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Lo sviluppo delle società

Bernardo M. Villegas

Dottore in Scienze Economiche dell’Università di Harvard

Vicepresidente della Ricerca nella University of Asia and the Pacific (UA&P;)

Presidente del Center for Research and Communication

Introduzione

Sviluppo è una parola dai diversi aspetti, che è usata sia dagli studiosi delle scienze sociali, sia da quelli che elaborano progetti politici e da quelli che li mettono in atto. Per distinguere le varie sfumature del termine gli si applicano alcuni aggettivi: sviluppo economico, sviluppo sostenibile, sviluppo umano e sviluppo socio culturale.

In questo saggio mi propongo di presentare le differenti interpretazioni che si danno alla parola sviluppo, cominciando dai programmi delle agenzie internazionali e dei governi nazionali; poi esaminerò questi programmi alla luce della dottrina sociale della Chiesa. E infine citerò alcuni esempi di iniziative che possono contribuire a ottenere un autentico sviluppo umano in tutto il mondo e che si ispirano agli insegnamenti di San Josemaría, Fondatore dell’Opus Dei.

Gli obiettivi dello sviluppo per il millennio (The Millennium Development Goals, MDG)

Da quando il Papa Paolo VI ha proclamato che lo «sviluppo deve essere [...] volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» ( Populorum progressio, 14), molto hanno fatto i leader di tutto il mondo per passare da un progresso unicamente economico (misurato dal PIL di una Nazione) a uno sviluppo umano integrale. Uno dei maggiori sforzi è quello delle Nazioni Unite, che ha mobilitato tutti gli Stati membri per la realizzazione di ciò che è stato chiamato Millennium Development Goals. Il documento MDG riproduce un progetto che si estende a tutti gli aspetti dello sviluppo umano, approvato da tutti gli Stati membri e da importanti istituzioni dello sviluppo.

Gli otto obiettivi di MDG sono: (1) sradicare l’estrema povertà e la fame; (2) arrivare all’insegnamento primario universale; (3) promuovere l’uguaglianza dei generi (maschile e femminile) e l’autonomia della donna; (4) ridurre la mortalità infantile; (5) migliorare la salute della madre; (6) combattere l’AIDS, la malaria e altre malattie; (7) garantire un clima vivibile; (8) incentivare un’associazione mondiale per lo sviluppo.

Nel 2006 l’ONU ha pubblicato un rapporto sul modo in cui si stanno raggiungendo questi obiettivi. In quanto all’obiettivo (1), l’Asia è in testa alla diminuzione della povertà globale. Dal 1990 al 2002, la percentuale della povertà estrema è scesa rapidamente in quasi tutta l’Asia, dove il numero di persone che guadagnano meno di un dollaro al giorno si è ridotto a un quarto di milione, quasi tutte in Cina. Il progresso non è stato altrettanto rapido in America Latina e nei Caraibi, dove c’è una proporzione di gente povera maggiore che nel Sud-Est asiatico e in Oceania. Tra il 1990 e il 2002, il tasso di povertà nell’Asia occidentale e nel Nord Africa è rimasto uguale, ma è cresciuto nelle economie di transizione del Sud-Est europeo e nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Nell’Africa subsahariana, anche se il tasso di povertà è diminuito leggermente, il numero di persone che vivono in estrema povertà è aumentato a 140 milioni di unità. La buona notizia è che molti Paesi subsahariani mostrano segni di crescita a lungo termine, e questo potrebbe migliorare la qualità della vita.

José Antonio Ocampo, sottosegretario generale per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, ha scritto nell’introduzione del rapporto: «Siamo consapevoli che la disparità del progresso fra gli Stati, e all’interno di essi, è enorme, e che i più poveri generalmente si trovano in aree remote e vanno sempre più indietro. Si può e si deve fare molto di più sia per i Paesi sviluppati, sia per quelli che si trovano nella fase dello sviluppo, mediante un uso più incisivo degli aiuti esterni e l’impiego delle risorse locali».

