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Etica professionale e santificazione del lavoro

Carlos Llano Cifuentes

Istituto Panamericano per l’Alta Direzione dell’Impresa (IPADE)

Università Panamericana (Città del Messico)

In questo studio analizzeremo in che modo il messaggio della santificazione del lavoro, diffuso tra persone di ogni condizione sociale da San Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, feconda e arricchisce le questioni più importanti dell’etica professionale, così come si propongono alla mentalità contemporanea[1]. San Josemaría ha riassunto in poche parole tale messaggio: “Chiunque voglia vivere con perfezione la propria fede e praticare l’apostolato secondo lo spirito dell’Opus Dei deve santificare sé stesso con la professione, santificare la professione, e santificare gli altri con la professione”[2].

1. Santificare il lavoro professionale

Il lavoro costituisce la materia che, in prima e permanente istanza, si offre al cristiano comune e normale perché lo santifichi. Il fondatore dell’Opus Dei si riferisce al lavoro ordinario, ma è solito definire questo lavoro, come abbiamo visto, con l’aggettivo professionale[3].

È chiaro che i cosiddetti doveri ordinari del cristiano non si riducono a ciò che oggi, dal punto di vista sociologico, si può chiamare lavoro professionale. Il lavoro è un elemento essenziale per costituire una società civile, però quest’ultima “non si riduce alla dimensione professionale, ma la trascende, senza poter prescindere dal lavoro in senso stretto [...]. Possiamo pensare alla necessità di lavorare di una madre di famiglia che si fa carico del servizio domestico e dell’educazione dei figli a tempo pieno”[4].

Eppure, “tutti questi doveri, in ogni caso, implicano l’esistenza o la ricerca di un lavoro professionale, con la necessità di operare intorno ad esso per esercitarlo pienamente”[5]. Quanto detto ci aiuta a capire che, anche se “la diminuzione del numero delle ore di lavoro complessive proseguirà nel futuro, come ha dimostrato la storia dalle origini della rivoluzione industriale fino a oggi, il messaggio dell’Opus Dei continuerà a essere valido in maniera permanente e attuale”[6]. L’idea di lavoro di San Josemaría “ci pone di fronte a un concetto antropologico primario, con un significato filosofico permanente”[7].

L’aggettivo professionale ha acquistato man mano importanza durante il secolo scorso. Nell’Enciclica Mater et Magistra (parte II), di Giovanni XXIII, è descritta la professionalizzazione delle attività umane come un fenomeno secondo il quale si confida più negli incassi e nei diritti ottenuti dal lavoro che in quelli prodotti dal capitale. Si può dire che se la società del XIX secolo era incentrata nel proprietario e nel proletario, nel XX secolo si è incentrata nel professionista. Su questa linea, Donati osserva che “il lavoro che emerge nello spazio sociale attuale è fatto di una realtà virtuale, o meglio, per usare un’espressione di G. Hernes, esso consiste in una ‘virtualità reale’. Si tratta di considerare il lavoro come una possibilità reale di relazioni inedite nell’ambito della produzione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi, nei quali il carattere relazionale lo costituisce in un’attività generativa (è una realtà genetica e non solo funzionale)”[8]. Questo carattere generatore di relazioni personali nel lavoro facilita la santificazione di attività che in tal modo diventano più propriamente umane: strutturalmente santificabili sono unicamente le persone e le loro relazioni.

Il lavoro professionale può essere inteso, in modo generico, come quell’attività di carattere pubblico, o almeno esteriormente conosciuta, che implica un apporto positivo alla società e che generalmente costituisce la fonte principale di guadagno in chi la pratica. Il nucleo che definisce l’attività chiamata professionale, qui riassunto, può essere completato sinteticamente mediante i seguenti caratteri aggiuntivi che interessano specialmente ai fini della nostra analisi: dev’essere un lavoro soggetto ad alcuni principi scientifici, regole o discipline operative, in base ai quali deve esercitarsi (e che potremmo chiamare codice scientifico-tecnico); soggetto anche a regole universalmente accettate che orientino la moralità del suo esercizio (quello che denominiamo codice etico); e associato in corporazioni, collegi o istituzioni che avallano l’appartenenza alla professione e si preoccupano del compimento delle regole scientifiche, tecniche e morali[9].

Da parte sua, Nicolás Grimaldi si preoccupa, ben a ragione, di non confondere lavoro con impiego, perché “molti lavori si intraprendono a prescindere da un impiego, nello stesso modo in cui esistono molti impieghi ai quali non corrisponde nessun lavoro reale..., i quali esigono sì una presenza, ma non comportano un cambiamento, né richiedono una competenza o un impegno”[10].

Con il passare degli anni, il termine professione è stato applicato alle pratiche che implicano un fattore soprattutto intellettuale, e il termine mestiere quando sono prevalenti le azioni manuali. Secondo Grimaldi, “solidale di ‘tutto un sistema di conoscenze’, ogni mestiere apre un mondo dove tutto è intimamente collegato, dove la parte più piccola esprime il tutto e dove il tutto si realizza in ogni sua parte. Avere un mestiere, dunque, vuol dire essere l’uomo di un mestiere; ma essere l’uomo di un mestiere significa far parte di un mondo ordinato, intelligibile, prevedibile, razionale... Quando si tratta di un mestiere, lì tutto è giustizia; nulla si ottiene se non nella misura in cui si è fatto, e nulla si fa se non in base a ciò che si conosce: sapere e saper fare”[11].

Il codice deontologico di ogni professione o mestiere include per sua natura l’obbligo di compiere un’opera ben fatta, che si costituisce così in un imperativo etico basilare, senza il quale sarebbe difficile, se non impossibile, compiere gli altri obblighi morali intorno a questa attività. Questo imperativo etico basilare dell’opera ben fatta si trasforma, per la persona che aspira a santificare il proprio lavoro, in un ideale di perfezione, in quanto santificare qualcosa significa prima di tutto trasformarlo in offerta a Dio. “Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature”[12]. “Fra le molte lodi che di Gesù hanno intessuto coloro che ebbero modo di contemplare la sua vita, ve n’è una che, in un certo modo, le riassume tutte. Mi riferisco all’esclamazione, piena di meraviglia e di entusiasmo, che sorse spontaneamente dalla folla, testimone attonita dei suoi miracoli: bene omnia fecit (Mc 7,37), ha fatto tutto ammirevolmente bene: i grandi prodigi e le cose piccole, quotidiane, che non lasciano stupefatti, ma che Cristo ha compiuto con la pienezza di chi è perfectus Deus, perfectus homo”[13].

Il servizio a Dio è così intimamente vincolato al lavoro che dobbiamo compiere che un tale servizio non si può fare se “non condividiamo con gli altri l’impegno e l’abnegazione nel compiere i doveri professionali; quando diamo motivo di essere giudicati scansafatiche, leggeri, superficiali, disordinati, pigri, inutili...”[14].

