta a comprendere perché nella dottrina del Fondatore dell’Opus Dei è praticamente impossibile scindere quanto abbiamo qui detto sul mistero del perfectus Deus, perfectus homo — con tutte le sue conseguenze sulla santificazione della vita ordinaria e la riconduzione del mondo a Dio — dalla sua insistente esortazione all’identificazione con Cristo, mediante il suo richiamo alla condizione del cristiano come alter Christus, ipse Christus. Qui trova la sua collocazione dogmatica, come ulteriore determinazione, anche la dottrina sulla filiazione divina, la quale non manifesta altro che la modalità di questa identificazione, cioè come figli nel Figlio. Chi riconduce il mondo al Padre nell’unico Spirito è lo stesso Figlio, ed i cristiani possono farlo solo nella misura in cui sono «uno», per mezzo dello Spirito, con questo Figlio[66].

6. Saper essere umani per poter essere divini: la condizione divina ed umana di Cristo come modello dell’unità di vita del cristiano

Negli scritti del Fondatore dell’Opus Dei, così come nella sua predicazione orale, vi troviamo numerose esortazioni che incitano a tenere insieme la dimensione terrena-umana e quella celeste-divina, proprie di ogni esistenza cristiana. Queste due dimensioni vengono collegate tra loro con naturalezza e singolare ricchezza espressiva, a testimonianza non solo della loro possibile coesistenza, ma anche del loro reciproco dinamismo. Frasi come «essere contemplativi in mezzo al mondo», «fare divini i cammini della terra», «trasformare in endecasillabi la prosa ordinaria», «avere un cuore solo per amare Dio e gli uomini», «avere i piedi per terra e la testa in cielo», «essere umani per essere divini» — tutte sufficientemente note e così largamente usate da risparmiarci di offrirne qui i riferimenti puntuali — hanno in comune, ancora una volta, l’intuizione di poter prendere come esempio di vita e modello di comprensione la simultanea presenza della natura divina e della natura umana del Figlio di Dio fatto uomo. Siamo condotti a ritenerlo dal fatto che in molti brani nei quali esse ricorrono viene spesso presentato un riferimento al mistero dell’Incarnazione[67]. In una pagina della già citata omelia sulle virtù umane, ritroviamo alcune di queste idee esplicitamente legate ad una nuova menzione della formula pseudoatanasiana: «Se accettiamo la responsabilità di essere suoi figli, vedremo che Dio ci vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra. Il prezzo per vivere da cristiani non è la rinuncia a essere uomini o la rinuncia allo sforzo per acquistare quelle virtù che alcuni posseggono anche senza conoscere Cristo. Il prezzo di ogni cristiano è il Sangue redentore di Gesù nostro Signore che ci vuole — ripeto — molto umani e molto divini, costanti nell’impegno quotidiano di imitare Lui, perfectus Deus, perfectus homo»[68].

La convinzione che il cristiano debba saper coniugare l’essere umano e l’essere divino è senza dubbio una delle più radicate nel pensiero del Beato Josemaría. In modo più preciso, siamo di fronte alla certezza che per poter essere divini, occorre saper essere molto umani: «Egli, perfectus Deus, perfectus Homo, che possedeva tutta la felicità del Cielo, volle provare la fatica e la stanchezza, il pianto e il dolore..., perché comprendessimo che essere soprannaturali implica essere molto umani»[69]. E ancora: «Per giungere ad essere divini, per divinizzarci, è necessario imparare ad essere molto umani, vivendo al cospetto di Dio la nostra condizione di uomini comuni e santificando questa apparente piccolezza»[70]. Oltre a quello della santificazione della vita ordinaria, uno dei luoghi privilegiati ove si sviluppa tale parallelismo è quello del cuore amante: «Badate però che non dice: al posto del cuore vi darò la volontà di un puro spirito. No: ci dà un cuore di carne come quello di Cristo (...) Non mi stancherò di ripetere che dobbiamo essere molto umani; perché altrimenti non potremmo neppure essere divini»[71]. A questa linea ascendente (un cuore umano per poter amare in modo divino), ne corrisponde una discendente (un cuore pieno di Dio per poter amare in modo autenticamente umano), perché «non esiste cuore più umano di quello di una creatura che trabocca di senso soprannaturale»[72].

