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Apostolicità della Chiesa e apostolato dei fedeli laici

Philip Goyret

Pontificia Università della Santa Croce

«La vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato»:[1] ecco un’affermazione conciliare di grande portata, che permea a poco a poco, ma senza sosta, l’attuale tessuto ecclesiale. Il diritto e il dovere di ogni cristiano a partecipare attivamente all’evangelizzazione non derivano da un ipotetico mandato da qualche autorità umana, ma dal semplice e sublime evento battesimale, e in esso dal sacerdozio comune dei fedeli, nel suo triplice versante profetico, cultuale e regale.

I battezzati, tuttavia, non svolgono la loro missione evangelizzatrice in modo anarchico, procedendo ognuno per conto proprio senza nessun tipo di legame fra loro. Il Vangelo da trasmettere, infatti, è un Vangelo ricevuto, è dono gratuito: esso ha un contenuto salvifico, del quale non si diventa padroni. La diffusione del Vangelo, anche da parte dei fedeli laici, va fatta in fedeltà al Vangelo stesso, dal quale emergono i criteri e gli indirizzi della missione, entro i quali trova spazio la legittima e fruttuosa spontaneità del loro apostolato.

In questo contesto, esiste il rischio di considerare la Chiesa esclusivamente come una istituzione che ha ricevuto, certamente dall’alto, il compito di custodire la diffusione del Vangelo: sia alimentando i cristiani con lo stesso Vangelo che essi devono a loro volta diffondere, sia realizzando la missione in prima persona attraverso i suoi pastori, sia vigilando in modo che nessuno vada oltre i limiti consentiti. Dal punto di vista dei fedeli laici, questa visione può risultare alquanto riduttiva, come se la Chiesa non fosse altro che una specie di fornitore di carburante o un corpo di vigili urbani, in modo tale da mantenere il «traffico missionario» in movimento e sulla strada giusta.

Occorre invece prendere atto che la responsabilità dei fedeli laici nell’evangelizzazione proviene contemporaneamente dalla loro condizione cristiana e dalla loro condizione ecclesiale. La Chiesa non è per loro solo una fornitrice di servizi pastorali e di sorveglianza, ma una realtà costitutiva della loro ontologia spirituale e missionaria. Ossia, anche il loro essere Chiesa è all’origine della loro spinta missionaria e determina la modalità del suo svolgimento. L’apostolato dei laici, in definitiva, è sempre un apostolato ecclesiale, sia nella sua forma personale, sia in quella associata o di cooperazione con la gerarchia.

Tutto questo ha un solido fondamento nella dottrina conciliare, che conviene mettere dovutamente in risalto. Occorre poi trarre le sue conseguenze: in particolare, in che modo l’apostolicità della Chiesa, quella confessata nel simbolo niceno-costantinopolitano, si riversa nella missione apostolica svolta dai semplici fedeli. Naturalmente, tutto ciò dovrebbe riflettersi anche all’interno dell’apostolato specificamente laicale, nel contesto del rapporto Chiesa-mondo. Resta così delineata la struttura di questo studio, che concluderemo mettendo in luce alcune conseguenze riguardanti il rapporto fra secolarità e comunione ecclesiale.

Condizione «ecclesiale» della missione dei fedeli

«La Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine»:[2] con queste solenni parole il Decreto conciliare Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa introduce il suo discorso, collocando l’intero documento in prospettiva trinitaria. La Chiesa in terris è contemplata come la proiezione nella storia umana della missione del Figlio e dello Spirito Santo; il movimento per il quale Dio comunica sé stesso alle creature si realizza attraverso le missioni del Figlio e dello Spirito, le quali a loro volta risalgono alla comunicazione di vita delle processioni trinitarie.[3] Mentre peregrina sulla terra, perciò, l’essere ecclesiale è un essere missionario, e chi partecipa a questa ecclesialità partecipa anche alla sua missionarietà.

