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Amare la Bibbia appassionatamente

L’uso delle Scritture negli scritti di S.Josemaría

Scott Hahn

Il mondo conosce Josemaría Escrivá (1902-1975) come fondatore dell’Opus Dei e della Società Sacerdotale della Santa Croce. I fedeli della Chiesa Cattolica lo conoscono soprattutto per la sua santità e per il suo potere di intercessione, e perciò il 6 ottobre 2002 il Papa Giovanni Paolo II lo ha canonizzato, dichiarandolo così meritevole di pubblica venerazione e imitazione.

In un certo senso, potremo capire pienamente i meriti di san Josemaría, o le grazie che ha ricevuto, solo se comprendiamo l’uso che egli fece delle Scritture. Si può dire che egli abbia sviluppato, con l’Opus Dei, una spiritualità strettamente biblica, ed egli stesso si rendeva conto che l’istituzione da lui fondata poggiava fermamente sul fondamento delle Scritture. Nell’esposizione forse più efficace della sua spiritualità, l’omelia “Amare il mondo appassionatamente”, san Josemaría proclama più volte la Bibbia come la sua principale fonte di autorità: “Questa dottrina della Sacra Scrittura [...] si trova — come sapete — nel cuore stesso dello spirito dell’Opus Dei” (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 116); “Ho insegnato incessantemente con parole della Sacra Scrittura” (n. 114).

Direi anche che la Bibbia, per san Josemaría, è sempre stata il principale linguaggio di riferimento. Aveva familiarità con gli insegnamenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, padroneggiava la teologia scolastica e si teneva al corrente delle tendenze della teologia contemporanea; ma è alle Scritture che ritornava continuamente nella sua predicazione e nei suoi scritti, e ad essa indirizzava i suoi figli spirituali dell’Opus Dei.

San Josemaría aveva una chiara coscienza dell’unità tra i due testamenti, l’Antico e il Nuovo. Per lui, le profezie dell’Antico Testamento non hanno perduto importanza per il fatto di aver trovato il loro compimento nel Nuovo. Al contrario, risplendono di una luce nuova e più brillante. Perciò non aveva dubbi nel prendere gli insegnamenti dei profeti e dei patriarchi di Israele come modelli spirituali per i cristiani di oggi.

“Quando ricevi il Signore nell’Eucaristia, siigli grato con tutte le fibre dell’anima per la sua bontà di stare con te.

Non ti sei soffermato a considerare che sono dovuti passare secoli e secoli, prima che venisse il Messia? I patriarchi e i profeti a implorare, con tutto il popolo di Israele: la terra è assetata, Signore, vieni!

Magari fosse così la tua attesa d’amore” (Forgia, n. 991).

Citava spesso sia testi dell’Antico che del Nuovo Testamento, ma si riferiva specialmente ai Vangeli, ai quali la Tradizione ha assegnato un posto preminente (cfr. Dei Verbum, 18). Probabilmente le frasi più ripetute nella sua predicazione sono quelle che richiamano il testo sacro: “come ci dice il Vangelo...”, “la Sacra Scrittura ci dice...”, “raccontano i Vangeli...”, “ricorda la scena del Vangelo...”.

Monsignor Álvaro del Portillo, il figlio più fedele di san Josemaría, suo confessore e successore alla guida dell’Opus Dei, afferma: “Io stesso rimanevo ammirato dalla facilità con cui egli era in grado di citare a memoria con esattezza frasi della Sacra Scrittura. Anche durante le conversazioni familiari spesso traeva spunto dai testi sacri per stimolare i presenti a un’orazione più profonda”[1].

Le Scritture come punto di riferimento

La fondazione dell’Opus Dei ebbe luogo il 2 ottobre 1928, quando san Josemaría “vide” l’Opera di Dio (ancora senza nome) come un cammino di santificazione nel lavoro professionale e nel compimento dei doveri ordinari del cristiano.