I modelli di sviluppo

Negli ultimi 50 anni, i Paesi che sono riusciti a migliorare gli obiettivi di MDG, specialmente lo sradicamento della povertà estrema e della fame, e l’educazione primaria di tutti, sono le “economie miracolose” dell’Asia orientale, vale a dire Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Hong Kong. In una sola generazione queste regioni sono passate dalla condizione terzomondista a quella di Paesi industrializzati che praticamente hanno sradicato la povertà e la disoccupazione. Secondo il parere del famoso economista nordamericano Paul Krugman nel suo articolo intitolato “Il mito del miracolo asiatico”, la spettacolare crescita delle economie dell’Asia orientale negli ultimi 30 anni del XX secolo e il rendimento attuale delle economie giganti della Cina e dell’India devono essere attribuiti soprattutto al massiccio e intelligente uso delle risorse umane. E questo conferma l’esperienza secondo cui le persone sono la migliore risorsa di qualunque società. Nonostante i progressi spettacolari ottenuti dalla tecnologia negli ultimi anni, il lavoro umano continua a essere, oggi come ieri, il primo motivo del successo delle economie emergenti.

In riferimento al molto esaltato “miracolo economico” di Singapore tra il 1966 e il 1990, Krugman afferma che «il miracolo si è basato su un caso di traspirazione più che di inspirazione. Singapore è cresciuta grazie a un’accumulazione di risorse. La percentuale dell’occupazione è salita dal 27 al 51%. La media del grado di educazione degli impiegati ha fatto un grande salto: nel 1966 più della metà dei lavoratori non avevano ricevuto nessuna educazione formale, ma nel 1990 due terzi di essi erano in possesso di un’educazione secondaria».

Questa mobilitazione massiccia di risorse umane è stata resa possibile dagli alti obiettivi dei funzionari pubblici, che hanno concesso una grande libertà d’iniziativa economica alle persone. Oltre a rispettare le forze del mercato, nei limiti ragionevoli, lo Stato di ognuna di queste economie dell’Asia orientale ha svolto un suo ruolo insostituibile nella costruzione di infrastrutture e ha vegliato sulla pace, sull’ordine e sull’amministrazione della giustizia. Lo Stato ha tenuto a freno i livelli fiscali e monetari dell’economia, controllando l’inflazione e incoraggiando un’alta percentuale di risparmi familiari. Gli investimenti pubblici sono stati diretti, con ottimo criterio, verso la diffusione dell’educazione e la sicurezza sociale. Volendo usare una terminologia occidentale, si potrebbe dire che invece di adottare i sistemi duri del capitalismo, hanno saputo miscelare la politica sociale con le forze del mercato. E, forse senza proporselo, hanno seguito il modello di mercato sociale dei tedeschi sotto Konrad Adenauer.

In contrasto con queste fiorenti economie dell’Asia orientale, quasi tutte le economie latinoamericane hanno seguito un modello socialista e interventista che ha soffocato quasi tutte le iniziative dovute alla libertà economica, con eccessivi controlli e con politiche protezioniste e ultranazionaliste. Questo modello ha generato un’infinità di industrie inefficienti e ha trascurato gravemente lo sviluppo agricolo, a detrimento delle masse di popolazione che vivevano nelle campagne. Negli ultimi dieci anni del secolo passato, molti di questi Paesi, insieme con India e Cina, hanno imparato la lezione e hanno cominciato a introdurre un maggior numero di politiche orientate al mercato con gradi diversi di deregolamentazione, privatizzazione e liberalizzazione. Oggi le grandi economie emergenti, per le quali si può prevedere un autentico sviluppo nei prossimi vent’anni, sono Brasile, Russia, India, Cina e nazioni del Sud-Est asiatico come Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Nei circoli finanziari queste nazioni cominciano a essere indicate con le iniziali BRICA (Brasile, Russia, India, Cina e Paesi del Sud-Est asiatico). Tutte quante hanno come denominatore comune una particolare attenzione alla libertà di iniziativa economica e a uno Stato socialmente responsabile, che con audacia crea un attraente clima di investimenti offrendo adeguate infrastrutture, stabilità macroeconomica e capacità di governo.

