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Varsavia 29-XI-2005 Intervista concessa all’agenzia polacca di stampa KAI

Eccellenza, in che cosa consiste l’essenza del messaggio dell’Opus Dei al mondo e all’uomo contemporaneo?

Il messaggio dell’Opus Dei è semplicemente una esplicitazione del-l’invito dell’amore di Dio a tutti, donne e uomini, a vivere sino in fondo e a diffondere il messaggio cristiano. È peculiare l’accento sulla santificazione del lavoro e delle circostanze ordinarie della vita.

Per dirla in modo espressivo, San Josemaría Escrivá ha unito due considerazioni che spesso si aveva la tendenza a trattare separatamente. Da una parte, ha ripetuto che il mondo non è una realtà negativa: “Dio vide che era cosa buona”, dice il libro della Genesi. Dall’altra, e anche questo lo insegna la Genesi, l’uomo è stato posto nel mondo proprio per lavorare.

Di conseguenza, per compiere la volontà di Dio, per essere un cristiano coerente, per essere santo, non è necessario abbandonare il mondo: il lavoro e le occupazioni ordinarie di una persona normale si trasformano in mezzo e occasione di vivere, in modo eroico, la carità verso Dio e verso il prossimo.

Fin dagli inizi l’Opus Dei ha predicato l’ideale della santità nel quotidiano realizzato in ogni momento della vita. Come ideale è molto bello, ma come metterlo in atto fra i tanti problemi che ogni giornata ci pone, con i suoi ritmi vertiginosi che continuamente ci distraggono?

La prima condizione è quella di accettare con garbo i problemi e il ritmo vertiginoso di cui lei parla. Se non ci sentiamo a disagio e non ci scoraggiamo davanti alle difficoltà, abbiamo già percorso la metà del cammino.

Ma il fattore fondamentale consiste nel coltivare ogni giorno l’ami-cizia con Cristo, dimostrando che lo amiamo in modo oggettivo e soggettivo, non teorico. Mi riferisco anche alla necessità di dedicare ogni giorno un po’ di tempo al rapporto personale con Dio: con la partecipazione alla Santa Messa, l’orazione, la lettura del Vangelo... Non è poi tanto difficile: basta prendere la decisione e organizzarsi, anche se forse dovremo riflettere su come utilizzare meglio il tempo o fare un po’ più a meno della televisione.

Ce lo ha detto Gesù stesso: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Se permettiamo che Dio entri nella nostra vita, i problemi non scompariranno, però, condivisi con Lui, li vedremo in un’al-tra ottica: una occasione per servirlo e per servire gli altri. Se apriamo a Dio la porta della nostra condotta e della nostra anima, vi entreranno anche le persone che vivono attorno a noi.

Oltre al dialogo con Dio si richiede anche l’esercizio delle virtù umane. San Josemaría Escrivá sottolineò sempre l’importanza di coltivare le virtù che rendono più piacevole la convivenza: la generosità, l’allegria, lo spirito di servizio, l’amore per la libertà...

Vari membri dell’Opus Dei svolgono funzioni di rilievo nella vita pubblica: vi sono intellettuali, imprenditori, politici. Come si può, sino in fondo e senza sconti, essere cristiani in politica? La politica è definita “l’arte del compromesso”. E un cristiano nelle questioni di principio non può scendere a compromessi. Come salvaguardare questi aspetti?

Prima di tutto, io raccomanderei di non esagerare: essere coerente con la fede certe volte può costare, ma non è il caso di farne una tragedia. Anche molti non cristiani agiscono in coscienza, con punti di riferimento fermi, che considerano non negoziabili: altrimenti sarebbero persone senza principi, e un uomo senza principi non può essere affidabile. Ho visto politici non cristiani rinunciare a un portafoglio ministeriale per motivi di coscienza, per non essere d’accordo con una decisione del loro governo. Se un cristiano, per difendere la propria fede, si vedesse moralmente obbligato ad arrivare a questo, non farebbe nulla di inaudito, pur trattandosi di casi eccezionali.

La politica, per sua natura, esige dibattito, consenso, ricerca di accordi; ma ancor prima richiede prudenza e soprattutto il desiderio di servire il bene comune, di essere onesti. Su queste basi, l’impegno dei politici, anche dei cristiani, consiste nel lavorare seriamente, nello spiegare con chiarezza le proprie ragioni, nel prendere in considerazione la ragione o la parte di ragione degli altri. Per santificare queste attività occorre compierle bene, senza trucchi né cose mal fatte, ma con qualità e carità, correggendosi quando si sbaglia. Per i cattolici gli incarichi politici non devono essere considerati un’attività scomoda, ma una sfida appassionante.