A che cosa assomigliava l’Opus Dei in quel momento? Non conosciamo i dettagli esatti, ma possiamo intravedere l’Opera incarnata negli scritti successivi del fondatore. In essi parla delle Scritture come del riferimento sicuro per il suo stile di vita, che era “vecchio come il Vangelo, ma come il Vangelo nuovo” (Amare la Chiesa, n. 26). All’inizio della sua opera fondamentale, Cammino, scrisse: “Fossero tali il tuo contegno e la tua conversazione che tutti, nel vederti o nel sentirti parlare, potessero dire: ecco uno che legge la vita di Gesù Cristo” (Cammino, n. 2). Invece, quando parlava di quelli che non vivevano la carità cristiana, san Josemaría diceva che “sembra che non abbiano letto il Vangelo” (Solco, n. 26).

La sua lettura del Vangelo, e delle Scritture in genere, era illuminata dal suo particolare carisma fondazionale, che lo portava a sviluppare idee che erano passate quasi sotto silenzio nella teologia precedente. È notevole la nuova enfasi che egli mise su certi concetti delle Scritture: la chiamata universale alla santità, per esempio, e la santificazione della vita ordinaria. Si sentiva portato a contemplare continuamente i Vangeli e si riferiva spesso ai trent’anni di vita nascosta di Gesù. In quel relativo silenzio trovava un modello per la “vita nascosta” della gente comune che vive in mezzo al mondo.

E così lo studio delle Scritture fu essenziale per la sua spiritualità personale e per il programma che sviluppò per i membri dell’Opus Dei. Affermava che le Scritture non solo permettevano ai lettori di conoscere la vita di Gesù, ma li spingevano anche a imitarla. “Dobbiamo riprodurre la vita di Cristo nella nostra vita. Ma ciò non è possibile se non attraverso la conoscenza di Cristo che si acquista leggendo e rileggendo la Sacra Scrittura e meditandola assiduamente nell’orazione” (È Gesù che passa, n. 14).

Il metodo

San Josemaría praticò e predicò un particolare cammino di accostamento alle Scritture nell’orazione. Si tratta più di un cammino intensivo che esaustivo. Monsignor del Portillo sottolineava che il fondatore dell’Opus Dei “diede costanti prove di uno straordinario ossequio verso la Sacra Scrittura che, con la Tradizione della Chiesa, fu la fonte cui attinse ininterrottamente per l’orazione personale e per la predicazione. Ogni giorno leggeva qualche pagina — un capitolo — della Scrittura, in particolare del Nuovo Testamento”[2].

La pratica dello studio quotidiano del Nuovo Testamento — più o meno cinque minuti — fu prescritta da san Josemaría a tutti quelli che egli dirigeva. Li sollecitava a entrare con l’immaginazione, quando leggevano il Vangelo, nelle scene, assumendo il ruolo di uno dei personaggi. “I minuti giornalieri di lettura del Nuovo Testamento che ti ho consigliato — inserendoti nel contenuto di ogni scena e partecipandovi come uno dei protagonisti —, sono perché tu incarni, perché tu «compia», il Vangelo nella tua vita... e per «farlo compiere»” (Solco, n. 672; si veda anche Amici di Dio, n. 222).

In un altro passo dei suoi insegnamenti sviluppò ancora di più questa idea, sottolineando di nuovo l’uso dell’immaginazione fino a una esperienza quasi sensoriale:

“Mettetevi con frequenza tra i personaggi del Nuovo Testamento. Assaporate le scene commoventi in cui il Maestro opera con gesti divini e umani, o riferisce con espressioni divine e umane la storia sublime del perdono, il suo Amore ininterrotto per i suoi figli. Questa replica del Cielo si rinnova anche ora, nella perenne attualità del Vangelo: si avverte, si nota, si tocca con le mani la protezione divina” (Amici di Dio, n. 216).

Il potere di trasformarsi

Anche se la sua lettura del Vangelo occupava solo cinque minuti al giorno, non possiamo ridurre la meditazione delle Scritture da parte di san Josemaría a quei brevi momenti. Pregava con le Scritture anche nella sua Messa quotidiana e durante la recita dell’Ufficio Divino. Spesso usava i commenti biblici dei Padri della Chiesa per la sua lettura spirituale. Spesso ribadiva che la meditazione personale delle Scritture deve alimentare l’orazione mentale del cristiano, oltre alle preghiere spontanee che riempivano la sua giornata. “Perché è necessario conoscerla bene, averla ben presente nella mente e nel cuore in modo che, in ogni momento, senza più bisogno di libri, chiudendo gli occhi, possiamo contemplarla come in un film e, quando dobbiamo decidere come comportarci, possiamo richiamare alla mente le parole e i gesti del Signore” (È Gesù che passa, n. 107).