Ma cosa si vuole intendere con l’espressione «saper essere umani per poter essere divini»? Si tratta, a nostro avviso, di un modo pregnante e sintetico di riproporre una precisa visione del rapporto fra natura e grazia, ancora centrato sul mistero dell’Incarnazione, che ingloba molti degli aspetti già visti in precedenza. È necessario saper essere umani, perché l’«umanità» è il linguaggio con cui Dio ha parlato al mondo, il linguaggio del lavoro e della passibilità, della vita ordinaria e della fedeltà, dell’amore e della morte; solo chi ha esperienza di questo modo umano di vivere e di comunicare può comprendere ciò che Dio, in Cristo, ha voluto rivelarci. Ancora, occorre saper essere umani per essere divini, perché l’umanità è il luogo della nostra santificazione, la materia che possiamo offrire a Dio, la «condizione» per poterci unire a Cristo nel lavoro e nel riposo, nella gioia e nel pianto. In definitiva, non possiamo non essere umani, se vogliamo essere divini, perché «umano» è il nostro modo di riconoscere l’Amore ed umano è il nostro modo di amare. Il punto di interesse — ed il secondo passo che chiude la circolarità del dinamismo — è che proprio nel momento in cui comprendiamo che tutte queste realtà umane non sono insignificanti, perché Cristo stesso le ha vissute, e dunque ci sforziamo di viverle in unione con Lui, allora esse acquistano un significato e perfino uno status divino, capaci di corredimere, perché associate al mistero della redenzione. «Siamo dei comuni cristiani; lavoriamo in svariate professioni; tutta la nostra attività scorre lungo binari ordinari; tutto si svolge secondo un ritmo abituale, senza sorprese. I giorni sembrano tutti uguali tra di loro, perfino monotoni... Ebbene, questo schema di vita, in apparenza così consueto, ha un valore divino; è qualcosa che riguarda Dio stesso, perché Cristo vuole incarnarsi nelle nostre occupazioni e animare dal di dentro anche le azioni più umili»[73]. Il lavoro, le virtù, il cuore, l’amore di una persona che vive nella grazia della carità filiale, non sono più un lavoro, delle virtù, un cuore o un amore umani, bensì vengono trasfigurati, divinizzati, dando così origine ad un modo divino di lavorare, di amare, di vivere. Perché questa dinamica divino-umana si realizzi concretamente nella vita di ciascuno, l’identificazione del cristiano con Cristo, come abbiamo già segnalato nella sezione precedente, riveste un ruolo assolutamente centrale in quanto costituisce la condizione della sua stessa possibilità: «Quando lottiamo per essere veramente ipse Christus, lo stesso Cristo, allora nella nostra vita l’umano si intreccia col divino. Tutti i nostri sforzi — anche i più insignificanti — acquistano una portata eterna, perché sono uniti al sacrificio di Gesù sulla croce»[74].

Alla luce del mistero dell’Incarnazione, quella particolare coerenza con cui deve comportarsi il cristiano che vive nel mondo può denominarsi a ragione «unità di vita». Essa si manifesta sia nella consapevolezza delle implicazioni morali e teologali della sua condizione secolare, sia nell’armonia fra lavoro e preghiera, fra la dedicazione alle realtà familiari, professionali e sociali ed il dialogo continuo con Dio[75]. Vive in unità di vita il cristiano che sa essere contemplativo in mezzo al mondo, che sa fare divini i cammini della terra, che sa stare contemporaneamente sulla terra e nel Cielo, forse con le vertigini di un uomo che si riconosce coinvolto in un lavoro divino, ma che non resta per questo sospeso a mezz’aria: «Dobbiamo stare — ho coscienza di avervelo ricordato molte volte — in Cielo e sulla terra, sempre. Non fra il Cielo e la terra, perché siamo del mondo. Nel mondo e in Paradiso allo stesso tempo! Questa è la formula per esprimere come dobbiamo comporre la nostra vita, finché restiamo in hoc saeculo. In Cielo e sulla terra, divinizzati (endiosados), ma sapendo che siamo del mondo e che siamo terra, con la fragilità della terra...»[76].

Insegnamenti analoghi saranno riproposti nel contesto della «presenza di Dio», di quella forma cioè di orazione continua che sa servirsi delle cose più materiali e ordinarie della vita terrena per farne occasione di dialogo filiale con Dio-Padre, elevandole ad un piano divino. Anche in questa tematica la riflessione del Fondatore dell’Opus Dei si svolge sulla polarità terra — Cielo, vita umana — vita divina, spesso centrata attorno ad un riferimento cristologico[77]. L’esempio forse più illustrativo è costituito dalla sua abituale esortazione ad essere contemplativi nella vita ordinaria utilizzando come itinerario spirituale quello «dalla trinità della terra alla Trinità del Cielo», dalla santa Famiglia di Nazaret al mistero del Dio Uno e Trino: «Cerco di giungere alla Trinità del Cielo, attraverso un’altra trinità, quella della terra: Gesù, Maria e Giuseppe. Sembrano più accessibili. Gesù, che è perfectus Deus e perfectus Homo. Maria, che è una donna, la creatura più pura, la più grande: più di Lei, soltanto Dio. E Giuseppe, che viene immediatamente dopo Maria: puro, virile, prudente, integro. Oh, Dio mio! Che modelli! Solo a guardare, vien voglia di morire di dolore: perché, Signore, mi sono comportato così male... Non ho saputo essere all’altezza delle circostanze, non ho saputo divinizzarmi. E Tu mi davi i mezzi; e me li dai, continuerai a darmeli..., perché dobbiamo vivere sulla terra in modo umanamente divino»[78]. È interessante segnalare che in tale analogia il perno è rappresentato proprio da Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo, associato in forza della sua natura umana alla vita di Maria e di Giuseppe, e quindi congiunto, in forza della sua natura divina, al mistero della sua vita intra-trinitaria.