Mi permetta di aggiungere che la maggior parte dei fedeli dell’Opus Dei svolge professioni normali nella società, anche se tutti cercano di scoprire lo splendore che nasconde ogni lavoro compiuto con amore di Dio e desiderio di servire il prossimo.

L’Opus Dei dà un gran valore alla confessione. Eppure questo sacramento in molti Paesi e in alcune Chiese locali sta quasi scomparendo. Quale dev’essere il ruolo della confessione nella vita di chi vuole essere cristiano?

L’Opus Dei non dà “un gran valore” alla confessione, come se fosse una novità del suo messaggio: basta ripassare il Catechismo della Chiesa Cattolica per rendersi conto che è una cosa voluta da Dio e ricordata dalla Chiesa. La Prelatura sente il dovere di ricordare ai fedeli cattolici che la possibilità di accedere a questo sacramento è un grandissimo dono di Dio, di cui dobbiamo essergli grati, e non una fastidiosa imposizione; è un mezzo di cui abbiamo bisogno.

Nella confessione Dio perdona i nostri peccati. La parola “peccato” forse ha un suono forte ai nostri giorni, ma il concetto è valido quanto quello di “coscienza”. Nella vita di ciascuno coesistono il bene e il male e del male dobbiamo rispondere non solo davanti alla giustizia umana, ma soprattutto davanti a Dio. La differenza sta nel fatto che Dio, da parte sua, fa di tutto per perdonarci.

Ripeto, ritengo che la fede ci mostri il sacramento della penitenza come un dono immenso e una liberazione; ci aiuta ad essere realisti e a riconoscere le nostre limitazioni, senza eufemismi; ci fa scoprire l’amore di un Dio che perdona sempre, perché è Padre. Inoltre, essere coinvolti personalmente nella misericordia di Dio è per noi un invito a praticare sinceramente la misericordia con tutti.

Come giudica la cultura contemporanea? La Chiesa ha sempre mantenuto un dialogo con la cultura cercando di evangelizzarla. Quali correnti, in quanto cattolici, possiamo accettare nella cultura contemporanea e quali dobbiamo respingere con decisione?

Non mi sembra giusto esprimere un giudizio sommario sulla cultura contemporanea, perché ogni apprezzamento avrebbe bisogno di tutta una serie di gradazioni. Per ciò che riguarda la seconda parte della domanda, penso che il dilemma dei cattolici non consista nella distinzione tra le correnti della cultura che si possono accettare e le tendenze che si devono respingere. Nel corso della storia i cattolici sono stati più che altro creatori di cultura: sono riusciti con successo a esprimere la fede in forma di filosofia, la speranza in arte, la carità in opere di servizio. La grande responsabilità del cristiano di oggi sta nel manifestare la sua fede con espressioni culturali comprensibili e attraenti per i suoi concittadini.

Penso che il superamento del relativismo, al quale si è riferito diverse volte Benedetto XVI, richieda ai cattolici, e specificamente ai laici, un contributo costruttivo e non solo una denuncia. In particolare, questo si applica a ciò che potremmo chiamare “culture professionali”, che si estendono al di là delle frontiere geografiche: la cultura propria della comunità scientifica o giuridica, quella del mondo del cinema o della moda... I cristiani devono essere presenti in tutte le culture professionali oneste, non tanto per intavolare un dialogo dal di fuori, ma per dare un contributo dal-l’interno: compiere ricerche scientifiche che rispettino la dignità della persona e migliorino la nostra qualità di vita, proporre leggi a salvaguardia della famiglia, ecc.

Volendo usare una immagine, dobbiamo “tradurre” in tutti gli idiomi professionali il grande lessico cristiano, che riassume anche alcuni dei più importanti successi del progresso umano: verità, libertà, bellezza, carità.

Alcuni mesi fa è morto Roger Schutz de Taizé, grande promotore dell’ecumenismo. Come lavora l’O-pus Dei in questo campo? Come deve lavorare ciascuno di noi, in quanto cristiani, per l’unità dei cristiani?

Per ciò che si riferisce al lavoro dell’Opus Dei nel campo dell’ecume-nismo, potrei indicare alcuni aspetti molto diversi, in funzione della condizione dei fedeli della Prelatura. Per esempio, recentemente ho avuto l’op-portunità di partecipare all’ordinazio-ne episcopale di un sacerdote della Prelatura a Tallin, dove sta svolgendo una intensa attività ecumenica, in un clima fraterno, con cristiani non cattolici e anche con credenti di altre religioni.