Attraverso la lettura delle Scritture giungerà la grazia della trasformazione, della conversione. Leggere la Bibbia non è un atto passivo, ma implica una ricerca attiva e il conseguente incontro. “Se ci comportiamo così, se non frapponiamo ostacoli, le parole di Cristo penetreranno nel fondo della nostra anima e ci trasformeranno. Perché la parola di Dio è viva, efficace, è più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4, 12)” (È Gesù che passa, n. 107).

Filiazione divina e Parola rivelata

Nel cuore dell’Opus Dei c’è un’idea molto semplice. Diceva san Josemaría: “La filiazione divina è il fondamento dello spirito dell’Opus Dei. Tutti gli uomini sono figli di Dio” (È Gesù che passa, n. 64). San Josemaría sperimentò personalmente questa filiazione in una forma mistica, un giorno del 1931, mentre si trovava su un tram a Madrid. In quel momento percepì “la portata di questa sorprendente realtà” — l’essere figlio di Dio —, e scese dal tram balbettando “Abba, Pater! Abba, Pater!” (cfr. Gal 4, 6)[3].

Quella esperienza ebbe poi una profonda influenza sul suo pensiero, sul suo modo di predicare, di scrivere, di pregare. Tutta la dottrina cristiana, era convinto, può e deve essere considerata alla luce di questa verità. Peraltro, troviamo uno straordinario esempio dell’attenzione paterna di Dio quando consideriamo che la storia della Salvezza è la storia del piano paterno di Dio per conferire la figliolanza divina a tutti gli uomini.

Molti Padri della Chiesa, specialmente san Giovanni Crisostomo, parlarono della Rivelazione in termini di “adattamento” e “condiscendenza”, che il Crisostomo interpretava come azioni paterne. Per rivelarsi, Dio si adatta all’uomo, come un padre umano che si ferma a contemplare suo figlio. Come un padre umano che si mette talvolta a parlare “come suo figlio”, spesso Dio accondiscende a comunicare — vale a dire, parla — come parlerebbe una persona umana, col suo stesso linguaggio, come se avesse le sue stesse passioni e le sue stesse debolezze. Per questo leggiamo nelle Scritture che Dio “si pente” delle sue decisioni, quando sicuramente Dio non ha mai la necessità di pentirsi.

Ad ogni modo, i genitori di questa terra non solo si mettono al livello dei loro figli, ma cercano anche di elevare i loro figli perché si comportino da adulti. In modo simile, anche Dio, a volte, ci si comunica per elevazione, vale a dire eleva i figli a un livello divino, dotando le semplici parole umane del suo potere divino (come nel caso dei profeti).

San Josemaría credeva alle Scritture come avrebbe creduto alle parole di suo padre. La sua fiducia filiale è un esempio della fede costante dei cristiani per i quali sono “sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore [...]. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere” (Dei Verbum, n. 11).

Monsignor del Portillo insisteva sul fatto che san Josemaría dimostrava la sua fede nell’origine divina delle Scritture non solo nella sua predicazione e nei suoi scritti, ma anche nella sua conversazione abituale. “Come prova di venerazione verso la Scrittura Santa, con frequenza introduceva le citazioni con le parole: “Dice lo Spirito Santo...”. Non era un modo di dire, ma un sentito atto di fede che aiutava a soppesare il valore eterno e tutto lo spessore di verità di espressioni alle quali si può anche finire per abituarsi”[4].

Senso letterale e senso spirituale

San Josemaría attribuiva grande importanza all’immaginazione per poter cogliere tutti i dettagli, anche i più piccoli, del racconto evangelico. Per lui, nessuna parola era superflua, nessun dettaglio era insignificante: lo Spirito Santo non spreca parole.

Ma questa attenzione per il significato letterale e storico non lo accecava al momento di cogliere il senso spirituale delle Scritture. La Chiesa, tradizionalmente, ha interpretato i testi biblici allo stesso tempo come letteralmente veri e come segni spirituali di Cristo, del cielo o delle verità morali (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 115-117). Effettivamente, anche se san Josemaría non ha mai adoperato espressamente i termini “esegesi letterale” o “esegesi spirituale”, è stato uno dei grandi esegeti del suo tempo. Sono d’accordo con il Cardinal Parente quando osserva che i commenti di san Josemaría sulla Sacra Scrittura riflettono “una profondità e una immediatezza spesso superiori perfino alle opere dei santi Padri”[5].