Se la carità filiale propria della condizione di figli di Dio, in definitiva la grazia creata, è la causa formale intrinseca che rende possibile tale unità di vita, perché conferisce una «forma filiale» ad ogni azione del cristiano, la coesistenza delle due nature, umana e divina, del Verbo ne è in qualche modo la causa formale esemplare: l’unità di vita è il riflesso della vita di Cristo nel cristiano[79]. Unità di vita, senso della filiazione divina, condizione del cristiano come alter Christus, ipse Christus e contemplazione-imitazione del perfectus Deus, perfectus homo, sono in realtà modi diversi di accedere al più profondo e medesimo nucleo dell’esistenza e della prassi cristiane, mirabilmente riassunto dalla nota formulazione paolina: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»[80]. Il mistero della Croce diviene perciò il luogo privilegiato di tale identificazione e, allo stesso tempo, della pienezza di tale rivelazione filiale. Manifestando una implicita coerenza dogmatica, la predicazione del Beato Josemaría ci offrirà numerose pagine anche su quest’ultima implicazione[81].

7. Osservazioni conclusive

Il cristocentrismo del Beato Josemaría Escrivá presenta una grande coerenza di fondo. Nel mutare le chiavi di lettura che si utilizzano — il senso della filiazione divina, l’unità di vita, l’identificazione con Cristo o l’esempio che Egli ci dà come vero Dio e vero uomo — si ritrovano inalterati i contenuti essenziali del suo messaggio spirituale: dalla vita di orazione alla santificazione del lavoro, dalla chiamata universale alla santità all’impegno di corredimere con Cristo. Più che parlare di diverse chiavi, sarebbe più corretto parlare di un’unica chiave di comprensione dell’esistenza cristiana nel mondo, Cristo stesso ed il mistero della sua Incarnazione, al quale possiamo accedere secondo varie linee di forza tutte parallele.

Riteniamo che la riflessione sulla perfetta umanità e la perfetta divinità del Verbo sia, di queste linee di forza, una delle più feconde, sia per l’alta frequenza dei richiami presenti nelle sue opere, sia per la capacità di coinvolgere i principali contesti della sua predicazione e del suo insegnamento. Essa agisce soprattutto a livello di causalità esemplare, compresa in senso forte — totus in suis, totus in nostris, secondo la formula leoniana — come intuizione, riferimento costante del ragionamento, analogia su cui poggiare e sviluppare le diverse argomentazioni. Allo stesso tempo — è opportuno sottolinearlo esplicitamente — ci troviamo di fronte ad un modello vivo, non ad un’idea o ad un semplice principio di lettura teorica. Le argomentazioni e gli insegnamenti proposti scaturiscono dalla contemplazione della vita del Cristo, dal desiderio di dialogare con Lui e di unirsi a Lui, abbracciando tutto l’orizzonte della Sua storia terrena, senza mai dimenticare la Sua condizione eterna. Ne sorgono fruttuosi utilizzi della lex incarnationis, intesa come legge di condiscendenza dal grande valore rivelatorio, come modello per l’unità di vita del cristiano, come paradigma per una visione del rapporto fra natura e grazia, come principio di riferimento per illuminare una prassi storica di impegno nel mondo che possa dirsi davvero «cristiana». Il riferimento al Verbo incarnato, perfectus Deus, perfectus homo, non diviene mai un espediente per «risolvere concettualmente» tali tematiche, ma piuttosto il modo più coerente per mostrarne il loro contenuto misterico, cioè la loro associabilità al mistero dell’Uomo-Dio. Nessuna dissoluzione dunque del mistero in una facile semplificazione dell’evento cristiano, ma il riconoscimento che tutto quanto appartiene a quell’evento — e alla storia che da esso ha avuto origine — debba essere necessariamente riportato nell’orizzonte del mistero del Cristo.

Non sarebbe difficile, ma rimandiamo il compito ad altra sede, mettere in relazione molte delle considerazioni sviluppate dal Beato Josemaría sui temi appena citati con il magistero del Concilio Vaticano II e con quello dei pontificati ad esso successivi, specie con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II. L’interesse del confronto nasce anche dal fatto che le opere del Fondatore dell’Opus Dei finora pubblicate raccolgono in buona parte materiale scritto anteriormente agli anni in cui ebbe origine sia quel magistero ecclesiale, sia la discussione teologica che ne accompagnò la preparazione.

[1] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, n. 2.

[2] Col 2, 3.

[3] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, n. 8.

[4] Congregazione per le Cause dei Santi, Decreto sulle virtù eroiche del Servo di Dio Josemaría Escrivá, 9-IV-1990. Citiamo dalla traduzione italiana apparsa in «Studi Cattolici» 34 (1990), n. 351, p. 304. Il testo originale latino può leggersi in «Romana» 6 (1990), pp. 22-25.

