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Specchio della Stampa(Torino) 19-IV-2006 Intervista concessa a “Specchio della Stampa”, Torino.

Di che utilità è per la Chiesa lo statuto di «prelatura personale» concesso, sinora in modo esclusivo, all’Opus Dei? Specificamente: le consente di essere meglio informata da un punto di vista generale sull’evoluzione della società laica e in modo più particolare sulla comunità cattolica?

L’Opus Dei è certamente sino a oggi l’unica prelatura personale in senso stretto; tuttavia nell’ambito della Chiesa vi sono altre circoscrizioni equivalenti sul piano teologico e canonico: penso per esempio alle diocesi, agli ordinariati militari o alla prelatura della Missione di Francia. Si tratta di strutture che non assumono la connotazione geografica come unico criterio di competenza giurisdizionale, donde l’attributo di “personale”. Lo statuto attuale e definitivo dell’Opus Dei corrisponde esattamente alla sua natura. Quando la tua identità è definita con chiarezza, non c’è dubbio che ti sarà più facile essere d’aiuto agli altri, che sapranno chi sei e perché esisti. Quando un abito ti va bene e ti ci trovi comodo è meglio per tutti: e così i fedeli della prelatura vivono in mezzo all’ambiente in cui si trovano, università, ufficio, luoghi di vacanza, e cercano di lavorare bene, ognuno nella propria professione: sono uomini e donne e sono avvocati, medici, giornalisti, artisti, operai. agricoltori, musicisti, militari, insegnanti. Ogni ambiente professionale è luogo di evangelizzazione! Ogni lavoro è davvero un’occasione d’incontro con Dio, come affermava già dal 1928 san Josemaría Escrivá: è il mezzo per amare Dio e comprendere meglio coloro che ci circondano, di partecipare all’opera della creazione e della redenzione attraverso il lavoro.

Ma per la Chiesa qual è l’utilità specifica dell’Opus Dei?

In primo luogo l’Opus Dei, vecchia e nuova come il Vangelo come era solito dire San Josemaría, diffonde un messaggio: Dio chiama tutti gli uomini e tutte le donne ad amarlo e ad amare il loro prossimo, li chiama cioè alla santità e all’apostolato nella vita di tutti i giorni: e ciò non malgrado il lavoro, ma grazie al lavoro, in un mondo dove, come immagine di Dio, l’uomo coopera con lui. È un’avventura d’amore, in qualche modo. Inoltre, l’Opus Dei offre il suo aiuto per rispondere a questo appello divino; la prelatura propone perciò attività di formazione cristiana e la possibilità di un accompagnamento spirituale personalizzato, allo stesso tempo esigente e adeguato alla vita di tutti i giorni. Tutta questa vicenda divina e umana al medesimo tempo, a imitazione di Gesù Cristo, si fonda sulla fiducia nell’amore paterno di Dio, sulla fede in Cristo resuscitato, sull’azione dello Spirito Santo oggi, adesso, in ogni anima. L’Opus Dei, in seno alla Chiesa, come parte del popolo di Dio, cerca pertanto di adempiere questa missione: è una specie di scuola di formazione permanente perché la gente qualsiasi possa incontrare Dio nella propria vita quotidiana e faccia condividere la gioia di questo incontro a colleghi, amici e conoscenti.

Investendo molto nelle scuole, nelle università e nei centri di formazione, l’Opus Dei ha preso un po’ il posto che una volta, nell’insegnamento, occupavano i Gesuiti. Con la differenza che i giovani formati dall’Opus Dei hanno la possibilità in seguito di divenirne membri: che cosa replica a chi assimila tutto ciò a una forma di indottrinamento?

In seno alla Chiesa ci sono diversi carismi che si arricchiscono l’un l’altro per il bene di tutti, preti e laici, diocesi, realtà tra le più disparate: tutti sono utili e complementari, e c’è posto per tutti, nel rispetto della sensibilità di ciascuno. I centri d’insegnamento cui lei si riferisce nascono un po’ come funghi, per iniziativa e sotto la responsabilità di persone concrete, le quali, d’altronde, sono generalmente genitori di allievi, dal momento che sono proprio loro i primi interessati all’educazione dei giovani. L’Opus Dei lì non investe, ma più che altro rispetta la libertà delle persone nella loro vita sociale. Chiunque abbia raggiunto la maggiore età ha la possibilità teorica di far parte dell’Opus Dei: basta che se ne senta attratto per ragioni spirituali, disinteressate, e che verifichi l’effettiva possibilità di realizzarsi al suo interno. Ma è evidente che, a questo fine, è necessario un incontro personale: questo tipo di cose non avviene per telepatia.