Questa prospettiva trinitaria della missione ecclesiale, contenuta nei nn. 2-4 del Decreto Ad gentes, è in realtà figlia della prospettiva trinitaria della comunione ecclesiale, così come è descritta nei nn. 2-4 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, che conclude il n. 4 dicendo, con parole di San Cipriano: «Così la Chiesa universale si presenta come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”».[4] La comunione ecclesiale, in definitiva, è partecipazione alla comunione intratrinitaria; e la missione ecclesiale è presentata come l’aspetto dinamico, in terris, di questa comunione.[5]

Lo stesso contesto determina la dimensione ecclesiale della salvezza, collocata nel Decreto Ad gentes anche all’inizio, come punto programmatico: «Piacque a Dio chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita non tanto in modo individuale e quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità».[6] Nel disegno di Dio, dunque, gli uomini si salvano in Ecclesia, senza tuttavia eliminare la dimensione personale («non tanto in modo individuale...», dice il testo): la salvezza è contemporaneamente personale ed ecclesiale. L’idea è presente anche nel Decreto Unitatis redintegratio, sebbene espressa in modo diverso: «In questo si è mostrato l’amore di Dio per noi, che l’unigenito Figlio di Dio è stato mandato dal Padre nel mondo affinché, fatto uomo, con la redenzione rigenerasse il genere umano e lo radunasse in unità».[7] Per gli uomini, allora, essere rigenerati ed essere radunati in unità sono due dimensioni dell’unica realtà della redenzione; la grazia salvifica è contemporaneamente rigenerante e congregante.

L’impostazione conciliare ci pone dunque davanti a un’implicazione reciproca fra la condizione cristiana, ecclesiale e missionaria. Dalla Pentecoste e fino alla Parusia, infatti, esiste fra queste dimensioni una nativa simultaneità: non sussistono isolatamente senza incorrere in contraddizione. Più particolarmente, risulta che ogni evento missionario è sempre un evento ecclesiale (e cristiano); ogni forma di evangelizzazione, in quanto contenuto della missione, è svolta in Ecclesia e ab Ecclesia.

Naturalmente, ciò che vale per tutti i cristiani vale anche per i fedeli laici e per il loro apostolato, nelle sue diverse forme: l’apostolato personale e laicale è sempre anche ecclesiale, sebbene spesso non sia un apostolato «ecclesiastico», nel senso di partecipazione ad attività apostoliche pubbliche della Chiesa. Come apostolato «ecclesiale», possiamo certamente pensare che i quattro attributi della Chiesa avranno, in qualche misura, una loro incidenza. E fra di essi spicca l’apostolicità della Chiesa, particolarmente consona alla nostra tematica, per cui riceverà un’attenzione privilegiata.

Condizione «apostolica» della missione dei fedeli

Procederemo considerando anzitutto l’apostolicità della Chiesa in generale; analizzeremo poi l’origine simultanea della condizione di fedeli e del ministero gerarchico, all’interno dei Dodici, e le sue conseguenze sul nostro tema; affronteremo infine il rapporto apostolicità-cattolicità, sempre dalla prospettiva dell’apostolato dei fedeli.

L’apostolicità della Chiesa

Nel simbolo di fede niceno-costantinopolitano troviamo l’articolo ecclesiologico secondo la formulazione «(credo) unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam». I quattro aggettivi preposti al sostantivo «Chiesa», che la teologia chiama «proprietà», hanno un’interessante storia, troppo lunga per essere riportata in questa sede;[8] conviene però tener presente che, fra queste quattro proprietà, l’apostolicità è stata l’ultima a essere assunta in una professione di fede.[9] Certamente, la Chiesa era apostolica fin dalle sue origini, ma sembrerebbe che l’apostolicità come concetto abbia avuto bisogno della previa concettualizzazione delle altre tre proprietà. L’apostolicità compare nei simboli del secolo IV abbinata spesso alla cattolicità,[10] finché non trova l’assetto definitivo nel simbolo di Costantinopoli alla pari delle altre tre proprietà.[11] Comunque siano andate veramente le cose dal punto di vista storico, ciò che interessa è intendere bene la reciproca implicazione delle quattro proprietà. Quindici secoli dopo, infatti, si dichiarò autorevolmente durante il pontificato di Pio IX che «la vera Chiesa di Gesù Cristo è costituita per autorità divina e si riconosce per la quadruplice nota che nel simbolo noi affermiamo di credere: e ciascuna di queste note è così congiunta con le altre, che da queste non può essere separata».[12] Il Concilio Vaticano II mette in collegamento reciproco le quattro proprietà proprio in ambito missionario: «È evidente quindi che l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della Chiesa: essa ne diffonde la fede salvatrice, ne realizza l’unità cattolica diffondendola, si regge sulla sua apostolicità, mette in opera il senso collegiale della sua gerarchia, testimonia infine, diffonde e promuove la sua santità».[13] Lo studio specifico dell’apostolicità metterà in evidenza questo molteplice collegamento, in particolare rispetto alla cattolicità.