[5] Risulta significativa, a questo proposito, la testimonianza diretta di mons. Alvaro del Portillo: «La profonda percezione di tutta la ricchezza racchiusa nel mistero del Verbo incarnato fu il solido sostegno della spiritualità del fondatore. Egli comprese che, con l’Incarnazione del Verbo, tutte le realtà umane oneste venivano elevate all’ordine soprannaturale: lavorare, studiare, sorridere, piangere, stancarsi, riposare, stringere amicizia, ecc., erano state altrettante azioni divine nella vita di Gesù Cristo; potevano quindi compenetrarsi perfettamente con la vita interiore e con l’apostolato: in una parola, con la ricerca della santità» ( A. DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, a cura di C. Cavalleri, Ares, Milano 1992, p. 70).

[6] Nelle biografie del Fondatore dell’Opus Dei tale immagine viene comunemente indicata come «el Niño de don Josemaría» e viene ancor oggi custodita nel «Patronato de Santa Isabel» a Madrid. Cfr. A. VÁZQUEZ DE PRADA, El Fundador del Opus Dei, Rialp, Madrid 1983, p. 150; A. SASTRE, Tiempo de caminar, Rialp, Madrid 1989, p. 138. Più recentemente, A. VÁZQUEZ DE PRADA, El Fundador del Opus Dei, vol. I, Rialp, Madrid 1997, pp. 406-407. A questa immagine si riferiscono assai probabilmente le parole autobiografiche con cui il Fondatore dell’Opus Dei commenta il terzo mistero gaudioso del santo Rosario, in Santo Rosario, Ares, 5ª ed., Milano 1988.

[7] Nell’impossibilità di riassumere tutti i precedenti contributi di carattere teologico in qualche modo collegati con il cristocentrismo del Beato Josemaría, ne elenchiamo qui solo quelli che a nostro parere sono maggiormente attinenti al nostro argomento: A. ARANDA, Il cristiano “alter Christus, ipse Christus”, in «Santità e mondo», Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 101-147; J.L. CHABOT, Responsabilità di fronte al mondo e libertà, in ibid., pp. 197-217; P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo, contemplación. II: El mundo como tarea moral e V: La economía de la salvación y la secularidad cristiana, EUNSA, Pamplona 1986, pp. 37-58 e 123-218; Idem, “Omnia traham ad meipsum”. Il significato di Gv 12,32 nell’esperienza spirituale di mons. Escrivá de Balaguer, in «Annales theologici» 6 (1992), pp. 5-34; Idem, Vivir santamente la vida ordinaria, in «Josemaría Escrivá de Balaguer y la universidad» EUNSA, Pamplona 1993, pp. 197-258; J.L. ILLANES, Nella Chiesa e nel mondo: la secolarità dei membri dell’Opus Dei, in «L’Opus Dei nella Chiesa», Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 207-319; C. FABRO, Virtù umane e soprannaturali nelle omelie di mons. Escrivá, in «Studi Cattolici» 27 (1983), n. 265, pp. 181-185; F. OCÁRIZ, I. DE CELAYA, Vivir como hijos de Dios. Estudios sobre el Beato Josemaría Escrivá, EUNSA, Pamplona 1993.

[8] Cfr. Rm 16,25-26; Ef 1,3-23; Ef 3,9; Col 1,13-20.

[9] Cfr. Ef 3,3-4; Col 2,2-3.

[10] Cfr. Ef 1,4-5; Rm 8,29; Col 1,18.

[11] Cfr. Ef 2, 6-7; Col 3,1-4. Su questo tema si veda anche H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Commentario Teologico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1973, p. 63.

[12] Cfr. Gv 1,1-3; Eb 1,2-3; Ef 1,9-10; Col 1,16-17; 1Cor 8,6.

[13] Cfr. 1Cor 3,21-23; Col 1,24-27; Rm 8,28-32.

[14] «Deus est ex substantia Patris ante saecula genitus, et homo est ex substantia matris, in saeculo natus; perfectus Deus, perfectus homo ex anima rationali [rationabili] et humana carne subsistens» (Simbolo Quicumque, DH, 76). Seguiremo le citazioni dalla 37ª ed. dell’«Enchiridion Symbolorum», già DENZINGER-SCHÖNMETZER (DS) e ora DENZINGER-HÜNERMANN(DH), Dehoniane, Bologna 1995.

