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Roma 9-IV-2008 Nel conferimento di Dottorati honoris causa, Pontificia Università della Santa Croce.

Eminenze ed Eccellenze Reverendissime, Illustrissime autorità, professori, studenti e membri tutti dell’Università, Signore e Signori.

Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, che partecipate al conferimento dei primi Dottorati honoris causa in Comunicazione Istituzionale della nostra Università. Saluto in modo particolare e con grande affetto i nuovi Dottori: Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Camillo Ruini, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma e, per molti anni, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana; e il Chiarissimo Professor Alfonso Nieto Tamargo, che ha collaborato attivamente, anche come docente, alla nascita e sviluppo della Facoltà di Comunicazione Istituzionale.

Nella cerimonia di oggi i meriti dei nuovi Dottori s’intrecciano con la tradizione accademica rappresentata dal tocco, l’anello e la medaglia, simboli della maestria, del prestigio professionale e del vincolo con la nostra comunità universitaria. Ma permettetemi di andare oltre il protocollo e di riflettere brevemente con voi su un compito che corrisponde all’università nelle attuali circostanze storiche.

Alcune parole di San Gregorio Magno ci possono aiutare a considerare come sia antico e profondo il nesso che esiste tra Chiesa e comunicazione. Affermava questo grande Papa, che occupò la Cattedra di Pietro dall’anno 590 al 604, che «nelle chiese si mettono le pitture affinché gli analfabeti, almeno guardando le pareti, leggano quel che non sono capaci di leggere nei codici»[1]. Questa breve osservazione è un buon esempio di come la comunicazione non sia nella Chiesa una scoperta dei nostri tempi. Infatti, sin dall’inizio i cristiani hanno cercato con audacia le vie più efficaci per far arrivare la parola di Dio, in modo comprensibile, al maggior numero di persone, anche a quelle fisicamente lontane. In questo senso si può affermare a ragione che esiste un continuo intreccio fra la storia della Chiesa e la storia della comunicazione, intesa in senso ampio.

Ma la Chiesa non si limita a servirsi dei mezzi di comunicazione per la sua missione di evangelizzazione. Giovanni Paolo II precisava, in un brano molto noto dell’Enciclica Redemptoris missio, che occorre fare di più: integrare lo stesso messaggio cristiano nella «nuova cultura» creata dai mezzi di comunicazione[2]. Il Pontefice aggiungeva, forse per evitare scoraggiamenti oppure facili illusioni, che si tratta di una questione complessa poiché questa «nuova cultura» nasce non tanto dai contenuti ma piuttosto dai nuovi modi di comunicare, dai nuovi linguaggi, dalle nuove tecniche e dai nuovi atteggiamenti psicologici[3]. Penso in effetti che qui si trova uno dei campi di ricerca e di proposta che hanno bisogno di quel lavoro paziente e dell’approccio interdisciplinare che soltanto il clima universitario può offrire.

In questo modo diventa ancora più evidente che l’atto di investitura che ci raduna oggi non interessa soltanto un ambito del sapere, quello della comunicazione, ma anche la teologia, la filosofia, il diritto canonico. E questo non per un senso di comprensibile interdisciplinarietà accademica, ma per la stessa natura delle cose. L’invito di Giovanni Paolo II è oggi più attuale che mai. Bisogna realizzare nella nostra epoca quella sintesi tra messaggio, mezzo di comunicazione e contesto culturale che molte delle generazioni che ci hanno preceduti sono riuscite a compiere.

Dice un accademico della comunicazione: «Che cosa succede se mettiamo una goccia di colorante rosso in una provetta da laboratorio piena di acqua cristallina? Otterremo acqua cristallina più una goccia di colorante rosso? Ovviamente, no. Otteniamo una nuova colorazione in ogni molecola d’acqua. Un nuovo mezzo non aggiunge qualcosa: cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non avevamo la vecchia Europa più la stampa. Avevamo un’Europa diversa»[4].

