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Milano, Italia 1-X-2000

Articolo pubblicato sul quotidiano “Avvenire” in occasione della canonizzazione di Santa Giuseppina Bakhita

“I santi sono l’espressione suprema della bellezza”. Queste parole del Papa in un dialogo improvvisato con i giornalisti, su un aereo che lo portava dall’altra parte del mondo ad annunciare il Vangelo, mi sembrano davvero adatte a descrivere la figura di santa Giuseppina Bakhita.

Con la forza della loro testimonianza i santi riscattano le violenze contro l’uomo di cui gronda la storia. Ciascuno a suo modo, trasformano nel profondo ciò che gli altri subiscono o, tutt’al più, si limitano a deplorare. La loro attualità raggiunge il vertice oggi, in questo secolo di “progresso” che nessuna cifra definisce più crudamente quanto quella del numero dei martiri che popolano le sue vicende. La loro pazienza nell’ingiustizia possiede il vigore della carità più delicata, la docilità con cui soffrono è una luce che illumina la quotidianità, ostinandosi ad amare sempre e a tutti i costi, i santi creano civiltà nuove.

In questo panorama un posto di rilievo spetta a Giuseppina Bakhita, la suora canossiana morta a Schio nel 1947. La sua avventura è segnata da sofferenze indicibili. Rapita e fatta schiava ancora bambina, torturata, venduta e rivenduta più volte nei mercati di El Obeid e Kartoum (è recente la documentazione anche visiva della sussistenza di un fiorente commercio di schiavi in Sudan), riscattata dal console italiano nel 1882, e ospitata presso le canossiane di Schio, ricevette il battesimo a 21 anni e a 27 divenne canossiana. Un itinerario così aspro, che non basta una naturale mitezza a spiegare la compassione che provava per chi l’aveva fatta soffrire. Il suo perdono fu l’espressione di una carità che può venire solo da Dio. La bellezza — per riprendere l’immagine del Papa — non è pregio ornamentale di oggetti inerti.

L’intera conferenza episcopale sudanese sarà presente alla canonizzazione di Bakhita. I Vescovi raccolgono col coraggio della fede il messaggio che emana dalla sua figura: un messaggio forte di speranza e di perdono per i cattolici del Sudan, tuttora colpiti da una persecuzione crudele, che li priva dei diritti più elementari. Un messaggio per la coscienza di tutti noi, talvolta inclini a coprire con il silenzio l’ingiustizia che si abbatte su chi è lontano e non ha voce per farsi sentire.

In Bakhita vediamo anche la personificazione del paradosso cristiano della libertà. Quando ebbe finalmente la possibilità di orientare autonomamente la propria esistenza, si trovò un altro “Padrone” (così chiamava Dio) e gli donò, prima che il proprio lavoro, i battiti più riposti del cuore e tutti i pensieri. Così, mentre svolgeva sorridente le mansioni più umili, fu capace di prodigare a piene mani, con sobrietà e semplicità, tenerezza ed affetto. Bakhita servì il Signore per quasi cinquant’anni. Rinnovare il proprio sì a Dio ogni giorno è protendersi verso l’eternità. Ma guardare avanti non significava per lei dimenticare il passato, bensì redimerlo nella libertà dell’amore, trasfigurarlo.

Con queste semplici parole, alla fine dei suoi giorni, nascondeva dietro un sorriso l’odissea della sua vita: “Me ne vado adagio, adagio, a passo a passo, perché ho due grosse valigie da portare: in una ci sono i miei peccati, nell’altra molto più pesante i meriti infiniti di Gesù. Quando apparirò davanti al tribunale di Dio, aprirò le valigie e dirò: Eterno Padre, adesso giudicate. E a san Pietro: Chiudete la porta, perché resto”.

La Madre “moretta”, come la chiamavano gli abitanti di Schio, fu beatificata assieme al Beato Josemaría Escrivá, Fondatore dell’Opus Dei, il 17 maggio 1992. Per tutti noi fu un’esperienza indimenticabile. Da allora cominciai a sentirla molto vicina. Perciò anche per me oggi è un giorno di immensa gioia. Gli esempi eroici di Bakhita, dei martiri cinesi, di Katharine Drexel e di María Josefa del Corazón de Jesús mostrano agli uomini il volto glorioso di Cristo che trionfa nella carità. Ogni canonizzazione è la celebrazione della santità della Chiesa, del continuo prodigio della suprema bellezza che dalla Sposa di Cristo si irradia sul mondo. Ed è sempre una festa per tutta la Chiesa.

Romana, n. 31, Luglio-Dicembre 2000, p. 261-262.

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