[15] Cfr. Solco, nn. 652 e 687; Forgia, n. 290; È Gesù che passa, nn. 13, 83, 89, 107, 117, 151; Amici di Dio, nn. 50, 56, 73, 75, 93, 176, 201, 241; Via Crucis, staz. VI, n. 1. J.L. CHABOT registra una frequenza di poco inferiore («non meno di quattordici volte», cfr. Responsabilità di fronte al mondo e libertà, o.c., p. 199). Per le opere del Beato Josemaría utilizzeremo le seguenti edizioni italiane: Cammino-Solco-Forgia, Ares, Milano 1992; È Gesù che passa, Ares, 5ª ed., Milano 1988; Amici di Dio, Ares, 5ª ed., Milano 1996; Colloqui con Monsignor Escrivá, Ares, 4ª ed., Milano 1982; Via Crucis, Ares Milano, 1989.

[16] Ai passi elencati nella nota precedente vanno aggiunti allora i seguenti: Solco, nn. 421 e 813; Forgia, n. 182; È Gesù che passa, nn. 13, 14, 61, 95, 96, 109, 120, 125, 164, 166, 168, 169, 180; Amici di Dio, nn. 74, 77, 81, 93, 121, 274, 275, 281, 299; Via Crucis, staz. VI, n. 3. Il numero crescerebbe ancora se si aggiungessero anche quei passi ove si parla in modo indiretto della natura divino-umana del Verbo come ragione per fondare un particolare insegnamento di vita cristiana: cfr. ad esempio l’omelia Amare il mondo appasionatamente, in Colloqui con mons. Escrivá, nn. 114-115.

[17] A. ARANDA trova un totale di 14 occorrenze per le espressioni Alter Christus, ipse Christus, e 16 occorrenze per una sola di esse, separatamente: cfr. A. ARANDA, Il cristiano “alter Christus, ipse Christus”, o. c., pp. 124-125.

[18] Per una storia del Simbolo Quicumque, oltre all’edizione critica curata da C.H. TURNER, The Athanasian Creed, in «The Journal of Theological Studies» 11 (1910), pp. 401-411, si può vedere J.N.D. KELLY, The Athanasian Creed, A. & C. Black, London 1964.

[19] «Illi inperfectam divinitatem in Dei Filio dicunt, isti inperfectam humanitatem in hominis Filio mentiuntur. Quod si utique inperfectus homo susceptus est, inperfectus Dei munus est, inperfecta nostra salus, quia non est totus homo salvatus» (DAMASO I, in DH 146).

[20] SISTO III, Formula unionis, in DH, 272.

[21] Per una visione d’insieme dello sviluppo del dogma cristologico in questo periodo, cfr. M. SERENTHÀ, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di Cristologia, LDC, Torino-Leumann 1986, pp. 220-252.

[22] «In integra ergo veri hominis perfectaque natura verus natus est Deus, totus in suis, totus in nostris — nostra autem dicimus quae in nobis ab initio Creator condidit et quae reparanda suscepit» (Tomus Leonis, in DH, 293).

[23] Cfr. DH 301, 302.

[24] Concilio III di Costantinopoli, Sess. 18ª, DH 556.

[25] Ibid., DH 558.

[26] «Per redimerci è venuto il Figlio di Dio stesso, non un essere celeste subordinato. Ma egli è veramente e senza diminuzione un uomo della nostra natura e della nostra stirpe; questo avevano sostenuto gli antiochieni contro il docetismo e contro certe tendenze dell’origenismo alessandrino. Il redentore non è un essere intermedio, mezzo Dio e mezzo uomo; bensì nel contempo il vero Dio è creatore e un uomo reale. Il fatto che questo uomo è Dio non significa limitazione alcuna della sua umanità, bensì invece la piena attuazione di essa» (P. SMULDERS, Sviluppo della cristologia nella storia dei dogmi e del magistero, in «Mysterium salutis», vol. 5, Queriniana, Brescia 1971, p. 586).

[27] Si tratta di implicazioni già esplicite nella citata lettera di papa Damaso I (cfr. DH 146) ed il cui terreno di sviluppo teologico fu specialmente opera dei Padri Cappadoci.

[28] Cfr. Gv 1,18; Eb 1,6; Rm 8,29; Rm 5,14.

[29] Cfr. Mt 11,29; Gv 13,15.34.

[30] Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, n. 22.

[31] Un autorevole riepilogo di questo nocciolo può leggersi ad esempio nel Codex iuris particularis Operis Dei, n. 3, § 1, in «L’Opus Dei nella Chiesa», o.c., Appendice II. A titolo puramente illustrativo, possono anche rileggersi alcune affermazioni presenti nelle opere del Fondatore, come ad es. in È Gesù che passa, nn. 45, 122; in Colloqui con mons. Escrivá, nn. 24, 26 e nell’omelia Amare il mondo appassionatamente, in ibid., n. 116.

[32] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Constitutio Apostolica “Ut sit”, 28-XI-1982, in AAS 75 (1983), p. 423.

[33] GIOVANNI PAOLO II, Omelia in occasione della beatificazione dei servi di Dio Josemaría Escrivá e Giuseppina Bakhita, 17-V-1992, in «Romana» 8 (1992), pp. 19-20 (in questa parte del testo, in lingua spagnola).

[34] È Gesù che passa, n. 13

[35] Ibid., n. 107.