La dottrina sociale della Chiesa

È assai probabile che queste economie emergenti si trovino tra quelle che entro l’anno 2015 raggiungeranno gli obiettivi del MDG, come la Cina ha dimostrato negli ultimi vent’anni. Però la dottrina sociale della Chiesa si propone obiettivi più alti, in modo tale che vi sia un autentico sviluppo dell’uomo. Come ha scritto il Papa Paolo VI nella Populorum progressio (21), per tale sviluppo occorre superare i minimi fisici ed educativi dell’essere umano, evitando «le strutture oppressive, sia che provengano dagli abusi del possesso che da quelli del potere, dallo sfruttamento dei lavoratori che dall’ingiustizia delle transazioni». Lo sviluppo diventa più umano se aumenta la considerazione della dignità degli altri, se lo si orienta con spirito di povertà cooperando al bene comune con la volontà di promuovere la pace.

Fa diventare lo sviluppo «più umano ancora il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine. Più umano, infine, soprattutto la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo, e l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini».

Queste parole del Papa Paolo VI ci ricordano che il bene comune non si può definire come “il maggior bene per il maggior numero di persone”, un pericoloso principio condiviso da molte pseudodemocrazie. È più corretto definire la democrazia come un ordine giuridico o sociale che permette a ogni membro della società di ottenere il suo massimo sviluppo economico, politico, culturale, sociale e spirituale. Lo sviluppo deve portare benefici a ogni singola persona nel suo corpo e nella sua anima.

I cristiani non dovrebbero esitare a mettere in primo piano l’importanza della dimensione religiosa dello sviluppo umano. Dovrebbero proporre, senza imporla, la verità che Dio ha un progetto d’amore per la persona umana. Secondo quanto si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (34), «nella comunione d’amore che è Dio, nel quale le tre Persone divine si amano reciprocamente e sono l’Unico Dio, la persona umana è chiamata a scoprire l’origine e la meta della sua esistenza e della storia. I Padri Conciliari, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes (24), insegnano che “il Signore Gesù, quando prega il Padre ‘perché tutti siano una cosa sola... come noi’ ( Gv 17,21-22), prospettando mete impervie alla ragione umana, accenna a una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, che è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per sé stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non nel dono sincero di sé (cfr. Lc 17,33)”».

In realtà, nei nn. 24 e 25 della Gaudium et spes troviamo un progetto che va molto oltre le aspirazioni di Millennium Development Goals. In maniera sistematica esso presenta i temi della cultura, della vita economica e sociale, del matrimonio e della famiglia, della comunità politica, della pace e della comunione dei popoli, alla luce della antropologia cristiana e della missione della Chiesa. La persona è sempre il punto di partenza e il punto di vista attraverso il quale si considera il resto. Questo documento sottolinea continuamente la verità che l’uomo è l’unica creatura che Dio ha voluto per sé stessa. Per la prima volta il Magistero della Chiesa, al suo più alto livello, parla diffusamente dei differenti aspetti temporali della vita cristiana. Non dovrebbe sorprendere che l’attenzione dedicata dalla Gaudium et spes ai cambiamenti psicologici, politici, economici, morali e religiosi abbia stimolato l’interesse pastorale della Chiesa per i problemi umani e la sua partecipazione alle questioni temporali.

Oltre che la celebre definizione dell’autentico sviluppo umano, di Paolo VI viene spesso citata un’altra frase della sua Enciclica Populorum progressio (76, 87): «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Il Papa delinea uno sviluppo integrale dell’uomo, che sia solidale con tutta l’umanità (21, 42). Questi due temi devono essere considerati come gli assi sui quali l’Enciclica si struttura. Il Papa, nel suo desiderio di convincere il lettore dell’urgente necessità di un’azione solidale, presenta «il vero sviluppo come il passaggio da condizioni di vita meno umane a condizioni più umane» e poi comincia a indicare quali sono le relative caratteristiche. Tale passaggio o transizione non si limita alle dimensioni economiche e tecnologiche, ma comporta per ogni persona l’acquisizione della cultura, il rispetto della dignità degli altri, il riconoscimento del bene supremo e dello stesso Dio, autore di tutte le benedizioni. Dev’essere uno sviluppo che porti benefici a tutti, che risponda alla domanda di giustizia su scala universale, che garantisca la pace mondiale e renda possibile l’acquisizione di un “umanesimo completo”, guidato dai valori spirituali.