In sostanza, ciò che abbiamo chiamato imperativo dell’opera ben fatta ha, per Josemaría Escrivá, un’origine divina perché “il lavoro è un comandamento di Dio”[15]. “Dopo duemila anni abbiamo ricordato all’umanità intera che l’uomo è stato creato per lavorare: ‘homo nascitur ad laborem, et avis ad volatum’ (Gb 5,7), l’uomo nasce per il lavoro e l’uccello per volare”[16].

Questo imperativo è intimamente legato al rispetto per l’autonomia delle realtà temporali, che si costituisce in una precisa regola della deontologia professionale, fondamento del sano pluralismo in ciò che Dio ha lasciato alla libera discussione degli uomini. Una persona che si impegna a santificare il proprio lavoro non troverà contrasti tra ciò che abbiamo chiamato codice scientifico e tecnico e il codice etico imperante in ogni professione. Non solo, ma un aspetto dell’azione di santificare il lavoro è proprio quello di ottenere che nelle attività professionali la tecnica diventi compatibile con l’etica.

In ogni comunità professionale esistono, anche se a volte in maniera implicita, direttive e divieti, non solo nel campo tecnico, ma anche nell’ambito etico. Dato il decadimento etico prodottosi ai giorni nostri in tanti ambiti professionali, è sempre più necessario esplicitare chiaramente queste regole morali di base, come condicio sine qua non perché una determinata attività possa ricevere l’appellativo di professionale. In tal modo si potrà comprendere con maggiore evidenza che comportamenti immorali come, per esempio, mentire, falsificare i fatti probatori di una ipotesi o presentare come proprie idee altrui non possono far parte delle esigenze di una professione, non sono “professionali”. Non solo ma, se vengono ammessi, un’attività, diciamo così, si sprofessionalizza.

Chi cerca di santificare il proprio lavoro deve considerare come compito imprescindibile il mantenere e rafforzare una coerenza assoluta tra la professione e la morale. Il lavoro, oltre che essere la via per ottenere la propria sussistenza e quella della famiglia, per Escrivá, “promuove lo sviluppo della propria personalità”[17]. Giovanni Paolo II darà a questa qualità del lavoro una particolare importanza, che è presente in ogni passo della sua Enciclica Laborem exercens: “Il lavoro è un bene dell’uomo — è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo[18].

D’altra parte, l’autonomia propria di ogni professione, alla quale abbiamo fatto riferimento, è una delle ragioni per cui il fatto di essere cristiano non comporta la formazione di un gruppo con gli altri cristiani nelle questioni temporali opinabili. I cristiani devono sforzarsi di vivere la loro fede, rispettando e cercando di comprendere i punti di vista e le opinioni dei loro colleghi. In questo campo, gli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei acquistano un tono deciso: “Evitate l’abuso, che oggi appare esasperato [...], che smaschera un desiderio contrario alla lecita libertà degli uomini, perché cerca di obbligare tutti a formare un solo gruppo in ciò che è opinabile, a creare quasi dei dogmi dottrinali temporali...”[19].

1.1. Il lavoro concluso al meglio

Il valore etico dell’opera professionale ben fatta è indiscutibile[20]. Però è legittimo chiedersi: in questo contesto, che cosa si deve intendere per opera ben fatta? In base a quali criteri si può formulare un giudizio sulla bontà “professionale” dell’esecuzione di un lavoro?

Non basta il comune giudizio degli altri, anche se sarebbe imprudente trascurarlo[21]. Prima di tutto, perché un lavoro possa meritare il giudizio di ben fatto, deve essere finito; le cose non possono restare a metà. Afferma il fondatore dell’Opus Dei: “Mi hai domandato che cosa puoi offrire al Signore. Non ho bisogno di stare a pensare la risposta: le cose di sempre, ma completate meglio, con un tocco finale di amore...”[22].

Peter Drucker, considerato indubbiamente il più notevole studioso degli organismi sociali, dice con una frase concisa che le imprese debbono fare bene le cose (do well) per poter fare il bene (do good)[23]. Questo simpatico gioco di parole inglesi era stato ugualmente intuito molti anni prima da San Josemaría Escrivá, ed esplicitato in una espressione parimenti concisa: per servire, servire. Per prestare un servizio, per fare del bene agli altri, bisogna servire: saper fare le cose, essere utili. “Volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicarvi questo: Per servire, servire. In primo luogo, infatti, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine. Non credo alla rettitudine di intenzione di chi non si sforza di ottenere la competenza necessaria per svolgere debitamente i compiti che gli sono affidati. Non basta voler fare il bene; è necessario saperlo fare”[24].

Se la santità consiste nell’eroico esercizio delle virtù, “l’eroismo del lavoro consiste nel «portare a compimento» ogni incombenza”[25]. In numerosi testi Josemaría Escrivá suole mettere in evidenza con il corsivo, con le virgolette, o anche con interiezioni, la necessità di dare perfetto compimento a ogni incombenza. Tale insistenza è perfettamente spiegabile se si tiene presente che il concetto cristiano di santità comporta la “pienezza di carità”[26]. È una pienezza che ha il suo necessario correlativo nel compimento perfetto dei propri doveri professionali. Proprio qui, forse, si possono notare con maggiore evidenza le conseguenze che, sul piano dell’etica professionale, si producono quando chi esercita un’attività si propone, non già il compimento minimalista delle regole etiche, ma la pienezza della vita cristiana a tutti i livelli dell’azione[27].

D’altra parte, si deduce chiaramente che portare a compimento un’attività deve essere considerato il raggiungimento del fine, inteso come culmine e non come limite. Dal contesto appare evidente che qui si sta parlando del fine come consumazione e non semplicemente del fine come consunzione[28].

In realtà, sebbene il lavoro si presenti come la materia di santificazione, per un cristiano la santificazione del lavoro costituisce un fine e al fine si tende in un modo illimitato o infinito, vale a dire fino alla sua pienezza: il fine non ammette le mediocrità che sono, per essere precisi, più proprie dei mezzi[29].

1.2. La cura dei particolari

Il significato di compiutezza in quanto perfezione del lavoro che, sul piano lavorativo, è un’immagine fedele della chiamata universale alla santità (“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”[30]), si collega a un’altra idea fondamentale nel messaggio di San Josemaría: la cura delle cose piccole, dei particolari. Parlando del suo lavoro apostolico con numerose persone nei primi anni dell’Opus Dei, racconta, citando la cattedrale di Burgos: “Mi piaceva salire su una delle sue torri, per far contemplare da vicino a quei ragazzi la selva di guglie, un autentico ricamo di pietra, frutto di un lavoro paziente, faticoso.

In quelle conversazioni facevo notare che tutta quella meraviglia non era visibile dal basso. E, per materializzare ciò che tanto spesso avevo loro spiegato, commentavo: questo è il lavoro di Dio, l’opera di Dio!: portare a termine il lavoro professionale con perfezione, in bellezza, con la grazia di questi delicati merletti di pietra”[31].