Però vorrei accennare a un aspetto più istituzionale, molto amato da San Josemaría: i cooperatori dell’Opus Dei che non sono cattolici. Da quando la Santa Sede concesse la sua approvazione, ai tempi di Pio XII, migliaia di persone di tutte le confessioni cooperano con il lavoro dell’Opus Dei nel mondo intero. La collaborazione con la Prelatura significa, ovviamente, un rapporto di affetto con la Chiesa cattolica, un superamento delle differenze, un avvicinamento che prepara la via dell’unità.

Dopo la sua visita in Polonia, come vede il nostro Paese e la Chiesa di questa terra? Quali punti forti possiede il nostro cristianesimo e in quali punti dovremmo migliorare?

Penso che il modo migliore di rispondere alle sue domande sia quello di rileggere i messaggi che Giovanni Paolo II ha indirizzato ai polacchi, specialmente i discorsi pronunciati durante i suoi vari viaggi.

Ho avuto occasione di venire in questa amata terra varie volte, di conoscere molti polacchi, di godere della loro ospitalità. Posso dire che per me la storia della Chiesa in Polonia è uno stimolo continuo. La fortezza nella fede e la lealtà davanti alle difficoltà costituiscono un punto di riferimento. Conforta anche sapere che Dio premia la fedeltà, come è confermato dal fiorire delle vocazioni sacerdotali.

Forse qui sta una delle sfide del momento presente: le circostanze sono cambiate, ora la libertà non è più in gioco, è arrivato il momento di lottare per altri beni. È sempre tempo di fedeltà.

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha incoraggiato molte volte nei cattolici polacchi una “creativa partecipazione nell’ambito europeo”. Quale dev’esssere, secondo lei, il ruolo del cristianesimo della Polonia nell’evan-gelizzazione dell’Europa? In pratica, in che modo dovremmo compiere la missione di evangelizzare l’Europa?

Per ciò che ho appena detto, sono convinto che la Polonia è chiamata a giocare un ruolo di rilievo nella nuova evangelizzazione dell’Europa. Riguardo al modo di compierla, mi sembra fondamentale che ci rendiamo conto chiaramente che siamo invitati a una evangelizzazione che è nuova, come ripeteva Giovanni Paolo II e come ha indicato anche Benedetto XVI: nuova perché, per molti europei, il nostro sarà il primo annuncio che ricevono della buona notizia del Vangelo; e nuova perché dobbiamo trasmettere la fede con un nuovo vigore, con una gioia rinnovata, con entusiasmo. L’Europa non ha solo radici cristiane; ha in sé anche un meraviglioso futuro cristiano.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II in varie occasioni ha avuto incontri con l’Opus Dei e aveva un concetto molto positivo dell’Opera. Fra l’altro, ha portato sugli altari il Fondatore. Nella ricchissima eredità di questo Papa, quali aspetti considera particolarmente importanti? Come potremmo mettere a frutto l’opera che ci ha lasciato?

Giovanni Paolo II ci ha trasmesso una eredità molto ricca. Ci ha lasciato, fra le altre cose, l’esempio della sua coraggiosa coerenza: può sembrare un paradosso, ma penso che sia stato un Papa popolare perché ha saputo essere “impopolare” quando, per difendere la verità, è stato costretto a esserlo.

Giovanni Paolo II era cosciente che Cristo ha salvato tutti gli uomini, e non ha esitato ad annunciare il Vangelo anche nel più sperduto angolo del pianeta. Precorrendo i tempi, ha fatto passi da gigante sulla linea della “globalizzazione” dell’apo-stolato. Il suo esempio ci impedisce di limitare il nostro zelo all’evange-lizzazione dell’Europa o alle frontiere storiche del cristianesimo, ma ci impone di estenderlo dappertutto nel mondo, con magnanimità. La sua figura santa ha messo in rilievo la perenne novità del messaggio cristiano.

In realtà Giovanni Paolo II ci ha lasciato molte altre eredità, tutte di grande ricchezza. Ne ho ricordato solo due perché esse ci mostrano un dono e anche un compito. Per fare fruttare la sua eredità possiamo contare su un altro suo dono: la sua testimonianza di speranza. È vero, la speranza è un dono di Dio, ma si ravviva con l’e-sempio dei santi. E Giovanni Paolo II ci ha offerto giorno dopo giorno, ai nostri tempi, una testimonianza eroica di speranza.

Romana, n. 41, Luglio-Dicembre 2005, p. 286-290.

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