[36] Ibid., n. 109.

[37] Solco, n. 831.

[38] Via Crucis, VI stazione, n. 1. Cfr. anche Solco, n. 687. Si veda anche l’uso del verbo mirar (guardalo..., guarda...) nel commento ai misteri dolorosi del Santo Rosario.

[39] Amici di Dio, n. 299. Si veda anche È Gesù che passa, n. 107.

[40] «Ma ciò che noi non possiamo fare, lo può fare il Signore. Gesù Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, non ci lascia un simbolo, ma la realtà: ci lascia se stesso» (È Gesù che passa, n. 83). La medesima idea sarà riproposta in altri luoghi: cfr. ibid., n. 151.

[41] Cfr. È Gesù che passa, n. 61; cfr. Forgia, n. 182.

[42] Amici di Dio, n. 201. Cfr. ibid., n. 176.

[43] Ibid., n. 50.

[44] Amici di Dio, n. 56.

[45] Amici di Dio, n. 121. Si vedano anche, ad esempio, i testi raccolti in Colloqui con mons. Escrivá, nn. 10 e 55; È Gesù che passa, nn. 20, 174, 183-184; Amici di Dio, n. 81. Anche il lavoro ordinario di S. Maria partecipa — e per un titolo del tutto speciale — alla medesima economia umano-divina instaurata con l’Incarnazione: «Contempliamo ora la sua santissima Madre, che è anche nostra Madre. Sul Calvario, accanto al patibolo, è in orazione. Non è un atteggiamento nuovo in Maria. Tale è stato sempre il suo comportamento, nel compimento dei suoi doveri, nelle occupazioni del focolare. Mentre si dedicava alle cose della terra, rimaneva attenta a Dio. Cristo, perfectus Deus, perfectus homo, volle che anche sua Madre, la creatura eccelsa, la piena di grazia, ci confermasse nello slancio di innalzare sempre lo sguardo all’amore divino» (Amici di Dio, n. 241).

[46] Cfr. C. FABRO, Virtù umane e soprannaturali nelle omelie di mons. Escrivá, o.c.: «Di qui il motto di mons. Escrivá che il cristiano deve essere “universale”: non solo nel senso che il suo ideale di perfezione deve abbracciare tutte le classi sociali, dall’operaio all’alto funzionario, ma perché questo gli offre la possibilità di praticare tutte le virtù in tutto il loro festoso corteo di virtù morali e teologali; si tratta che il cristiano deve essere “un uomo completo”. A questo mira, perché è il fondamento dell’intuizione teologico-mistica dell’Autore, il mistero centrale dell’Incarnazione» (p. 183).

[47] «Mentre parlo, voi dovete cercare, personalmente, di mantenere il dialogo con il Signore: chiedetegli aiuto per noi tutti, chiedetegli slancio per approfondire il mistero della sua Incarnazione, per essere anche noi, nella nostra carne, in mezzo agli uomini, viva testimonianza di Colui che è venuto a salvarci» (Amici di Dio, n. 77).

[48] Amici di Dio, n. 73.

[49] Solco, n. 652.

[50] Amici di Dio, n. 74-75. Così il commento di Cornelio Fabro a questo passo del Fondatore dell’Opus Dei: «Questa pagina vale un trattato di ascetica e mistica, ed esprime, a mio avviso, l’originalità evangelica dell’Opus Dei, la quale non punta su categorie astratte ma sull’impegno della persona, che è un tutto in tensione: così che, se anche fosse lontana ora dal rapporto con Dio, basta un soffio e un aiuto della grazia per risvegliarla a quella vocazione divina ch’è stata deposta in lei come immagine di Dio nella creazione, e trasfigurata nella Passione e Morte di Cristo con la grazia santificante» (C. FABRO, Virtù umane e soprannaturali nelle omelie di mons. Escrivá, o.c., p. 184).

[51] Amici di Dio, n. 93.

[52] Cfr. Ef 2,10; Ef 4,24; Rm 5,14. Rintracciabile in numerosi e ben noti insegnamenti conciliari della Gaudium et spes: «Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo stesso» (n. 22); «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (n. 41), una simile prospettiva coinvolge certamente il rapporto fra creazione e redenzione e, in ambito antropologico, essa include evidentemente la dimensione sanante della grazia cristiana.