L’esigenza di portare a termine il lavoro e l’esigenza di compierlo con perfezione fino ai particolari sono normalmente designate nel linguaggio comune. L’insegnamento di Josemaría Escrivá è suggerito già da parole comuni: per esempio si parla delle rifiniture di un edificio o di una macchina, e si può dire che oggi le cose materiali si valutano e acquistano maggior valore proprio per le rifiniture.

1.3. Il lavoro ordinario

Da un altro punto di vista, la necessità di badare ai dettagli concorda perfettamente con il destinatario del messaggio, cioè il cristiano comune, il quale è chiamato a santificare il proprio lavoro ordinario. La santità non si identifica con le azioni straordinarie, ma con una vita nella quale, come diceva frequentemente il fondatore dell’Opus Dei, si fanno straordinariamente bene le cose ordinarie. “È missione molto nostra trasformare la prosa di questa vita in endecasillabi, in poesia eroica”[32].

Alla spontaneità creativa, capace di superare l’abitudine, e alla perfezione nelle piccole cose, la visione soprannaturale nel lavoro aggiunge, per San Josemaría, un’altra qualità del lavoro assai necessaria: la gioia, che permette di fare un lavoro, lo stesso lavoro, in un modo radicalmente diverso. “Escrivá, con il Vangelo, ha detto continuamente: Cristo non vuole da noi solo un poco di bontà, ma tutta la bontà. Vuole, però, che la raggiungiamo non attraverso azioni straordinarie, bensì con azioni comuni; è il modo di eseguire le azioni che deve essere non comune. Lì, nel bel mezzo della strada, in ufficio, in fabbrica, ci si fa santi, a patto che si svolga il proprio dovere con competenza, per amore a Dio e lietamente, in modo che il lavoro quotidiano diventi non il tragico quotidiano, ma quasi il sorriso quotidiano”[33]. Infine, il precetto etico dell’opera ben fatta comporta necessariamente l’obbligo, anch’esso etico, di una educazione continua, oggi più necessaria che mai a causa dei progressi sempre più veloci della scienza e della tecnica.

1.4. I doveri di giustizia impliciti nella propria occupazione

L’imperativo etico dell’opera ben fatta si collega esplicitamente ai doveri di giustizia. Continuare “nel compimento esatto dei tuoi doveri di adesso”[34] non è un perfezionismo banale dalle semplici conseguenze individualiste; è il mezzo migliore a disposizione del cristiano per apportare alla società ciò che le deve, lasciando in essa la sua impronta positiva e orientandola ai suoi fini cristiani. “I cristiani — pur conservando sempre la più ampia libertà di studiare e di mettere in pratica soluzioni diverse, e godendo pertanto di un logico pluralismo — devono coincidere nel comune desiderio di servire l’umanità”[35]. Però non si tratta solo di un servizio di carattere umano; esso implica l’obiettivo e l’impegno che le istituzioni e le strutture temporali “si adeguino ai principi che reggono una concezione cristiana della vita”[36].

San Josemaría Escrivá per volontà divina fondò l’Opus Dei, cammino di santificazione nel lavoro professionale e nel compimento dei doveri ordinari del cristiano, i cui fedeli s’impegnano a vivere questo messaggio in mezzo alle attività del mondo. In esse ciascuno lavora e si muove “con pieno diritto di cittadinanza”[37], ed esercita così una benefica influenza su un’autentica cristianizzazione delle strutture temporali dal di dentro, alla loro fonte e origine. Si tratta di un insegnamento di deontologia professionale trasmesso mediante l’esemplarità del proprio esercizio della professione o della “santificazione del mondo dal di dentro, a mo’ di fermento”[38]. Molti anni prima del Concilio Vaticano II, Josemaría Escrivá insegnava essere compatibili stare nel mondo e stare in Dio, unico modo per contribuire alla santificazione del mondo dal di dentro[39].

Questo modo di promuovere la cristianizzazione del mondo comporta “la preoccupazione di perfezionare la terra presente” e di “meglio ordinare l’umana società”, mentre contribuisce al suo “progresso temporale”; un ordinamento che “è di grande importanza per il regno di Dio”, si legge nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo[40].

Questo ordinamento a Dio della società umana si compie, secondo la stessa Gaudium et spes, mediante il lavoro: “Per i credenti una cosa è certa: l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio...”[41].

Il desiderio di santità, come pienezza dei doveri morali nel lavoro compiuto per amore di Dio, è un ingrediente fondamentale nel conseguimento di un proposito tanto elevato, perché, per superare la “deplorevole calamità” in cui si trovano molti aspetti delle società civili, bisogna “incanalare per vie di perfezione tutte le attività umane”[42].

2. Santificarsi nel lavoro professionale

La propria professione o mestiere rappresenta la materia da santificare, ma inoltre e nello stesso tempo è il mezzo attraverso il quale chi esercita una professione o pratica un mestiere ottiene la propria santificazione. Il lavoro professionale ben fatto, di per sé, contribuisce positivamente alla crescita e al progresso della vita spirituale in molti modi. Prima di ogni cosa, il lavoro è un mezzo insostituibile per lo sviluppo delle proprie virtualità naturali, radice e base di quelle soprannaturali.

Per il fondatore dell’Opus Dei, il lavoro è indubbiamente una “occasione di sviluppo della personalità”[43], “un modo autentico di trarre frutto da tutte le facoltà”[44], “una testimonianza della dignità della creatura umana”[45]. La simultaneità della perfezione dell’uomo che fa le cose, mentre si perfezionano le cose che fa l’uomo, è stata commentata anche da Giovanni Paolo II con le categorie di lavoro oggettivo e lavoro soggettivo sviluppate nella sua Enciclica Laborem exercens, parallele alla necessità di santificare il lavoro nello stesso tempo che l’uomo si santifica nel lavoro.

Si potrebbe dire che il primo e fondamentale contributo che il cristiano dà alla società consiste nel cristianizzare il mondo mediante il proprio lavoro; ed è, nello stesso tempo, la sua missione più nobile. “Il lavoro appare come partecipazione all’opera creatrice di Dio”[46], il quale, nel momento di creare l’uomo e di benedirlo, gli affidò il dominio sulla terra e su quello che in essa esiste, come è detto nella Genesi[47]. In seguito, Giovanni Paolo II ha ricordato questo punto basilare della vita cristiana in relazione con il lavoro: “Diventando — mediante il suo lavoro — sempre di più padrone della terra, e confermando — ancora mediante il lavoro — il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso e in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea dell’originaria disposizione del Creatore...”[48].

2.1. Anima sacerdotale

Il lavoro è un ambito privilegiato dove il cristiano può mettere in atto le virtù soprannaturali: per “vivere con perfezione la propria fede”[49], per rimanere “in una semplice contemplazione filiale, in un costante dialogo con Dio”[50], trasformando le attività ordinarie della vita in un “incontro con il Signore”[51], in “occasione continua del nostro incontro con Dio, per lodarlo e glorificarlo con l’opera della nostra intelligenza e delle nostre mani”[52].