Se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, allora il lavoro umano è il cammino per lo sviluppo, come hanno dimostrato i percorsi virtuosi delle economie dei Paesi dell’Asia orientale di cui abbiamo parlato in precedenza. Nell’Enciclica Laborem exercens (1981), il Papa Giovanni Paolo II si riferisce al lavoro come a un bene fondamentale della persona umana, come il primo elemento della sua attività economica e la chiave di tutta la questione sociale. La Laborem exercens (6) spiega a grandi linee la spiritualità e l’etica del lavoro nel contesto di una profonda riflessione teologica e filosofica. Il Papa sottolinea che il lavoro dev’essere concepito non solo in un senso oggettivo e materiale; non si può perdere di vista, infatti, la sua dimensione soggettiva, in quanto è sempre un’espressione della persona, per quanto servile e umile possa essere un dato lavoro in un senso oggettivo. Inoltre, essendo il lavoro il paradigma decisivo della vita sociale, possiede tutta la dignità per entrare in quel contesto in cui la vocazione naturale e soprannaturale della persona deve trovare il suo compimento.

Un’altra intuizione originale di Giovanni Paolo II, che può essere considerata come un altro mezzo per ottenere uno sviluppo autenticamente umano, è l’aver aggiunto “la libertà di iniziativa economica” nella lista dei diritti umani. Nella sua Enciclica Centesimus annus (1991), il Papa descrive l’iniziativa economica come un’espressione dell’intelletto umano, e parla della necessità di rispondere alle necessità umane in maniera creativa e cooperativa (cfr. n. 32). Creatività e cooperazione sono i segni dell’autentico concetto di competizione commerciale: qui competere vuol dire cercare insieme le soluzioni più appropriate per rispondere nel miglior modo possibile alle necessità che si presentano. Il senso di responsabilità che emerge dalla libera iniziativa economica appare non solo come una virtù individuale indispensabile per una crescita umana individuale, ma anche come una virtù sociale necessaria per lo sviluppo solidale di una comunità. Citando l’Enciclica Centesimus annus, al n. 343 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa si legge: «In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna».

Le strategie di sviluppo ispirate in San Josemaría

San Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, sempre unito al Magistero della Chiesa, rafforzò, e in certi aspetti anticipò, la dottrina sociale della Chiesa, apportando soluzioni concrete agli obiettivi di un autentico sviluppo umano. Cinquantatré anni prima della Laborem exercens, San Josemaría aveva già cominciato a predicare intorno al valore santificante del lavoro ordinario. In un’intervista pubblicata sulla rivista spagnola Palabra (ottobre 1967), spiegò che nell’espressione “lavoro santificante” «sono impliciti concetti fondamentali propri della teologia della creazione. Quel che ho sempre insegnato — da quarant’anni a questa parte — è che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale, deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della Volontà di Dio e al servizio degli uomini). Infatti, svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali — manifestando la loro dimensione divina — e viene assunto e incorporato nell’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all’ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei».

Il lavoro umano è assolutamente indispensabile per lo sviluppo umano di ogni individuo. Come ripeteva San Josemaría, ogni persona deve santificare il proprio lavoro, santificarsi nel proprio lavoro e santificare gli altri attraverso il proprio lavoro. Il lavoro, oltre a essere un obbligo personale, è anche un compito comunitario e un arricchimento del bene comune. Fin dall’inizio del suo lavoro apostolico nell’Opus Dei nel 1928, San Josemaría ha predicato ciò che dice il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (n. 264) quasi cinquant’anni dopo: «Nessun cristiano, per il fatto di appartenere a una comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e di vivere a spese degli altri (cfr. 2 Ts 3,6-12); tutti, piuttosto, sono esortati dall’Apostolo Paolo a farsi “un punto di onore” nel lavorare con le proprie mani così da “non aver bisogno di nessuno” (1 Ts 4,11-12) e a praticare una solidarietà anche materiale, condividendo i frutti del lavoro con “chi si trova in necessità” ( Ef 4,28). San Giacomo difende i diritti conculcati ai lavoratori: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti” ( Gc 5,4). I credenti devono vivere il lavoro con lo stile di Cristo e renderlo occasione di testimonianza cristiana “di fronte agli estranei” (1 Ts 4,12)».