[53] In riferimento agli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá sulla naturalezza della condizione del cristiano nel mondo, commenta José Luis Illanes: «Creazione e redenzione sono infatti delle realtà di portata universale che si sovrappongono a ogni livello e che si possono intendere solo vedendone i rapporti reciproci: la creazione — l’atto con cui Dio dà l’essere a ogni cosa dell’universo — non è solo il dono dell’esistenza ma anche l’avvio di una storia, la destinazione a una meta verso la quale Dio conduce tutte le cose create e che in Cristo ci è stata rivelata; la Redenzione, a sua volta, è l’azione per cui Cristo, in obbedienza al Padre, assume nella sua persona tutta la realtà creata per liberarla dal peccato, restituirla alla sua originaria armonia e renderla idonea, con l’invio dello Spirito, a raggiungere storicamente la meta alla quale Dio l’ha destinata. La naturalezza, in quanto coscienza del cristiano che sa di fare parte del mondo e di avere il diritto e il dovere di agire in questo ambito con tutta spontaneità — non solo come uomo, ma proprio come cristiano —, non è che il riflesso esistenziale di una verità dogmatica di fondo: che creazione e redenzione, santità e mondo, eternità e tempo non sono dimensioni eterogenee ma realtà intrinsecamente congiunte. (...) Vista e interpretata alla luce dell’Incarnazione (la verità di un Dio che si appropria della condizione umana), la naturalezza appare come qualcosa di schiettamente teologico; essa implica la normalità (l’appartenenza a una società e a un ambiente condividendo le loro caratteristiche) e anche la testimonianza cristiana (la capacità di attestare di fronte a questa società e a questo ambiente, standoci dentro, il messaggio evangelico con tutta la sua potenza vivificante)» ( P. RODRÍGUEZ, F. OCÁRIZ, J.L. ILLANES, L’Opus Dei nella Chiesa. Ecclesiologia, vocazione, secolarità, Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 252-253).

[54] Amici di Dio, n. 74.

[55] Ibid., n. 93. Si legga in proposito quanto riproposto da Solco, nn. 771, 772.

[56] Amici di Dio, n. 206.

[57] L’utilizzo del concetto di «corredenzione» è assai frequente in tutta la predicazione del Beato Josemaría ed il suo studio attento meriterebbe un lavoro ad esso espressamente dedicato. Si vedano, a titolo illustrativo, i seguenti passi: È Gesù che passa, nn. 2, 31, 121, 126; Amici di Dio, nn. 9, 49; Solco, nn. 255, 863, 945; Forgia, nn. 26, 55, 374, 674; Via Crucis, commento alla XI e XIV stazione.

[58] È Gesù che passa, n. 120.

[59] Ibid., n. 112.

[60] Solco, n. 421. Commentando questo aspetto dell’insegnamento del Fondatore dell’Opus Dei, Pedro Rodríguez afferma che la rinuncia ad una cristianizzazione delle strutture della società «sería, en realidad, renuncia a la dimensión pública y social de lo cristiano. Pero esta dimensión es consecuencia insoslayable de la lex incarnationis, que se expresa en la vocación cristiana y en la doctrina de la santificación del trabajo. Si prosperase aquella renuncia, el cristianismo ya no sería la religión de Cristo, el Verbo hecho hombre, hombre verdadero, sino una religión espiritualista, de meras interioridades, a la que podría juzgarse por el viejo argumento soteriológico de los Padre griegos, a propósito de la íntegra humanidad asumida por el Hijo de Dios: “lo que no ha sido asumido, no ha sido salvado”» (P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo, contemplación, o.c., p. 58).

[61] È Gesù che passa, n. 125. Questo atteggiamento del cristiano, che altro non è se non la sua consapevolezza di essere cittadino sia della città degli uomini che della città di Dio, viene presentato con singolare vivezza lungo i punti di Solco dedicati al capitolo «Cittadinanza» (nn. 290-322), i quali potrebbero a loro volta essere ben riassunti da queste parole del Beato Josemaría: «Llegará un día en que los cristianos que viven en el mundo se decidan a ser consecuentes con su fe, a demostrar con las obras que se puede ser a la vez plenamente cristiano y plenamente fiel a la tarea humana» (parole del 1948, citate da P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo, contemplación, o.c., p. 214).

[62] «Cristo aparece así como el exemplar supremo y la existencia cristiana como exemplata en el Señor. De este modo, imitar a Cristo — esencia de la perfección cristiana — equivale a buscar en la vida ordinaria la unidad, la síntesis redentora de lo más divino y de lo más terreno; pero sin confundir los planos, sin manipular el uno desde el otro, como haría un “clericalista” de inspiración monofisita; y sin separarlos y yuxtaponerlos, a lo que propende el nestorianismo “espiritual”» (P. RODRÍGUEZ, Vocación, trabajo, contemplación, o.c., p. 215)

[63] Si tratta di un insegnamento troppo diffuso per essere qui riferito in testi puntuali. A titolo di esempio, si vedano gli spunti presenti in È Gesù che passa, nn. 160, 184; Amici di Dio, nn. 94, 107; Cammino, n. 337.

[64] L’omelia è raccolta in Colloqui con mons. Escrivá, nn. 113-123. Per un commento teologico a questa omelia si veda P. RODRÍGUEZ, Vivir santamente la vida ordinaria, o.c.. Riflessioni analoghe, sviluppate a partire da altre omelie, sono offerte da J.L. CHABOT, Responsabilità di fronte al mondo e libertà, o.c., pp. 198-210.

[65] Cfr. È Gesù che passa, nn. 96, 103-105, 112.