Ma che cosa vuol dire apostolicità della Chiesa? Sulla scia tradizionale dell’apostolicitas originis, fidei, successionis, il magistero recente insegna: «La Chiesa è apostolica, perché è fondata sugli Apostoli, e ciò in un triplice senso: 1) essa è stata e rimane costruita sul “fondamento degli Apostoli” (Ef 2,20), testimoni scelti e mandati in missione da Cristo stesso; 2) custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito che abita in essa, l’insegnamento, il buon deposito, le sane parole udite dagli Apostoli; 3) fino al ritorno di Cristo, continua a essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli, grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, “coadiuvato dai sacerdoti e unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa”».[14]

L’apostolicità «di origine» risale al celebre comando missionario di Mt 28,18-20 e alla Pentecoste, quando gli Apostoli, spinti dall’invio dello Spirito, cominciano a predicare il Vangelo. Nel disegno di Dio, cessata la visibilità della missione del Figlio e dello Spirito, esse si congiungono nel loro agire invisibile operando attraverso i Dodici. Gli Apostoli diventano così «fondamento» della Chiesa, pur trattandosi di un fondamento secondario, perché la Chiesa ha sempre «come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore» (Ef 2,20-21). Ciò che interessa evidenziare qui è che tutta la Chiesa ha la sua origine negli Apostoli: in essi troviamo come «concentrata» l’intera realtà ecclesiale. I nuovi credenti, infatti, si aggiungono alla prima comunità (At 2,41.47; 5,14; 11,24; 17,4). La Chiesa cresce come la dilatazione di un corpo, il quale, «mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare sé stesso nella carità» (Ef 4,16). Naturalmente, la crescita del corpo avviene per dono di Dio, ma è importante accorgersi che «viene attuata anche dal corpo per sé stesso».[15]

Sebbene prima della Pentecoste ci fossero altri discepoli oltre i Dodici, essi sono simbolicamente numerati come centoventi (At 1,15), in chiaro richiamo a una «moltiplicazione» dei Dodici. Anch’essi sono «inviati», ma il mandato formale missionario lo ha ricevuto il gruppo dei Dodici. Il Popolo d’Israele, tutto quanto proveniente dai dodici figli di Giacobbe, trova la sua continuità nei dodici Apostoli, i quali costituiscono «il seme del nuovo Israele».[16] In questo senso, Giacomo può scrivere la sua lettera indirizzandola «alle dodici tribù disperse nel mondo» (Gc 1,1).[17]

L’apostolicità d’origine mette in risalto anche altri aspetti importanti. I Dodici sono «apostoli», cioè inviati al servizio del regno di Dio, con pieni poteri.[18] Essi svolgono la loro missione consapevoli del loro carattere di «inviati», e quindi con un compito non proprio, ma ricevuto. Ciò comporta anche il fatto che l’autocomunicazione di Dio, la trasmissione del Vangelo, da ora in poi si realizza attraverso la missione apostolica: Dio si comunica agli uomini attraverso degli uomini. L’accesso al Regno passa attraverso i suoi inviati; in questo senso, l’apostolicità comporta la visibilità umana e sociale della Chiesa, oltre che la sua spiritualità.[19]

Alla luce della apostolicitas originis, l’apostolicitas doctrinae emerge facilmente come una naturale conseguenza. Tutto quanto crediamo nella Chiesa proviene dalla predicazione apostolica; la fede professata nel Credo è la fede apostolica. È interessante notare che San Tommaso d’Aquino, a proposito dei quattro attributi della Chiesa, parla più di «firmitas» che di apostolicità,[20] perché la sua stabilità consiste nell’insegnare la stessa dottrina degli Apostoli. Per il santo, l’apostolicità della Chiesa è quella della sua fede, e in questo il dottore angelico mostra la sua coerenza, vista la sua preferenza nel considerare la Chiesa anzitutto come «congregatio fidelium».[21]

Guardando «all’indietro» quest’aspetto dell’apostolicità, per la Commissione Teologica Internazionale «ciò non significa soltanto che essa continua a confessare la fede apostolica, ma che essa è decisa a vivere sotto la norma della Chiesa primitiva».[22] Se invece ci spostiamo dalla parte degli Apostoli ci accorgiamo, come è peraltro evidente, che la loro missione consiste nella predicazione del Vangelo. Gli stessi Apostoli «fanno la Chiesa» attraverso la diffusione della fede, «congregando nella fede» i nuovi credenti. Naturalmente, la partecipazione alla missione apostolica, ora come allora, comporta sostanzialmente lo stesso impegno.