San Josemaría ha dedicato gran parte della sua vita a insegnare e incoraggiare molte persone di tutto il mondo a contribuire al bene comune col proprio lavoro ordinario. Alcuni esempi di queste iniziative private imbevute dello spirito di solidarietà, che caratterizzano gli insegnamenti di Giovanni Paolo II nella Laborem exercens e nella Centesimus annus, si trovano in una collana di libri intitolata La grandezza della vita ordinaria, pubblicata dalla Pontificia Università della Santa Croce nel 2002, in occasione del centenario della nascita di San Josemaría.

Nell’introduzione al volume XI, il Dott. Carlos Cavallé, in riferimento alla frase incisiva “materialismo cristiano”, coniata da San Josemaría, ha scritto ciò che segue: «L’umanesimo cristiano assegna una priorità al benessere spirituale — che si raggiunge come risultato dello sforzo per ottenere l’unione con Dio — rispetto al benessere materiale. Però, contemporaneamente, insiste nel cercare la sintesi inseparabile tra i due, dato che è proprio attraverso le cose create, e attraverso le attività oneste di ogni tipo che si compiono nel mondo, che la maggioranza dei comuni cristiani possono e debbono arrivare all’unione con Dio. Questo “materialismo” cristiano è al centro del messaggio del Beato Josemaría.

«Se ci riferiamo al settore delle imprese, tema focale di questo workshop, noteremo che il messaggio del Beato è chiaro ed eloquente. Nel sottolineare l’aspirazione e il dovere di tutti i cristiani di situare Cristo sulla vetta di tutte le attività umane (cfr. Colloqui, 59), sta dicendo agli imprenditori e ai dirigenti che il loro desiderio di contribuire attraverso l’impresa — ciascuno in misura delle proprie possibilità — a costruire e migliorare la società civile, e a creare e distribuire ricchezza nel modo giusto ed equo, deve essere accompagnato dalla necessaria capacità professionale, dallo spirito di servizio che richiede di mettere gli altri in primo piano, e dalla nobile ambizione di avvicinare tutti gli uomini a Cristo. Queste sono le idee che il Beato Josemaría non solo predicò in tutto il mondo, ma visse personalmente in grado eroico, come la Chiesa ha dichiarato solennemente».

San Josemaría aveva capito chiaramente il concetto di libertà di iniziativa che poi è sottolineato negli scritti di Giovanni Paolo II, specialmente nella Sollicitudo rei socialis (1987). Però egli considerava tale libertà non solo dal punto di vista di chi si aspetta un legittimo guadagno dalla produzione e dalla vendita di beni e servizi, ma anche come il diritto dell’imprenditore di contribuire al bene comune attraverso alcune iniziative non rimunerative. San Josemaría incoraggiò diversi imprenditori a fondare scuole commerciali in molte parti del mondo, con l’obiettivo di formare uomini e donne d’affari che si dedicassero a operare a favore di una società giusta e umana, pur continuando a gestire e accrescere le proprie aziende con la migliore competenza professionale e responsabilità sociale. La prima di queste scuole fu lo IESE (Istituto di Studi Superiori d’Impresa), che iniziò l’attività a Barcellona nel 1958, direttamente stimolata da San Josemaría. Oggi lo IESE, facoltà di scienze commerciali dell’Università di Navarra, è considerato uno dei migliori istituti del mondo nel suo genere. The Economist lo ha indicato come numero uno fra gli istituti che concedono il MBA (Master in Business Administration). Ciò che distingue lo IESE è l’impegno per promuovere, in tutti i partecipanti ai vari programmi, un serio impegno verso il bene comune, come si deduce dagli insegnamenti di San Josemaría.