L’espressione “reclutamento” si adatta all’esercito o alle aziende, non a una realtà ecclesiale come l’Opus Dei. Il fine dell’Opus Dei, come quello della Chiesa, non è di continuare a espandersi bensì di prolungare la presenza di Cristo nel mondo, di servire le anime fino al ritorno di Nostro Signore. Naturalmente questo comporta la diffusione del messaggio cristiano e particolarmente dell’appello che Dio indirizza a ciascuno nella sua vita quotidiana. Beninteso, l’Opus Dei è apostolica, ma perché, in quanto parte della Chiesa, risale ai primi discepoli di Cristo, che furono “inviati”. Una Chiesa che non fosse missionaria sarebbe un cadavere: “Guai a me”, diceva San Paolo, “se non annunciassi il Vangelo!” (1 Corinzi 9,16). È per questo che il Concilio Vaticano II, quindi Paolo VI nella sua esortazione Evangelii nuntiandi, e infine Giovanni Paolo II con la Redemptoris missio hanno richiamato la necessità dell’impegno cristiano nella predicazione del Vangelo. Gesù invitava chiaramente quelli che incontrava con parole inequivocabili: “Seguimi”. E anche se qualche volta l’invito cadde nel vuoto, come nel caso del giovane ricco, cionondimeno Cristo non rinunciò a invitarlo (Luca 18,22). San Paolo insegna che la fede viene dalla predicazione (Romani 10,17) e non soltanto da una testimonianza di vita, anche se questa ne costituisce un preliminare necessario. L’Opus Dei propone oggi ideali elevati in una società che non è più cristiana, e io mi auguro che la Prelatura continui sempre a farlo. Occorre dunque un minimo di spirito ribelle, il gusto dell’indipendenza, ma anche la generosità di chi aspira a far qualcosa per gli altri: di conseguenza la Chiesa, e l’Opus Dei nel suo grembo, come una minuscola parte della Chiesa stessa, e sulla scia di Cristo, parlano ai giovani. Si può anche dire che è Gesù stesso che parla a ciascuno. Evidentemente un impegno nell’Opus Dei presuppone un lungo percorso di reciproca conoscenza, e molto tempo, per la realizzazione di un’iniziativa che è sempre personale e unica, come ogni persona agli occhi di Dio. La risposta di ciascuno è del tutto libera, ma non è possibile rispondere se non è stata posta alcuna domanda, e il fatto di porre la domanda di un progetto di vita si iscrive nel quadro della carità: fare qualcosa della propria vita, qualcosa che sia utile agli altri. Perché stupirsi di questo in un’epoca in cui tutti gli organismi umani fanno proselitismo, peraltro in modo troppo spesso eccessivo ed estenuante? Pensi al marketing, alle campagne pubblicitarie, agli interventi di sensibilizzazione nei riguardi di un problema sociale, che si tratti di indirizzare verso certi mestieri, di conquistarsi parti di mercato, di aumentare il numero di abbonati a un giornale o di fidelizzarli, di scoraggiare i fumatori o di costringere alla prudenza sulla strada, per non citare altri aspetti, spesso assillanti, e molto meno innocui. Molta gente, non fosse che per un malinteso senso di umiltà, non oserebbe porsi la questione dell’incontro con Dio nel lavoro e nella vita ordinaria se nessuno gli aprisse delle prospettive. Cristo si è incarnato per tutti, non soltanto per qualche iniziato. Ecco un messaggio che non può essere tenuto nascosto.

La maggior parte dei commentatori ha osservato che l’Opera comunicava di più dopo la pubblicazione, tre anni fa, del “Codice da Vinci”, e d’altronde questa intervista ne è la riprova. Pensa come loro che l’Opus Dei, più se ne sa, meglio sta?

Sì. L’ignoranza è sempre un gran male e l’informazione un bene: d’altro canto, la comunicazione non è un gioco e non tollera il dilettantismo. Con il tempo si impara a farsi conoscere meglio e anche a comprendere meglio sé stessi: ci vuole un po’ di pazienza in questo campo.

Qualunque sia l’autonomia finanziaria delle associazioni che fanno capo a membri dell’Opus Dei, dovrebbe essere facile, nell’era dell’informatica, stilarne una lista e calcolare l’ammontare dei fondi che gestiscono. Perché non farlo? È per non accreditare l’idea che l’Opus Dei sia «immensamente ricca» o, invece, proprio per lasciarlo intendere?

La cosa essenziale è l’iniziativa libera e responsabile che nasce dalla base. Quali sono le associazioni gestite dai fedeli della prelatura? È evidente che io non lo so, e neanche i miei collaboratori. Ai miei occhi non esiste nemmeno un simile concetto, è una chimera: ammettendo che sia possibile fare il genere di conto di cui lei parla, se ne ricaverebbe un inventario composito: una mela più due sedie, quanti violini o quanti palloni da calcio fanno? Quali sono le associazioni gestite dai residenti di tutti viali che sì chiamano “viale della Repubblica”, o da chi ha gli occhi verdi e gioca a tennis tutte le settimane? Quanto pesa il loro insieme? Nel pensiero di san Josemaría Escrivá, ogni iniziativa deve essere equilibrata sul piano finanziario, ricorrendo, se necessario, all’aiuto di patronati e donatori regolari. Però l’Opus Dei non interviene e non vuole intervenire, soprattutto in considerazione di un sano principio di autonomia e di rispetto delle competenze: “a ciascuno il suo mestiere, e ogni cosa va a dovere”.

Romana, n. 42, Gennaio-Giugno 2006, p. 89-92.

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