La missione apostolica continua nel tempo come missione di tutta la Chiesa, come verrà approfondito più avanti. In qualità di pastori, invece, il ministero degli Apostoli trova continuità esclusivamente nei loro successori, i vescovi, coadiuvati dai presbiteri e dai diaconi. Questo aspetto dell’apostolicità della Chiesa è chiamato apostolicitas successionis ed è stato solennemente ribadito nell’ultimo Concilio ecumenico: «I vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli, quali pastori della Chiesa: chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16)».[23] La Lumen gentium afferma, nello stesso punto, il perché della successione: «La missione divina affidata da Cristo agli Apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli Apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di istituire dei successori».[24]

Si veda come «il Vangelo da trasmettere», anche se è diffuso da tutta la Chiesa, come appena visto, ha contemporaneamente bisogno di uno speciale ministero, quello episcopale, per essere «per la Chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo». Ossia, la Chiesa che trasmette e diffonde il Vangelo non si auto-dona il Vangelo, ma lo riceve continuamente dall’alto, nella parola e nei sacramenti; con parole della Commissione Teologica Internazionale, «la successione apostolica è dunque quest’aspetto della natura e della vita della Chiesa, che mostra la dipendenza attuale della comunità in rapporto a Cristo attraverso i suoi inviati»; come realtà ministeriale, essa è «il sacramento della presenza operante di Cristo e dello Spirito in seno al Popolo di Dio».[25] Il ministero ordinato, che succede al ministero apostolico, ci ricorda che la salvezza trasmessa da tutta la Chiesa non procede da sé stessa, ma da Dio.

Arriviamo così a dire: 1) tutta la Chiesa è apostolica, ma solo i vescovi succedono agli Apostoli.[26] 2) La missione apostolica è continuata dall’intera Chiesa, ma la funzione pastorale degli Apostoli sussiste esclusivamente nel ministero episcopale (subordinatamente, anche in quello presbiterale e diaconale). 3) La successione apostolica è al servizio dell’apostolicità della Chiesa; ancora con parole della Commissione Teologica Internazionale, «questa apostolicità comune a tutta la Chiesa è legata alla successione apostolica ministeriale, che costituisce una struttura ecclesiale inalienabile al servizio di tutti i cristiani».[27]

La missione apostolica è dunque svolta contemporaneamente dall’insieme dei fedeli e dai loro pastori e non in modo «parallelo», ma in rapporto reciproco. In questo senso, il già citato testo di Ef 4,15-16 getta un’ulteriore luce: infatti, lo sforzo per «crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo», non si fa anarchicamente, ma all’interno di un «corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro».

In questo contesto possiamo ora meglio comprendere quanto si diceva in precedenza sull’ecclesialità «concentrata» nell’apostolicità di origine. I dodici Apostoli furono contemporaneamente fedeli e pastori, e diedero origine sia all’insieme dei fedeli, sia al ministero di successione. Ciò che all’origine era uno nella persona degli Apostoli, dovrà essere conservato in unità nel rapporto fedeli-pastori. L’apostolicità della Chiesa permea così dall’interno il rapporto comunità-ministero; non solo come esigenza organizzativa, e nemmeno solo come richiamo morale, ma come un suo aspetto unitario costitutivo.

Dalle riflessioni finora analizzate, emerge un modo di pensare l’apostolicità qualitativamente più dinamico che non la sola idea dell’identità fra la fede di oggi e la predicazione apostolica. La Chiesa di oggi è la stessa Chiesa degli Apostoli, ma dobbiamo anche dire: la missione della Chiesa è la stessa missione apostolica, e va quindi svolta more apostolico. Occorre cioè riscoprire il carattere qualitativo dell’apostolicità: la Chiesa generata dagli Apostoli va rigenerata apostolicamente in ogni tempo e luogo.