Le parole dell’attuale decano dello IESE, Dott. Jordi Canals, apparse in uno studio di introduzione al MBA, che qui citeremo, riflettono bene lo spirito di solidarietà che San Josemaría volle che i leader incarnassero nella loro missione corporativa. “Lo IESE ha una riconosciuta storia di innovazioni. È stato il primo a istituire in Europa un MBA di due anni, e il primo nel mondo nell’offrire un MBA bilingue. Oggi lo IESE è considerato uno dei migliori Istituti del Commercio, con sedi a Madrid e Barcellona e con attività pionieristiche in Africa, Asia, Europa, America Latina e Stati Uniti. Ci proponiamo di trasformare i commerci e la società attraverso l’educazione alla gestione delle imprese e il miglioramento della gestione, contribuendo così a creare un mondo migliore formando migliori leader: persone con grandi ambizioni e grande spirito di servizio, che, fornite di tecnica e di competenza, siano capaci di stabilire una differenza”.

L’esperienza dello IESE è servita per fondare altri istituti commerciali; per esempio, IPADE in Messico, IAE in Argentina e la Lagos Business School in Nigeria. In questo mondo dall’economia globalizzata, gli imprenditori più importanti possono essere assai più efficaci degli organismi governativi nel promuovere il bene comune internazionale.

Nel contesto di un Paese come le Filippine, io stesso sono stato coinvolto in un’altra istituzione promossa direttamente da San Josemaría. Mi riferisco al Center for Research and Communication (CRC), un gruppo di esperti ( think tank) privato e scuola di master, che ha formato professionisti in economia aziendale, mass media, politica ed educazione, rendendoli consapevoli del loro obbligo di contribuire al bene comune delle Filippine. Nel volume della collana La grandezza della vita ordinaria al quale ho fatto riferimento ho scritto che il CRC è stato uno strumento per stimolare i professionisti, e in particolare gli imprenditori, a promuovere il bene comune attraverso il Makati Business Club. Questo Club “è nato dagli sforzi di un piccolo gruppo di manager commerciali che avevano ricevuto una intensa formazione nella dottrina sociale della Chiesa Cattolica negli anni ’70, durante un corso di alta direzione proposto dal CRC, un’attività professionale in cui la formazione dottrinale è affidata all’Opus Dei”.

Tutti i partecipanti ai programmi del CRC si sono resi conto sino in fondo della necessità che il mondo degli affari debba attuare il principio di solidarietà allo scopo di promuovere il bene di tutta la società, uno dei temi preferiti da San Josemaría. Quello che avevano udito di questo Santo lo hanno visto confermato nel documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, nel quale si dice chiaramente che nessuno può considerare i beni materiali come appartenenti solo a sé stesso. I beni, anche se in molti casi sono proprietà privata, devono essere usati a beneficio di tutti. La proprietà privata deve avere sempre una funzione sociale.

Il Makati Business Club, fondato nel 1981, ha ora circa 800 membri della comunità imprenditoriale e si distingue dalla tradizionale Camera di Industria e Commercio, che generalmente promuove i beni inalienabili di gruppi privati. Lo MBC ha fatto proprie alcune cause del bene comune, come le riforme democratiche, lo sradicamento della povertà o il miglioramento del governo. Negli ultimi vent’anni ha contribuito a sensibilizzare gli imprenditori filippini riguardo alla loro responsabilità nell’usare i propri talenti e le proprie risorse per promuovere lo sviluppo umano di tutti i membri della società e di ognuno di essi.

La formazione dei giovani e dei lavoratori

Le generazioni giovani erano la pupilla degli occhi di San Josemaría. Stimolò un ampio ventaglio di iniziative per preparare i giovani — di qualunque professione e occupazione — al loro futuro lavoro, aiutandoli a considerare il lavoro come un contributo a un autentico sviluppo umano. In completa sintonia con la dottrina contenuta nella Laborem exercens del Papa Giovanni Paolo II, questi progetti estesi a tutto il mondo sono rivolti a studenti universitari o a giovani lavoratori che stanno acquistando una formazione tecnica.