Di tutto ciò si può fare un gran numero di esempi. Consideriamo questo insegnamento di Cammino: “Come i buoni figli di Noè, copri col manto della carità le miserie che vedi in tuo padre, il Sacerdote” (n. 75). Dalla scena della vergognosa ubriachezza di Noè (Gn 9, 20-23) san Josemaría ricava un chiarissimo insegnamento morale per la vita contemporanea nella Chiesa. Questa è esegesi spirituale, concisa e incisiva. Con una sola frase apprendiamo dai nostri antenati dell’Antico Testamento perché non dobbiamo mai propagare uno scandalo contro il sacerdote, che dal punto di vista della fede chiamiamo “padre”.

Osserviamo un’altra stupenda esegesi spirituale quando paragona i peccati dei cristiani con l’azione di Esaù, che scambia i suoi diritti di primogenitura con un piatto di lenticchie (Gn 25, 29-34). Per un momento di piacere molti cristiani sono disposti a inimicarsi Dio, rinunciando con ciò alla vita eterna (san Josemaría utilizza l’immagine di Esaù in diversi scritti: si veda, ad esempio, Amici di Dio, n. 13).

San Josemaría, insomma, non ebbe dubbi nell’attualizzare il testo biblico applicandolo alla vita contemporanea, ponendosi così sulla scia dei grandi esegeti, da sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo fino a sant’Antonio di Padova e Jacques Bossuet. Gli esperti definiscono questa interpretazione estensiva come un “adattamento del significato spirituale”.

Tuttavia nessuna di queste interpretazioni mette in dubbio la verità storico-letteraria del testo biblico, che san Josemaría rispettava. Secondo san Tommaso d’Aquino, “tutti i sensi della Sacra Scrittura si basano su quello letterale”[6].

Così, per gettare solide fondamenta, san Josemaría compì studi dettagliati su ciò che la scienza biblica aveva da dire sulla millenaria cultura dell’antico Israele e sull’Impero Romano ai tempi di Gesù. La sua predicazione sulla Passione di Cristo, per esempio, mostra la sua familiarità con le scoperte storiche relative al metodo di crocifissione usato dai romani. Le sue omelie su san Giuseppe mostrano un profondo interesse non solo per la filologia, ma anche per le antiche tradizioni degli ebrei nella vita familiare e nel lavoro.

Talvolta san Josemaría ricevette illuminazioni divine straordinarie che gli rivelavano un particolare significato del testo biblico. Raccontava, per esempio, che durante la festa della Trasfigurazione del 1931, nel celebrare la Messa, “mentre alzavo l’Ostia ci fu un’altra voce senza suono di parole. Una voce, come sempre, perfetta e chiara: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum! [“Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32)]. E il concetto preciso: non è nel senso in cui lo dice la Scrittura; te lo dico nel senso che mi mettiate in cima a tutte le attività umane; che, in tutti i luoghi del mondo, ci siano dei cristiani con una dedizione personale e liberrima, che siano altri Cristi”[7].

Questa illuminazione repentina ha avuto una profonda influenza nel successivo sviluppo dell’Opus Dei. Sicuramente è venuta da Dio; ma oggi, come sempre, la grazia si aggiunge alla natura e la perfeziona. Ciò che san Josemaría descrive è chiaramente un esempio di contemplazione infusa, fermamente basata, questo sì, su una costante e disciplinata vita di meditazione delle Scritture.

Potremmo citare vari episodi che illustrano perfettamente un principio riassunto dalla Pontificia Commissione Biblica in un suo documento, pubblicato nel 1993, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa: “I cristiani entrano in contatto con le Scritture soprattutto attraverso la liturgia [...]. In linea di massima, la liturgia, e specialmente la liturgia sacramentale, di cui la celebrazione eucaristica è il vertice, realizza l’attualizzazione perfetta dei testi biblici [...]. Cristo è allora «presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, n. 7). Il testo scritto diventa così nuovamente parola viva”[8].