Partecipazione dei fedeli alla missione apostolica

Malgrado quanto è stato ricordato sulla partecipazione di tutta la Chiesa alla missione apostolica, occorre prendere atto che per molti fedeli, ancora oggi, i destinatari del mandato missionario sono esclusivamente gli Apostoli e i loro successori nel ministero, cioè i vescovi coadiuvati dai presbiteri e dai diaconi. A scuotere queste coscienze addormentate troviamo un celebre testo di San Josemaría Escrivá, pubblicato nel lontano 1939, rivolto genericamente ai semplici cristiani (cioè, non esplicitamente ai ministri, pur senza escluderli), che dice: «“Andate, predicate il Vangelo... Io sono con voi...”. — Lo ha detto Gesù... e lo ha detto a te».[28] Il testo, di tono schietto, legge Mt 28,19-20 come compito rivolto a tutti i cristiani, sebbene nella sua materialità sia stato indirizzato agli undici Apostoli.

In cornice magisteriale, il tema è stato affrontato in modo diretto nell’ultimo Concilio, concretamente in Ad gentes 5, 1, la cui genesi in aula conciliare getta interessanti luci sul nostro argomento. In riferimento al mandato missionario di Mt 28,19-20, il textus prior aggiungeva: «Quod munus post eos haereditavit ordo episcoporum, una cum Successore Petri Ecclesiaeque visibili Capite. In exsequendo vero hoc mandato Ecclesia tota cooperatur, unusquisque secundum locum, officium et gratiam in corpore».[29]

Questo testo, non contenuto nello schema preparatorio, è stato introdotto con l’intenzione di collegare il concetto di missione con quello dell’apostolicità. In uno dei voti all’origine del testo si avvertiva che «l’evangelizzazione e lo stabilimento della Chiesa hanno origine e forma da un disegno di Dio, comunicato non al popolo, ma agli Apostoli e ai loro successori. Il “mitto vos” è detto ai discepoli scelti da Cristo, che appunto per tale scelta e tale missione si chiamano “Apostoli”, ossia inviati».[30] Si era arrivati così a un’impostazione che, da una parte, faceva risalire la missione all’apostolicità, in fedeltà a Mt 28,19-20; ma la missione è concepita come compito della gerarchia (i successori degli Apostoli), nel quale per i semplici fedeli («Ecclesia tota») restava solo la «cooperazione». La missione conferita agli Apostoli passa, in definitiva, ai vescovi; naturalmente, anche gli altri fedeli sono coinvolti nella missione, ma come compito derivato dagli Apostoli: perciò, il loro ruolo è pensato solo come cooperazione con quello gerarchico.

Questa visione non trovò accettazione nell’aula conciliare, ancor meno dopo l’approvazione della Lumen gentium, nella quale si afferma, subito dopo la citazione di Mt 28,19-20: «Questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, la Chiesa l’ha ricevuto dagli Apostoli per proseguirne l’adempimento sino all’ultimo confine della terra».[31] Il soggetto a cui passa il comando missionario (conferito agli Apostoli) non è qui solo la gerarchia, ma la Chiesa tutta intera. In questa linea d’idee, troviamo il voto di Lécuyer, allora perito conciliare, dicendo: «Esiste qui (nel textus prior appena citato) una mancanza teologica: la missione di tutta la Chiesa non è una cooperazione all’adempimento del mandato affidato alla gerarchia. Tutta la Chiesa è direttamente inviata...».[32] J. Ratzinger, allora anch’egli perito conciliare, disse a questo riguardo: «Subiectum activitatis missionalis tota Ecclesia est», mentre riserva alla gerarchia il ruolo di «moderazione».[33]

Queste voci furono ascoltate e nel nuovo testo, il textus emendatus, si arriva a un equilibrio, introducendo questo nostro tema così: «Il Signore Gesù, fin dall’inizio, “chiamò presso di sé quelli che voleva e ne costituì dodici che stessero con lui e li mandò a predicare” (Mc 3,13)».[34] Si allaccia quindi non direttamente al mandato missionario, ma all’evento vocazionale apostolico, nel quale esplicitamente si parla di «dodici», con le risonanze veterotestamentarie di cui ci siamo già occupati. E resta chiaro che vige la stessa logica, come esplicitamente indicherà la relatio di presentazione.