San Josemaría mette in intima relazione il lavoro come mezzo di santificazione e l’anima sacerdotale che deve possedere ogni cristiano, a motivo del Battesimo, che gli conferisce il sacerdozio comune di tutti i fedeli: “Comportandosi così, di fronte a Dio, per motivi di amore e di servizio, con anima sacerdotale, tutti gli atti dell’uomo acquistano un genuino senso soprannaturale, che mantiene unita la nostra vita alla sorgente di tutte le grazie...”[53], riuscendo così a diventare “anime contemplative in mezzo al mondo”[54]. In tal modo il lavoro si trasforma nell’olocausto che Dio ci chiede e che perciò non può essere fatto mediocremente[55], perché contrasterebbe con la consapevolezza pratica di una “anima sacerdotale”[56].

Questa dimensione del sacerdozio comune dei fedeli si unisce, senza confondersi, con il sacerdozio ministeriale nella partecipazione al Sacrificio della Messa, dove gli elementi naturali coltivati dall’uomo (il pane e il vino) si trasformano nel Corpo e nel Sangue di Cristo[57]. San Josemaría insegnava che il tavolo di lavoro di un cristiano potrebbe essere considerato un altare di offerte a Dio. Infatti, se ogni cristiano è “sacerdote della sua stessa esistenza”[58], ed essendo il lavoro l’espressione primordiale della dignità umana e la genuina manifestazione della sua vita, l’offerta del lavoro a Dio coinvolge l’uomo intero.

2.2. La sintesi del finis operis e del finis operantis

L’aver considerato il lavoro come la materia da santificare e il mezzo o l’ambito nel quale acquista vita e si sviluppa la propria santificazione personale costituisce, a nostro avviso, uno dei contributi più rilevanti dati dal fondatore dell’Opus Dei.

Nelle attività umane “a volte il fine dell’opera è diverso dal fine di chi la porta a compimento”[59]. Nelle considerazioni etiche del lavoro umano sono state assunte posizioni che identificano o sovrappongono i due fini, sicché, secondo alcune interpretazioni socialiste del lavoro dell’uomo, chi lo esercita non dovrebbe avere altra finalità che quella istituzionale o oggettiva del lavoro stesso; secondo le interpretazioni provenienti dai paleoliberalismi, ci sarebbe un completo divorzio tra i fini soggettivi dell’operaio e i fini oggettivi dell’opera: il fine egoista dell’individuo potrebbe essere motivo sufficiente per produrre un’opera buona, vale a dire, socialmente utile (a questa considerazione, che separa i due fini, si potrebbero paragonare, sia pure con segno contrario, le considerazioni spiritualiste del lavoro dell’uomo).

San Josemaría Escrivá mette in guardia dal pericolo di una doppia vita: non possiamo essere schizofrenici se vogliamo essere cristiani, perché “questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali”[60]. Il lavoro oggettivo, visibile e materiale, non può essere indifferente nella vita di un cristiano, perché “appare come partecipazione all’opera creatrice di Dio”[61], e perché, inoltre, il lavoro è stato “assunto da Cristo come realtà redenta e redentrice”, e perciò “si trasforma in mezzo e cammino di santità, in concreta occupazione santificabile e santificatrice”[62].

Ma la condizione di bontà morale dell’opera che si fa (da farsi, come abbiamo detto, con la maggiore perfezione umana possibile) è assicurata, sottolineata e accresciuta dall’intenzione soprannaturale di chi la compie[63].Nell’etica cristiana l’intenzione è stata sempre importante per arrivare alla rettitudine morale delle nostre azioni, che sono giudicate buone se lo sono ex toto genere suo, in tutti i loro aspetti. In Josemaría Escrivá essa si mescola a tal punto con l’oggettività dell’opera stessa, da costituire un incentivo forte ed efficace per farla bene con parametri intramondani e per santificarla con prospettive soprannaturali: il secondo aspetto esige il primo. Come abbiamo detto, un’opera mal fatta non può essere offerta come olocausto a Dio; ora possiamo aggiungere che l’intenzione di offrirla a Dio è l’incentivo fondamentale su cui può contare il cristiano per fare un buon lavoro[64].

Il retto finis operantis, la retta intenzione, non si limita dunque a mete semplicemente umane: “alimentare il proprio egoismo”, “assicurarsi la tranquillità”[65], o pensare a quello che diranno gli uomini, perché “innanzitutto, ti deve importare che cosa dirà Dio; poi — molto in secondo luogo, e a volte mai -, dovrai soppesare quello che potranno pensare gli altri”[66]. In consonanza con ciò, Antonio Aranda, in base a una prospettiva teologica, afferma: “Il lavoro santificato (nella sua duplice dimensione oggettiva e soggettiva, vale a dire di opera fatta e di azione che si ha intenzione di fare, entrambe in Cristo) ha un significato proprio: significa qualcosa in se stesso e da se stesso, è qualcosa di sostantivo e non solo di accidentale o strumentale sul piano dell’economia della salvezza, ossia, nel mistero di Cristo... Il lavoro santificato (nella sua dimensione oggettiva e soggettiva) è il momento interno essenziale di questo dinamismo di santificazione, e non semplicemente una cornice o uno strumento esterno o accidentale per svolgerlo”[67].

Inoltre la rettitudine d’intenzione ci fa rimanere vigilanti affinché i successi o gli insuccessi professionali non ci facciano dimenticare “neanche solo per un momento” qual è il vero fine del nostro lavoro: “la gloria di Dio”[68]. Il desiderio di santità nel lavoro ci spinge, infine, a fare a meno, se il Regno di Dio lo richiede, di mete che in sé possono anche considerarsi buone e lecite: “Essere cristiani è agire senza pensare ai traguardi meschini del prestigio o dell’ambizione o ad altre finalità che possono sembrare più nobili, come la filantropia e la compassione davanti alle disgrazie altrui: è passare attraverso tutto questo, mirando al termine ultimo e radicale dell’amore che Cristo ha rivelato morendo per noi”[69]. È così perché “l’essere cristiani non è una circostanza accidentale: è una realtà divina che si innesta nel più profondo della nostra vita dandoci una visione chiara e una volontà decisa, per poter agire secondo il volere di Dio”[70].

La rettitudine di intenzione in un impegno ascetico continuo, come si richiede in una vita che vuole e anela la santità, è quanto mai urgente ai nostri giorni. Per capire bene come finalità, motivo e intenzioni assolutamente soprannaturali ci spingono a dare pienezza alle esigenze naturali e anche materiali implicite in ogni lavoro umano, non si deve perdere di vista che la realtà divina in cui consiste la vocazione cristiana alla santità si inserisce nell’intimo della nostra vita, e per questo San Josemaría Escrivá può dire con forza che “il cristiano non è un apolide. È un cittadino della città degli uomini, che ha l’anima piena del desiderio di Dio”[71].