Testo e contesto

San Josemaría ha studiato le Scritture molto seriamente. Sapeva che la Bibbia è un testo che non si capisce e non si interpreta in modo evidente e automatico. A parte il fatto che a volte Dio gli concedeva luci soprannaturali, era cosciente che questi fenomeni erano qualcosa di straordinario e non il modo usuale per arrivare alla comprensione del significato di un testo.

Se non si poteva affidare alle proprie luci, e non poteva dipendere esclusivamente dai fenomeni mistici, dove si rivolgeva nei suoi studi ordinari della Bibbia? Si volgeva verso la Chiesa, verso la sua tradizione viva, della quale gli antichi Padri sono “i testimoni sempre attuali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 688). Una rapida occhiata ai suoi volumi di omelie ci rivela un’intima familiarità con le opere di san Girolamo, san Basilio, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino.

San Josemaría verificò tutte le sue riflessioni intorno alle Scritture — comprese quelle che ricevette per ispirazione divina — con le testimonianze dei Padri e del Magistero pontificio e conciliare. Conosceva bene i pericoli che si nascondono nella continua dipendenza dall’interpretazione personale delle Scritture, anche perché su questo trovava un chiaro ammonimento... nelle stesse pagine della Sacra Scrittura! La prima domenica di Quaresima del 1952 riflette sulla tattica subdola con cui il demonio tenta Gesù nel deserto:

“La tattica usata da Satana con Gesù nostro Signore merita d’essere considerata: si serve dei passi dei libri sacri, ma ne sfigura il senso in modo blasfemo. Gesù non si lascia ingannare: il Verbo fatto carne conosce bene la Parola divina, scritta per la salvezza degli uomini e non per loro confusione e condanna. Ne possiamo dedurre che chi è unito a Gesù con l’amore non si lascerà mai ingannare da fraudolente interpretazioni della Scrittura, perché sa che è tipica opera del diavolo cercare di confondere la coscienza cristiana adoperando dolosamente le parole della Sapienza eterna per trasformare la luce in tenebre” (È Gesù che passa, n. 63).

Dall’attuale babele delle interpretazioni bibliche conflittuali possiamo dedurre che il metodo di Satana non è cambiato molto nel corso dei secoli. In mezzo a tanta confusione, san Josemaría ci appare come un modello di fede intelligente e sottomessa. Mentre tanti esegeti cristiani passavano per il XX secolo con i poveri abiti dell’agnosticismo e dell’irrilevanza, san Josemaría si arricchiva con una completa fiducia nella Bibbia, e nella Chiesa come sua interprete infallibile.

Possiamo vedere, toccare e studiare la sua eredità nella Bibbia di Navarra, un progetto da lui incoraggiato. Cominciata all’inizio degli anni ’70 all’Università di Navarra, in Spagna, la Bibbia di Navarra offre una fedele e bella traduzione delle Scritture, alla quale si aggiungono numerose citazioni dei Concilii, dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Questa grande impresa ha permesso a chi non è né teologo né ecclesiastico di godere e di arricchirsi della Bibbia in un modo simile a quello di san Josemaría.

Il luogo della Bibbia

Gli incontri più profondi di san Josemaría con la Sacra Scrittura non hanno avuto luogo nel suo studio o nella sua predicazione orale, ma nella liturgia. Con i Padri e con il Concilio Vaticano II, egli considerava la Messa come l’incontro per eccellenza con Gesù Cristo “nel pane e nella parola” (si veda, ad esempio, È Gesù che passa, nn. 116, 118, 122; Forgia, n. 437). La Santa Messa, all’interno della quale troviamo la Liturgia della Parola, è, per san Josemaría, “il centro e la radice” della vita interiore.

Le sue omelie — piene di citazioni e di allusioni a entrambi i Testamenti — sono sempre focalizzate sul tempo liturgico, e specialmente sulle letture del giorno. In realtà, vedeva la Messa come l’habitat soprannaturale delle sue omelie: “Avete or ora ascoltato la lettura solenne dei due brani della Sacra Scrittura corrispondenti alla Messa della domenica XXI dopo Pentecoste. Il fatto di aver ascoltato la parola di Dio vi colloca già nell’àmbito in cui vogliono situarsi le parole che ora vi rivolgo: parole di sacerdote, pronunciate di fronte a una grande famiglia di figli di Dio nella sua Santa Chiesa. Parole, quindi, che vogliono essere soprannaturali, e proclamare la grandezza di Dio e le sue misericordie verso gli uomini: parole che vi preparino a questa impressionante Eucaristia che oggi celebriamo” (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 113).