Ci possiamo domandare adesso se questa metafora del colorante non ha anche il senso dell’effetto che lo spirito cristiano produce nelle acque — a volte torbide — della nostra cultura. Ma come integrare il messaggio cristiano nella «nuova cultura» creata dai mezzi di comunicazione? Lo stesso Giovanni Paolo II ci propone il modo: «Occorrono araldi del Vangelo esperti in umanità, che conoscano a fondo il cuore dell’uomo di oggi, ne partecipino gioie e speranze, angosce e tristezze, e nello stesso tempo siano dei contemplativi innamorati di Dio. Per questo occorrono nuovi santi»[5].

In continuità con quest’idea, vorrei sottolineare un aspetto sul quale insiste Papa Benedetto XVI, cioè il senso positivo del messaggio cristiano. Lo diceva esplicitamente ad alcuni giornalisti di lingua tedesca qualche mese dopo la sua elezione: «Il cristianesimo, il cattolicesimo, non è un cumulo di proibizioni, ma un’opzione positiva. Ed è molto importante che lo si veda nuovamente, poiché questa consapevolezza oggi è quasi completamente scomparsa. Si è sentito dire tanto su ciò che non è permesso, che ora bisogna dire: ma noi abbiamo un’idea positiva da proporre»[6].

San Josemaría Escrivá, dal cui cuore sacerdotale e dalla cui vocazione universitaria è nata la Pontificia Università della Santa Croce, ebbe sempre una chiara percezione del gran servizio umano e cristiano che i professionisti della comunicazione possono svolgere.

Non a caso nell’anno accademico 1940-1941 accettò di impartire, su richiesta di un amico e con l’incoraggiamento del Vescovo di Madrid, lezioni di etica e deontologia in quella che sarebbe diventata poi la Scuola Ufficiale di Giornalismo. Sosteneva che i figli di Dio devono essere presenti con professionalità, identità cristiana e amore alla verità nei luoghi dove si configura l’opinione pubblica. «È difficile — ricordava questo santo sacerdote — che ci sia vera convivenza là dove manca vera informazione; e la vera informazione è quella che non ha paura della verità e non si lascia guidare da interessi di potere, di falso prestigio o di lucro»[7].

Pensando al nome di questa Università, mi piace ricordare che San Josemaría nella croce vedeva sempre il segno del positivo, della somma, del seminare pace e gioia, senza per questo chiudere gli occhi alla realtà, tante volte lontana da Cristo. Perciò insisteva nel dire: «Compito del cristiano: annegare il male nella sovrabbondanza del bene. Non si tratta di far campagne negative né di essere antiqualcuno. Al contrario: vivere di affermazioni, pieni di ottimismo, con gioventù, allegria e pace; guardare tutti con comprensione: quelli che seguono Cristo e quelli che lo abbandonano o non lo conoscono. — Ma la comprensione non significa astensionismo, né indifferenza, bensì azione»[8].

Quest’azione, nell’ambito accademico, significa coniugare il dono gratuito della fede con lo sforzo quotidiano nello studio razionale di tutti i saperi coinvolti nella comunicazione. Così saremo in grado di «rendere amabile la verità», come ci consigliava il nostro primo Gran Cancelliere, S.E. Mons. Álvaro del Portillo, nel titolo di un libro che raccoglie diversi suoi scritti insieme ad alcuni dei suoi interventi in questa Università. Che gratitudine dobbiamo a questo Vescovo, tanto esemplare per il suo servizio alla Chiesa e alle anime! Seguendo il suo esempio, affidiamo questi propositi al Signore e a Santa Maria, Sede della Sapienza.

Grazie.

[1] SAN GREGORIO MAGNO, Al vescovo Sereno, Dz 477, PL 77, 1128BC-1129C.

[2] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, n. 37.

[3] Ibidem.

[4] NEIL POSTMAN, «Defending Ourselves Against the Seductions of Eloquence», in K. Dyson e W. Homolka, Eds., Culture First! Promoting Standards in the New Media Age, Cassel, London, 1996, p. 34.

[5] GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Simposio del Consiglio della Conferenza Episcopale Europea, 11-X-1985.

[6] BENEDETTO XVI, 5 agosto 2005.

[7] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Colloqui con Mons. Escrivá, n. 86.

[8] SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 864.

Romana, n. 46, Gennaio-Giugno 2008, p. 95-97.

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