3. Santificare gli altri con la professione

Materia e mezzo o ambito di santificazione, il lavoro si trasforma anche in strumento di apostolato, cosa che è, ugualmente, una richiesta etica implicita in ogni professione o mestiere e una conseguenza dell’anima sacerdotale, un frutto importante del sacerdozio comune dei fedeli.

“Il Signore vuole che i suoi fedeli raggiungano ogni angolo della terra. Ne chiama alcuni nel deserto, lontano dalle preoccupazioni della società umana, per ricordare agli altri, con la loro testimonianza, che Dio esiste. Ad altri affida il ministero sacerdotale. Ma i più li vuole in mezzo al mondo, nelle occupazioni terrene. Pertanto, questi cristiani devono portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fabbriche, nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade delle grandi città e nei sentieri di montagna”[72].

Il lavoro è, dunque, una richiesta etica. Oseremmo dire anche che si tratta di un filo conduttore che troviamo sempre presente nelle encicliche papali che riguardano la questione sociale: Rerum novarum, Quadragesimo anno, Populorum progressio, Centesimus annus e, più specificamente per il nostro caso, Laborem exercens. È quanto mai evidente, in tutte, la preoccupazione per lo stato dell’uomo inserito tra gli ingranaggi, sempre più complessi, delle attività industriali e produttive in genere.

3.1. La crescita dell’uomo attraverso il lavoro

Il lavoro non può svolgersi in modo tale da stabilire un predominio delle cose sulle persone, del lavoro oggettivo sul lavoro soggettivo, per citare le categorie sociali di cui parla Giovanni Paolo II: bisogna trovare il modo per cui l’uomo perfezioni se stesso e perfezioni gli altri quando cerca di elaborare prodotti o di prestare servizi. Questa crescita dell’uomo, considerata nella sua totalità, è senza alcun dubbio l’obiettivo di ogni apostolato[73].

“L’apostolato, ansia che consuma interiormente il cristiano della strada, non è qualcosa di diverso dal compito di ogni giorno: si confonde col lavoro quotidiano, quando esso è trasformato in occasione di incontro personale con Cristo. In questo lavoro, impegnandoci a gomito a gomito negli stessi problemi dei nostri compagni, dei nostri amici, dei nostri parenti, potremo aiutarli a raggiungere Cristo”[74]. Un apostolato di tale natura, oltre che al suo ovvio carattere personale, fa appello alla libertà dell’uomo, che il Signore non distrugge. “Perciò non vuole risposte forzate; vuole decisioni che scaturiscano dall’intimità del cuore”[75].

Abbiamo visto che, nella dottrina sul lavoro predicata da San Josemaría, intrecciandosi proficuamente il finis operis e il finis operantis, la perfezione del lavoro è una fioritura o una conseguenza della perfezione dell’uomo e, contemporaneamente, la ricerca di una perfezione compiuta nel lavoro porta con sé la necessità che l’uomo perfezioni le sue potenzialità.

Sarebbe una riduzione semplicistica ritenere che il problema della crescita dell’uomo attraverso il lavoro si riduca ai semplici rapporti operaio-padroni, come se i dirigenti, i proprietari o i capi delle aziende fossero gli unici responsabili della sua soluzione. Al contrario, la crescita dell’uomo comincia da se stesso e si propaga, anche quando la riceve, mediante le relazioni con i colleghi, i subordinati e i direttori, i fornitori e i clienti, i pazienti e gli alunni... Nella rete di vincoli che oggi è diventato il lavoro (nella Mater et Magistra è chiamata socializzazione), l’espansione delle nostre possibilità antropologiche risulta poliedrica e pluridimensionale, ed è condizionata in tutte le direzioni[76].

Data la socializzazione del lavoro, si può essere certi che nessuno può compierlo isolatamente. L’etica professionale sbaglierebbe se ritenesse che i rapporti di lavoro non abbiano un carattere importante nel modo di essere e nel modo di farsi dell’uomo, come se ogni individuo, pur avendo rapporti di lavoro con gli altri, di fatto vivesse isolato. L’organizzazione del lavoro non è una sovrapposizione di siti individuali che restano disuniti. Un principio fondamentale della deontologia del lavoro consiste nell’ottenere che gli individui si conservino e si espandano come persone nel modo di rapportarsi con gli altri.

3.2. Il perfezionamento soprannaturale grazie al lavoro

Quando affermiamo che il lavoro è uno strumento di santificazione degli altri uomini stiamo affrontando in maniera completa la necessità del loro perfezionamento, in tutti gli aspetti. Di conseguenza, l’apostolato non deve essere assente nel lavoro, né deve essere considerato come una sovrapposizione accidentale.

Per San Josemaría, “il lavoro è anche apostolato, occasione di servizio agli uomini per far loro conoscere Cristo e condurli al Padre, come conseguenza della carità che lo Spirito Santo infonde nelle anime. Tra le indicazioni di S. Paolo agli Efesini perché si manifesti in loro il cambiamento prodotto dalla conversione, dalla loro chiamata al cristianesimo, vi è questa: Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità”[77].

Oltre che un arricchimento etico, la santificazione degli altri attraverso il lavoro si costituisce, diremmo, come una conseguenza dell’anima sacerdotale del fedele comune. Il reale ed effettivo ordinamento delle strutture temporali ai fini provvidenti di Dio — l’“impegno per costruire la città terrena”[78] - non è un compito individualista, esercitato da ogni individuo in modo autonomo e non solidale: è un compito sociale. Ecco perché l’ordinamento delle strutture temporali non solo sarebbe impossibile senza l’apostolato, ma per sua costituzione fa parte dell’apostolato stesso. Questo ci vuol dire l’espressione coniata dal fondatore dell’Opus Dei: ogni uomo deve santificarsi santificando.

3.3. Il carattere associativo del lavoro e dell’apostolato

Per santificare gli altri nelle attività quotidiane occorre, anzitutto, avere coscienza del valore sociale del lavoro. San Josemaría mette in guardia dalle conseguenze di un certo tipo di individualismo: “Tu, che occupi un posto di responsabilità, nell’esercizio del tuo lavoro ricorda: ciò che è personale muore con la persona che si è resa indispensabile”[79]. La necessità di dividersi il lavoro[80] e distribuirsi le responsabilità[81] rende ancora più indispensabile impegnarsi a gomito a gomito negli stessi problemi con i nostri compagni[82].

Gli studi di psicologia industriale hanno messo in chiaro che l’auspicata divisione delle funzioni deve essere associata al coordinamento degli sforzi. Questo duplice aspetto del lavoro associato non è estraneo alle sue dimensioni etiche. “Nel lavoro ordinario dobbiamo manifestare sempre la carità ordinata, il desiderio e la realtà di rendere perfetto il nostro lavoro mediante l’amore; la convivenza con tutti, per portarli oportune et importune (2Tm 4,2), con l’aiuto del Signore e con garbo umano, alla vita cristiana, e anche alla perfezione cristiana nel mondo”[83]. Questo carattere sociale del lavoro si fa evidente quando è concepito con una finalità di servizio alla comunità sociale: “Questa è una delle battaglie di pace che bisogna vincere: trovare Dio nella propria occupazione e, con Lui e come Lui, servire gli altri”[84].