Come i Padri della Chiesa e i Padri del Concilio Vaticano II, san Josemaría vedeva nella Messa un momento di particolare grazia per ricevere la Parola di Dio. Le ispirazioni ricevute nella Liturgia della Parola dovevano essere profonde e durevoli: “Ascoltiamo adesso la parola della Scrittura, l’epistola e il Vangelo, luci del Paraclito che parla con voci umane affinché la nostra intelligenza comprenda e contempli, affinché la volontà si irrobustisca e l’azione si compia” (È Gesù che passa, n. 89).

L’interprete virtuoso

Canonizzando Josemaría Escrivá, la Chiesa lo ha presentato come meritevole di imitazione. Non c’è dubbio che tale imitazione debba includere uno studio dettagliato delle Scritture, una lettura meditata delle Scritture e una disciplinata preghiera con le Scritture. Il suo orario personale di ogni giorno lo testimonia. Le “norme di pietà” che viveva — e che stabilì per i suoi figli nell’Opus Dei — sono sature di risvolti biblici.

Ciò nonostante, ciò che era chiaramente cruciale per san Josemaría è l’incontro con Gesù Cristo, l’essere “ipse Christus”, lo stesso Cristo. Questa meta dev’essere raggiunta utilizzando alcuni mezzi, tra i quali la lettura meditata dei Vangeli. Quindi, non è possibile capire o vivere la vocazione all’Opus Dei senza almeno aspirare a un alto grado di conoscenza della Bibbia.

Pur avendo trascorso la maggior parte della sua vita prima del Concilio Vaticano II, san Josemaría ne anticipò molti insegnamenti, come il suo calore nel proclamare la chiamata universale alla santità e all’apostolato, che era stato il carattere distintivo dell’Opus Dei sin dal 1928. Credo tuttavia che san Josemaría fu soprattutto in sintonia con la dottrina sulla Sacra Scrittura — la sua verità, autorità, ispirazione e infallibilità —, che avrebbe trovato una più vigorosa espressione nella Costituzione Dogmatica sulla Rivelazione Divina, Dei Verbum.

Come molti uomini tendono a vedere nelle loro mogli le migliori qualità descritte nel libro dei Proverbi, 31 (“la donna virtuosa”), a me piace vedere in san Josemaría, mio padre spirituale, il compimento delle parole della Dei Verbum, 25. In esse, i Padri Conciliari offrono una visione del sacerdote ideale. Come conclusione, vorrei azzardarmi ad applicare quelle parole a san Josemaría e a molti dei sacerdoti che lo hanno seguito nell’Opus Dei e nella Società Sacerdotale della Santa Croce.

Si immergano nelle Scritture “con un’assidua lettura e con uno studio accurato”.

Stiano attenti “affinché qualcuno di loro non diventi «vano predicatore della parola di Dio all’esterno, lui che non l’ascolta di dentro» (sant’Agostino, Serm. 179, I)”.

Partecipi “ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella Sacra Liturgia”.

Apprendano “la sublime scienza di Gesù Cristo (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine scritture”.

“Si accostino volentieri al sacro testo, sia per mezzo della Sacra Liturgia ricca di parole divine, sia mediante la lettura spirituale, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi”.

“Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché «gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo le parole divine» (sant’Ambrogio, De officiis ministerium I, 20, 88)”.

[1] ÁLVARO DEL PORTILLO, Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, a cura di Cesare Cavalleri, Ares, Milano 1992, pag. 142.

[2] Ibid, pag. 140.

[3] ANDRÉS VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Vol. I, Signore, fa’ che io veda!, Leonardo, Milano 1998, pag. 410-411.

[4] ÁLVARO DEL PORTILLO, op. cit., pag. 142.

[5] Ibid.

[6] SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th. I, 1, 10 ad 1; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 116.

[7] Lettera, 27-XII-1947, citata in VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei, Vol. I, pag. 401.

[8] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, IV, C. 1.

Romana, n. 35, Luglio-Dicembre 2002, p. 380-389.

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