Quasi nello stesso periodo in cui il CRC cominciava nelle Filippine, San Josemaría chiese a un professionista italiano di grande esperienza nella formazione di studenti universitari di fondare l’Istituto per la Cooperazione Universitaria (ICU). Questa istituzione ha mobilitato i talenti e la generosità di migliaia di studenti universitari di tutto il mondo allo scopo di innalzare il livello dei meno privilegiati, specialmente in America Latina, Asia e Africa. In uno studio del compianto Dott. Umberto Farri, apparso nel IX volume della collana La grandezza della vita ordinaria, si descrive come ebbe origine l’ICU: “Nella primavera del 1966 lasciai la direzione della RUI. Il Beato Josemaría mi aveva chiesto di occuparmi, insieme a lui, più direttamente, dell’attività di formazione universitaria a livello internazionale. Pensava che la vasta esperienza raccolta in quegli ultimi anni in tante residenze universitarie, centri culturali e accademie in diverse parti del mondo, potesse costituire un filo conduttore che contribuisse a individuare e affrontare i diversi problemi universitari che si andavano proponendo nel mondo e che avevano bisogno anzitutto di un’analisi serena e poi delle soluzioni educative. Era urgente cooperare a livello internazionale affinché gli universitari s’interessassero dei loro problemi, affinché capissero in un modo sereno e costruttivo i diversi modi di vedere le cose. Senza altri preamboli, ma con un profondo scambio di idee e di esperienze fra i giovani docenti universitari dei diversi atenei italiani e di altri Paesi europei, e per rispondere ai suggerimenti del Beato Josemaría, furono redatte le linee programmatiche dell’ICU, l’Istituto di Cooperazione Universitaria, durante un Congresso che ebbe luogo a Villa Falconieri [...]. I partecipanti furono anche a livello individuale l’obiettivo primario e immediato dell’ICU, un’associazione di universitari volta a favorire in scala internazionale la cooperazione e lo sviluppo attraverso progetti di formazione, di ricerca e di insegnamento per affrontare le nuove sfide dell’università nel mondo, con una particolare attenzione alle necessità dei Paesi di recente indipendenza”.

Da quel momento, l’ICU è diventato un canale attraverso il quale studenti universitari, lavorando sotto la supervisione di professionisti esperti, con i loro talenti, le loro risorse materiali e il loro tempo, possono dare un contributo alla promozione di opere sociali in Paesi in via di sviluppo, come Perù, Filippine, Cina e Vietnam.

Senza la pretesa di essere esaustivi, un altro esempio di come San Josemaría è stato una sorgente di ispirazione per un’impresa che ha implicazioni di grande portata nella vita contadina dei Paesi in via di sviluppo sono le Scuole Agricole Familiari. Come abbiamo scritto all’inizio sui modelli di sviluppo, tutti gli economisti sono d’accordo sul fatto che la povertà di massa è direttamente collegata alla povertà rurale o alla incapacità degli agricoltori di condurre una vita decente in campagna. In tutti i settori economici, il fattore più decisivo per porre rimedio alla povertà nelle aree rurali è il capitale umano, e in particolare l’educazione e la formazione dei giovani nel settore agricolo.

Nel loro libro Roturar y sembrar (Dissodare e seminare), Felipe González de Canales e Jesús Carnicero descrivono l’importantissimo ruolo svolto da San Josemaría nel diffondere in tutto il mondo le Scuole Agricole Familiari (EFA). «Questa preoccupazione per i contadini, per la loro dignità, si traduceva nella necessità di adottare alcuni progetti che permettessero ai contadini stessi di mettere radici nei paesi, evitando così la tentazione di cercare in città quello che non avevano in campagna. Era chiaro che questi progetti miravano soprattutto ai giovani, ma senza trascurare i loro genitori.