3.4. Etica del lavoro e ascetica cristiana

In seconda battuta, il riconoscimento del carattere associativo del lavoro dà luogo a importanti conseguenze nel comportamento morale del lavoratore, che saranno favorite da un’ascetica cristiana ben vissuta, una volta rimossi gli ostacoli individualisti che attentano al lavoro associato. Citeremo come esempi l’eliminazione di gelosie, sospetti e invidie che sorgono con facilità[85], la tendenza a sminuire l’importanza del lavoro degli altri[86], la sfiducia[87], la sottovalutazione dei dipendenti[88], ecc.

Occorre prendere coscienza del profondo lavoro morale che bisogna compiere fin nell’intimo di ogni persona per abbattere le barriere che s’interpongono tra gli uomini e che impediscono la realizzazione di un lavoro coordinato. Si tratta di un impegno etico che è stato messo in evidenza non solo da una prospettiva cristiana dell’uomo, ma anche in base a una semplice prospettiva naturale e professionale del lavoro. Da questa prospettiva è stato detto, a ragione, che il lavoro è la più importante terapia contro l’egoismo. Secondo Fritz Schumacher in Good Work, la saggezza tradizionale ci insegna che, in fondo, la funzione del lavoro è semplice: dare alla persona la possibilità di sviluppare le proprie facoltà, di produrre i beni e i servizi di cui tutti abbiamo bisogno per una vita degna, e permetterle di vincere il proprio innato egocentrismo unendola ad altre persone in un’attività comune[89].

Questa, chiamiamola così, sintonia nel lavoro richiede il concorso di finalità condivise e la interrelazione di impegni, facilitando a tal punto l’apostolato che finisce col coincidere con esso. “L’apostolato [...] non è qualcosa di diverso dal compito di ogni giorno: si confonde col lavoro quotidiano, quando esso è trasformato in occasione di incontro personale con Cristo”[90]. San Josemaría anticipa, dunque, ciò che nel Concilio Vaticano II è stato detto intorno al lavoro come principio che regola l’insieme della vita economica e sociale: “Ancor più: sappiamo che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l’uomo si associa all’opera stessa redentiva di Gesù Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazaret”[91].

I rapporti di lavoro, così come li abbiamo concepiti, fanno sì che l’apostolato di un cittadino qualsiasi sia “una grande catechesi in cui, mediante il rapporto personale, l’amicizia leale e autentica, si risveglia negli altri la sete di Dio...”[92]. La pratica delle virtù che il lavoro favorisce, come abbiamo visto, porta all’apostolato. “Anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale [...] cominciò a fare e a insegnare, unendo l’esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant’anni, quest’apostolato lo chiamo apostolato di amicizia e di confidenza”[93].

Messa a fuoco l’etica in questo modo, i gruppi di lavoro si costituiscono così in autentiche comunità di persone tra le quali avviene un reciproco arricchimento, invece del reciproco impoverimento che si produce quando il lavoro si allontana dai valori morali che di lui sono intrinsecamente costitutivi.

Ogni lavoro porta con sé una pratica sociale, una tradizione, un contesto collettivo con implicazioni etiche e religiose. Stranamente, oggi non esiste nessun libro di management che non enfatizzi la trasparenza, la veracità dell’informazione, la sincerità nella leadership o la pubblicità veritiera. La fiducia reciproca costituisce ciò che alla fine è stato chiamato capitale sociale, più importante del capitale monetario.

Già molti anni prima San Josemaría non si dichiarava d’accordo sulla separazione delle virtù private dalle virtù sociali[94], in un modo parallelo a come oggi si impugna la separazione tra morale privata e morale pubblica, proclamata dal liberalismo ideologico.

3.5. L’apostolato della testimonianza e della parola

Questo apostolato di esemplarità, di testimonianza, di amicizia e di confidenza contribuisce a propagare efficacemente, da persona a persona, il criterio cristiano della vita all’interno della vita stessa: “Attraverso il tuo lavoro professionale, portato a termine con tutta la perfezione soprannaturale e umana possibile, puoi — devi! — dar criterio cristiano nei posti dove eserciti la tua professione o il tuo mestiere”[95].

Si vede chiaramente che questa aperta e logica (diremmo, inevitabile) maniera apostolica non è il risultato di una tattica: è naturalezza. “La vostra vita di uomini cristiani, di donne cristiane — il vostro sale e la vostra luce — scorra spontanea, senza stranezze e senza bigotterie: portate sempre con voi il nostro spirito di semplicità”[96]. Ci si può anche chiedere quale sia il contenuto principale del messaggio apostolico che il cristiano comune può trasmettere col suo lavoro. La risposta è molto semplice. Il contenuto principale del messaggio è esattamente quello di santificare ciò che sta facendo nella dinamica stessa dell’attività lavorativa. Non si tratta in alcun modo di una tautologia, ma di una reiterazione dell’esperienza di vita. L’etica del lavoro comprende necessariamente che facciamo il bene alle persone con le quali lavoriamo, per le quali lavoriamo, sotto le quali lavoriamo... Per chi si è impegnato a santificare il proprio lavoro questo imperativo etico è portato alle estreme conseguenze: fare il bene qui ha il significato di stimolare gli altri a cercare la santità in ciò che li unisce: il lavoro.

Ma anche questo stesso beneficio sociale appare insufficiente a un cristiano, che è chiamato alla società eterna (la comunione dei santi). Prima che una richiesta della società, il lavoro — e preservare questo carattere vuol dire conservare retta l’intenzione — è una richiesta divina.

“Tu e io dobbiamo ricordarci e ricordare agli altri che siamo figli di Dio, ai quali, come ai personaggi della parabola evangelica, nostro Padre ha rivolto l’invito: ‘Figlio, va’ a lavorare nella vigna’ (Mt 21,28). Vi assicuro che, se ci impegniamo tutti i giorni a considerare i nostri doveri personali come una richiesta divina, impareremo a portare a termine il compito con la maggior perfezione umana e soprannaturale di cui siamo capaci”[97].

Il fatto che un lavoratore, nel santificare il lavoro e nel santificarsi nel lavoro, faccia in modo di santificare gli altri con questo stesso lavoro, il che significa indicare loro il cammino mediante il quale possono diventare santi, conferisce a questa modalità apostolica una forza coerente e senza crepe che, con la grazia di Dio, dà frutti palpabili.

[1] Sulla natura e lo spirito dell’Opus Dei, cfr. P. RODRÍGUEZ, F. OCÁRIZ e J. L. ILLANES, L’Opus Dei nella Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1993, pagg. 17 e ss.