[66] Sulla centralità della nozione di filiazione divina e dell’identificazione con Cristo nella predicazione del Fondatore dell’Opus Dei esistono numerosi studi. Per gli aspetti da noi toccati, si vedano F. OCÁRIZ, La filiación divina, realidad central en la vida y en la enseñanza de mons. Escrivá de Balaguer, in «Mons. J. Escrivá de Balaguer y el Opus Dei», EUNSA, 2ª ed., Pamplona 1985, pp. 173-214; A. ARANDA, Il cristiano “alter Christus, ipse Christus”, in «Santità e mondo», o.c.; C. BERMÚDEZ, Hijos de Dios Uno y Trino por la gracia: la filiación divina, fundamento y raíz de una espiritualidad, in «Annales theologici» 7 (1993), pp. 347-368; J. STÖHR, La vida del cristiano según el espíritu de filiación divina, in «Scripta theologica» 24 (1992), pp. 879-893; J. BURGGRAF, Il senso della filiazione divina, in «Santità e mondo», o.c., pp. 85-99.

[67] Sulla valenza cristocentrica dell’esortazione del Beato Josemaría «ser muy humanos y muy divinos», cfr. I. DE CELAYA, Unidad de vida y plenitud cristiana, in «Mons. Josemaría Escrivá y el Opus Dei», o.c., pp. 329-331.

[68] Amici di Dio, n. 75.

[69] Forgia, n. 290.

[70] È Gesù che passa, n. 172.

[71] Ibid., n. 166. Cfr. anche Via Crucis, staz. VI, n. 3. Si veda in proposito tutta l’omelia Il cuore di Gesù, pace dei cristiani, dedicata alla festa del Sacro Cuore, anche per l’aspetto «rivelativo» dell’amore umano di Cristo: «In questa devozione non si dà altra superficialità che quella dell’uomo che, non essendo interamente umano, non riesce a cogliere la realtà del Dio incarnato» (È Gesù che passa, n. 164).

[72] Solco, n. 801.

[73] È Gesù che passa, n. 174. Cfr. ibid., nn. 14, 20.

[74] Via Crucis, staz. X, n. 5.

[75] Cfr. ad esempio, È Gesù che passa, nn. 10, 126; Amici di Dio, n. 165; Colloqui con mons. Escrivá, n. 114. Sulla nozione di «unità di vita» nell’insegnamento del Fondatore dell’Opus Dei, si veda lo studio già citato I. de Celaya, Unidad de vida y plenitud cristiana, in «Mons. Josemaría Escrivá y el Opus Dei», o.c., pp. 321-340.

[76] Meditazione inedita Consumados en la unidad, 27-III-1975. Citiamo da S. Bernal, Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer. Appunti per un profilo del Fondatore dell’Opus Dei, Ares, Milano 1977, pp. 360-361. Questo stesso brano verrà riproposto da mons. A. del Portillo nell’omelia pronunciata nella Messa solenne in onore del Beato Josemaría, 18-V-1992, in «Romana» 8 (1992), p. 30.

[77] Cfr. È Gesù che passa, nn. 126, 13; Solco, n. 292.

[78] Meditazione Consumados en la unidad; citiamo ancora da S. Bernal, Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer..., o.c., p. 360. Sul tema si veda anche quanto detto da J. Burggraf, Il senso della filiazione divina, o.c., pp. 93-94.

[79] «Esta “unidad de vida”, según el Fundador del Opus Dei, es el reflejo del misterio de Cristo en el cristiano. Por eso, el pasaje del Símbolo Quicumque que presenta a Jesucristo perfectus Deus, perfectus homo era habitual en su palabra y en su pluma para explicar la “unidad de vida”. El misterio de Cristo — formalmente: dualidad de naturalezas en la unidad salvadora de la Persona — es, visto desde este ángulo, como el exemplar supremum de la imagen del cristiano que nos presenta la doctrina espiritual de Mons. Escrivá de Balaguer: imitar a Cristo en la vida ordinaria es buscar continuamente — oración y lucha ascetica — la unidad, la síntesis redentora de lo más divino y de lo más terreno» (P. Rodríguez, Vocación, trabajo, contemplación, o.c., pp. 119-120).

[80] Gal 2,20.

[81] «Tu hai fatto, Signore, che io capissi che avere la Croce è trovare la felicità, la gioia. E la ragione — lo vedo più chiaramente che mai — è questa: avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, per questo, essere figlio di Dio (...). La Croce: lì c’è Cristo, e tu devi perderti in Lui! Non ci saranno più dolori, più fatiche. Non devi dire: Signore, non ne posso più, sono un disgraziato... No! Non è vero! Sulla Croce sarai Cristo, e ti sentirai figlio di Dio» (Parole riportate in A. Aranda, Il cristiano “alter Christus, ipse Christus”, o.c., p. 103). Cfr. anche È Gesù che passa, n. 96.

Romana, n. 25, Luglio-Dicembre 1997, p. 360-381.

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