«Scegliere i giovani come principali destinatari del lavoro delle EFA, che sarebbero sorte tre o quattro anni dopo, aveva i suoi motivi: evitare che abbandonassero le campagne, privandole delle migliori risorse, e allo stesso tempo mettere a loro disposizione mezzi culturali e professionali adeguati per porli nelle condizioni di costruire un futuro per sé e per i loro figli.

«Il Fondatore dell’Opus Dei questo l’aveva molto chiaro. Già nel 1930 aveva descritto il lavoro che avrebbero svolto i suoi figli per rendere degna la vita e il lavoro alle famiglie contadine...

«San Josemaría si rallegrò molto nel constatare che gli alunni venivano formati in un clima di libertà e di responsabilità e che i tutor vivevano con loro e li educavano con autorità, ma senza autoritarismo. Chiedeva loro informazioni sul coinvolgimento dei genitori, sulla convivenza familiare, sui risultati umani e professionali e su eventuali ripercussioni sui paesi della regione nel loro insieme. San Josemaría considerava la EFA come uno strumento per aiutare gli agricoltori attraverso la formazione che veniva loro impartita e il dinamismo che avrebbero impresso in tutto l’ambiente grazie al loro carattere associativo e di stimolo per la società. “L’attività che volete impiantare vi farà compiere, attraverso le Associazioni di Genitori, una grande catechesi che si estenderà all’insieme della società rurale”. E chiarì che, data l’estensione e l’implicazione di persone e data la ripercussione che avrebbe avuto nella società contadina, questa sarebbe stata una iniziativa personale, non corporativa, dell’Opus Dei».

Conclusione

Le iniziative promosse direttamente da San Josemaría e le altre innumerevoli sorte in tutto il mondo come risultato dello spirito cristiano dell’Opus Dei si adeguano perfettamente all’ideale di un autentico sviluppo umano, come è definito nelle Encicliche sociali: sviluppo di tutti gli uomini e per ogni uomo. Egli ha sempre insistito sul fatto che di cento di anime un cristiano dev’essere interessato ad aiutarne cento. Prima che la frase “crescita sostenibile” diventasse di moda, San Josemaría aveva in mente il benessere materiale e spirituale non solo della generazione presente, ma di tutti gli esseri umani che avrebbero riempito il pianeta sino alla fine del mondo. Come diceva a Ted Szulc il 7 ottobre 1966, in una intervista per il New York Times (Colloqui con Monsignor Escrivá, n. 57): “L’Opus Dei è ancora molto giovane. Trentanove anni per una istituzione sono appena l’inizio. Il nostro compito è di collaborare con tutti gli altri cristiani nella grande missione di essere testimoni del Vangelo di Cristo; di ricordare che la buona novella può vivificare qualsiasi situazione umana. Il lavoro che ci attende è grande. È un mare senza sponde, perché finché ci saranno uomini sulla terra, per quanto cambino le forme tecniche della produzione, essi avranno pur sempre un lavoro da poter offrire a Dio, da poter santificare. Con la grazia di Dio, l’Opera vuole insegnare loro a fare di questo lavoro un servizio rivolto a tutti gli uomini di qualunque condizione, razza e religione. Servendo così gli uomini, serviranno Dio”.

Bibliografia

Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, 2005

Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 1981

Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 1987

Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 1991

Concilio Vaticano II, Gaudium et spes

Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2004

San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa

San Josemaría Escrivá, Colloqui con Monsignor Escrivá

United Nations Development Program - Human Development Report, 2006

United Nations - The Millennium Development Goals Report, 2006

Paul Krugman, The Myth of Asia’s Miracle, web it.edu/krugman/www/myth.html

Felipe González de Canales e Jesús Carnicero, Roturar y sembrar, 2005

La grandezza della vita ordinaria, Vol. IX e XI, Ed. Univ. della Santa Croce, 2003

Ángel Rodríguez Luño, “La formazione della coscienza in materia sociale e politica secondo gli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá”, Romana 24, gennaio-giugno 1997.

Romana, n. 47, Luglio-Dicembre 2008, p. 360-370.

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