[2] Colloqui con Monsignor Escrivá, Edizioni Ares, Milano 2002, n. 70. Per un breve studio sulla santificazione del lavoro vedere: J. L. Illanes, La santificazione del lavoro, Ares, Milano 2003. “... il lavoro diventa attività redenta e redentrice: non solo è l’ambito nel quale l’uomo vive, ma mezzo e strada di santità, realtà santificabile e santificatrice” (Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, n. 47). “Il Signore ci ha chiamato perché, pur rimanendo ciascuno di noi nel proprio stato di vita e nell’esercizio della propria professione, ci santifichiamo tutti nel lavoro, santifichiamo il lavoro e santifichiamo con il lavoro” (JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 11-III-1940, n. 13).

[3] Cfr M. P. CHIRINOS, Antropología y trabajos. Hacia una fundamentación filosófica de los trabajos manuales y domésticos, Cuadernos de Anuario Filosófico, n° 157, Università di Navarra, Pamplona, 2002, pag. 102. Secondo questo autore, “parlare semplicemente di lavoro oggi appare troppo generico. Cosa diversa, invece, è parlare del lavoro professionale come di una realtà diversa dalla semplice attività intellettuale o manuale, o anche del lavoro inteso come forza che trasforma la natura. È indubbiamente un concetto più ricco, che si collega con la vocazione professionale o la tendenza esistente nella persona verso un determinato tipo di attività e che radica nelle sue attitudini, nei suoi gusti, nei suoi doni, nelle sue virtù, ecc.”.

[4] G. FARO, Il lavoro nell’insegnamento del beato Josemaría Escrivá, Agrilavoro Edizioni, Roma 2000, pag. 142.

[5] Ibidem, pag. 143.

[6] Ibidem, pag. 142.

[7] J. J. SANGUINETTI, L’umanesimo del lavoro nel beato Josemaría Escrivá. Riflessioni filosofiche, in “Acta Philosophica”, I (1992/2), pag. 268.

[8] P. DONATI, El trabajo en la era de la globalización, in “Revista Empresa y Humanismo”, n° 1/03, pagg. 72-73, Università di Navarra. “La virtualizzazione dell’economia e del lavoro, di fatto, non significa maggior astrazione, autoreferenzialità e semplice comunicazione, ma, al contrario, una capacità di relazione sociale concreta e “globale”, vale a dire un’attività che ha attinenza con la generazione di relazioni e di beni relazionali, la cui consistenza può sembrare inafferrabile — e di fatto lo è -, ma che ha proprio in questa stessa qualità la condizione essenziale perché questi beni riescano ad esistere attraverso le relazioni, con le relazioni e per le relazioni sociali che implicano” (ibidem).

[9] Cfr K. R. ANDREWS, Toward Professionalism in Business Management, in “Harvard Business Review”, marzo-aprile 1969.

[10] N. GRIMALDI, El trabajo. Comunión y excomunicación, Eunsa, Pamplona 2000, pag. 15. Cfr. C. Llano, La creación del empleo, Panorama Editorial, México 1996, Parte II, “Empleos sin trabajo y trabajo sin empleo”.

[11] N. GRIMALDI, El trabajo..., cit., pag. 70.

[12] JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amici di Dio, n. 55.

[13] Ibidem, n. 56.

[14] Ibidem, n. 62.

[15] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Forgia, n. 681.

[16] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 31-V-1954, n. 17, che cita la Vulgata. In modo simile, P. Donati afferma: “Con ciò viene immediatamente superata l’ambivalenza che ha attraversato il pensiero occidentale quando ha posto in dubbio il carattere positivo delle attività secolari, in quanto potenziali pericoli per la salvezza cristiana o comunque in quanto situazioni lontane da una possibile santificazione. Per trovare nella tradizione cattolica qualcosa che vi assomigli, piuttosto che a S. Benedetto, nel cui motto (ora et labora) preghiera e lavoro si configurano come attività diverse e separate, bisogna pensare a S. Bernardino da Siena quando sottolineava l’importanza del lavoro come vita activa civilis, ossia come luogo di esercizio delle virtù naturali e soprannaturali orientate alla creazione di una ricchezza sana, legittima, feconda, non certo in contrasto con il desiderio di perfezione e le possibilità di santificazione del cristiano” (P. DONATI, Il significato del lavoro nella ricerca sociologica attuale e lo spirito dell’Opus Dei, in “Romana”, n. 22 (1996), pag. 128).

[17] JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 47.

[18] GIOVANNI PAOLO II, enc. Laborem exercens, 14-IX-1981, n. 9.

[19] JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 9-I-1932, n. 1.

[20] Da chi fa una cosa, prima di tutto, bisogna pretendere che sappia farla (cfr S. TOMMASO D’AQUINO, Quaestio disputata de virtutibus cardinalibus. Quaestio unica, art. 1, c).

[21] Cfr Amici di Dio, n. 62.

[22] JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 495.

[23] Cfr P. DRUCKER, The new realities: In Government and Politics, in Economics and Business, in society and World View, Harper & Row, New York 1989; cfr P. DRUCKER, Managing the Non-profit Organization: Practices and Principles, Harper-Collins, New York 1990.

[24] È Gesù che passa, n. 50.

[25] Solco, n. 488; “... nel lavoro ci si chiede l’eroismo di «portare a compimento» i lavori che ci competono...” (Solco, n. 529); “... in primo luogo, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine [...]; se il nostro volere è sincero, deve tradursi nell’impegno di impiegare i mezzi adeguati per compiere le cose fino in fondo, con perfezione umana” (È Gesù che passa, n. 50); “La lotta interiore non ci allontana dalle nostre occupazioni terrene: ci induce a portarle a termine meglio!” (Forgia, n. 735); il lavoro professionale dev’essere “portato a termine con tutta la perfezione soprannaturale e umana possibile...” (Forgia, n. 713).

[26] Solco, n. 739.

[27] In una sua analisi antropologica del lavoro, Rafael Corazón illustra tale pienezza: “Qualsiasi tipo di lavoro ha, fino a un certo punto, un suo valore, e può soddisfare più o meno una persona, ma solo quando viene compiuto come un atto di donazione a Dio può colmare le ansie infinite dell’essere personale. Quando una persona sa di avere una meta, sa anche di avere una missione da compiere sulla terra, di avere un incarico, e che il frutto di tale missione deve arrivare al destinatario. Secondo questa prospettiva, il lavoro è un incarico ineluttabile, il cui fine non è esclusivamente nessuno di quelli enumerati fin qui; se il lavoro è la “vocazione iniziale dell’uomo”, il suo fine ultimo è che l’uomo si doni al Creatore” (R. CORAZÓN GONZÁLEZ, Fundamentos para una filosofía del trabajo, Cuadernos de Anuario Filosófico, n° 72, Università di Navarra, Pamplona 1999, pag. 116).

[28] Il fatto che nel nostro linguaggio di oggi non si faccia una netta distinzione tra la consumptio (compimento o esaurimento) e la consummatio (pienezza) non impedisce di renderci conto dell’autentico significato delle due espressioni. Qualcosa di simile succede con il termine compimento, che nell’uso del nostro tempo ha il significato di adeguarsi strettamente e semplicemente alle regole di base di una incombenza, mentre in passato aveva quello di compiere una data cosa fino alla sua pienezza.

[29] Cfr S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 27, a. 6, c.; q. 184, a. 3, c. Ugualmente, oggi non si distingue bene tra il fine in quanto ciò che si cerca senza condizioni (telós) e il fine che implica la nozione di limite (péras).

[30] Mt 5,48.

[31] Amici di Dio, n. 65.

[32] Solco, n. 500. “La tua opera di santità... dipende... da questo tuo lavoro, oscuro e quotidiano, normale e ordinario” (Forgia, n. 741); “Quando un cristiano compie con amore le attività quotidiane meno trascendenti, in esse trabocca la trascendenza di Dio” (Colloqui, n. 116).

[33] Cardinale Albino Luciani, poi GIOVANNI PAOLO I, Cercando Dio nel lavoro quotidiano, in “Il Gazzettino”, Venezia 25-VII-1978.

[34] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ Cammino, n. 825.

[35] È Gesù che passa, n. 167.

[36] Cfr Forgia, n. 718.

[37] Forgia, n. 718.

[38] Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 31.

[39] “... Persevera nel tuo posto, figlio mio: da lì, quanto potrai lavorare per il regno effettivo di Nostro Signore!” (Cammino, n. 832).

[40] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 39.

[41] Il documento conciliare non si riferisce ad attività specificamente ecclesiali, ma agli “ordinari lavori quotidiani” che contribuiscono in modo personale, se fatti cristianamente, “alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia” (n. 34).

[42] Ibidem, n. 37.

[43] Forgia, n. 702.

[44] Amici di Dio, n. 46.

[45] Forgia, n. 702.

[46] È Gesù che passa, n. 47.

[47] Cfr Gn 1,26.

[48] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Laborem exercens, n. 4.

[49] Colloqui, n. 70.

[50] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 11-III-1940, n. 15.

[51] Solco, n. 526.

[52] Amici di Dio, n. 81.

[53] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 11-III-1940, n. 13.

[54] Ibidem.

[55] Cfr Forgia, n. 700.

[56] Cfr Solco, n. 499.

[57] Cfr Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 38.

[58] È Gesù che passa, n. 96.

[59] S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 141, a. 6, ad 1um. L’Aquinate adopera un esempio per spiegare la distinzione: “Il fine della costruzione è la casa, ma spesso il fine del costruttore è il guadagno”.

[60] Colloqui, n. 114.

[61] È Gesù che passa, n. 47.

[62] Cfr Forgia, n. 702.

[63] Questo è ciò che costituisce per San Josemaría Escrivá la grandezza della vita ordinaria, perché “davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzata” (Solco, n. 487).

[64] Cfr F. Ocáriz, El concepto de santificación del trabajo, in F. Ocáriz, Naturaleza, gracia y gloria, Eunsa, Pamplona 2000, pagg. 263-270.

[65] Solco, n. 526.

[66] Ibidem, n. 970.

[67] A. ARANDA, Identidad cristiana e configuración del mundo. La fuerza configuradora de la secularidad y del trabajo santificado. Atti del Congresso: La grandezza della vita quotidiana. Vocazione e missione del cristiano in mezzo al mondo, Edizioni Università della Santa Croce, gennaio 2002.

[68] Cfr Forgia, n. 704.

[69] È Gesù che passa, n. 98.

[70] Ibidem, n. 98.

[71] Ibidem, n. 99.

[72] Ibidem, n. 105.

[73] Nell’omelia pronunciata il 17 maggio 1992, durante la Santa Messa per la beatificazione di J. Escrivá, Giovanni Paolo II ha affermato: “... il Beato Josemaría predicò instancabilmente la chiamata universale alla santità e all’apostolato. Cristo convoca tutti a santificarsi nella realtà della vita quotidiana; pertanto, il lavoro è anche mezzo di santificazione personale e di apostolato quando è vissuto in unione con Cristo”.

[74] Amici di Dio, n. 264.

[75] È Gesù che passa, n. 100.

[76] Al riguardo, Rafael Corazón afferma: “L’inidentità radicale dell’essere umano è una manifestazione evidente della sua dipendenza dal Creatore, ma anche del fatto che mai potrà ottenere l’identità con se stesso, perché l’inidentità è costitutiva. Ciò sta a indicare che il senso della vita umana non può essere mai l’autopossessione, l’autorealizzazione, né nulla di simile. Nello stesso modo ci si deve rendere conto che l’uomo non ha altro fine ultimo se non quello di essere destinato a darsi al Creatore; crescendo e perfezionandosi, egli non cerca niente di personale, nulla di proprio e di esclusivamente suo, perché sbaglierebbe sempre; il senso della vita non può essere altro che la coesistenza con un essere personale capace di accettare liberamente la donazione della persona” (R. CORAZÓN, op. cit., pagg. 118-119).

[77] È Gesù che passa, n. 49.

[78] Forgia, n. 703.

[79] Solco, n. 971.

[80] Cfr Cammino, n. 338.

[81] Cfr Solco, n. 972.

[82] Cfr Amici di Dio, n. 264.

[83] S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Lettera 24-III-1930, n. 10.

[84] Solco, n. 520.

[85] Cfr Solco, n. 504.

[86] Cfr Solco, n. 507.

[87] Solco, n. 520: “Alcuni, nel lavoro, si muovono con pregiudizi: per principio, non si fidano di nessuno...”.

[88] Solco, n. 975: “Non dire di nessuno dei tuoi dipendenti: non va bene. Sei tu che non vai bene: perché non sai collocarlo nel posto in cui può funzionare”.

[89] FRITZ SCHUMACHER, El buen trabajo (Good Work), Debate Madrid, 1981.

[90] Amici di Dio, n. 264.

[91] Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, n. 67.

[92] È Gesù che passa, n. 149.

[93] Colloqui, n. 62.

[94] “Non mi convince la distinzione tra virtù personali e virtù sociali. Non esiste virtù alcuna che possa favorire l’egoismo; tutte e singole promuovono il bene della nostra anima e quello di coloro che ci stanno vicini. Essendo tutti uomini, e figli di Dio, non possiamo concepire la nostra vita come l’affannosa realizzazione di un brillante curriculum, di una luminosa carriera. Tutti dobbiamo sentirci solidali e, nell’ordine della grazia, siamo uniti dai vincoli soprannaturali...” (Amici di Dio, n. 76).

[95] Forgia, n. 713.

[96] Cammino, n. 379; “Perciò è necessario che la vostra formazione sia tale che siate voi a influire, con naturalezza, sull’ambiente, per dare ‘il vostro tono’ alla società nella quale vivete” (idem, n. 376).

[97] Amici di Dio, n. 57.

Romana, n. 38, Gennaio-Giugno 2004, p. 111-129.

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