«Così», continua il testo, «gli Apostoli furono a un tempo il seme del nuovo Israele e l’origine della sacra gerarchia».[35] Ed ecco, finalmente siamo davanti al testo chiave e definitivo, tanto distante da un «esclusivismo gerarchico» quanto da un pericoloso «orizzontalismo». Come detto dalla relatio, «iam in ipso initio duos aspectus adesse, in quantum apostoli, quibus mandatum activitatis missionalis impositum est, tam germen totius novi populi Dei appellandi sunt (sicut ex. gr. numerus “12” ut numerus tribuum Israel exprimit) quam exordium sacrae hierarchiae sunt».[36]

Non sarebbe dunque accettabile una lettura della parte successiva del testo (leggermente modificato nella versione definitiva) in contraddizione con quanto abbiamo appena riportato. Ad gentes, 5, 1, dopo aver menzionato il mistero pasquale e il mandato missionario, aggiunge subito: «Da qui deriva alla Chiesa l’impegno di diffondere la fede e la salvezza del Cristo, sia in forza dell’esplicito mandato che l’ordine episcopale, coadiuvato dai sacerdoti e unito al successore di Pietro, supremo pastore della Chiesa, ha ereditato dagli Apostoli, sia in forza di quell’influsso vitale che Cristo comunica alle sue membra: “Da lui infatti tutto quanto il corpo, connesso e compaginato per ogni congiuntura e legame, secondo l’attività propria di ciascuno dei suoi organi cresce e si auto-costruisce nella carità” (Ef 4,16)».

Da un’analisi superficiale — attenta solo alla forma redazionale — si potrebbe eventualmente concludere che il mandato missionario esplicito è ereditato soltanto dall’ordine episcopale, mentre l’insieme delle membra della Chiesa svolge la missione esclusivamente in forza della vita che Cristo comunica alle sue membra. Ciò fu infatti sollevato in aula conciliare, già in fase finale; il testo non fu modificato, perché, con parole della commissione dottrinale, «a) solummodo differentia missionis hierarchiae et membrorum non hierarchicorum insinuatur; b) ex citatione Eph. 4,16 et ex sequentibus communis affectio virtute vitae patet».[37]

Dovrebbe dunque risultare chiaro,[38] dopo queste spiegazioni, che l’attività missionaria dell’intero Popolo di Dio trova il suo fondamento sia nel mandato missionario, sia nella vita infusa da Cristo nelle sue membra. Recentemente è stata ancora ribadita «l’urgenza dell’invito di Cristo a evangelizzare e come la missione, affidata dal Signore agli Apostoli, riguardi tutti i battezzati. Le parole di Gesù, “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20), interpellano tutti nella Chiesa, ciascuno secondo la propria vocazione».[39]

Alla gerarchia e agli altri fedeli, dunque, non si affida il compito missionario allo stesso modo, perché esiste una differenza nel modo di essere portatore della missione apostolica. Ma resta fermo il collegamento diretto di entrambe le realtà alla missione apostolica dei Dodici.

Apostolato, apostolicità e cattolicità

Possiamo dunque affermare senza tentennamenti che, d’accordo con la dottrina conciliare, tutta la Chiesa è inviata a svolgere la missione apostolica. Con ciò non solo si riscopre il carattere apostolico dell’intera congregatio fidelium, ma si concepisce la missione come una manifestazione dell’apostolicità, così come è l’apostolicità a configurare la missione. Come ribadito da San Josemaría, «tutti dobbiamo sentirci responsabili di questa missione della Chiesa, che è la stessa missione di Cristo. Chi non sente zelo per la salvezza delle anime, chi non cerca con tutte le sue forze di far sì che il nome e la dottrina di Cristo siano conosciuti e amati, non potrà comprendere l’apostolicità della Chiesa».[40]

In quest’ottica, potremmo dire che l’apostolicità della Chiesa significa la sussistenza permanente della missione iniziale e originaria degli Apostoli: in ogni momento della sua vita, la Chiesa riceve questa missione, e in ogni momento la svolge. Questo collegamento fra apostolato e apostolicità si trova nello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, proprio a conclusione del capitolo sull’apostolicità (n. 863). Dopo aver ribadito il nesso fra apostolicitas doctrinae e apostolicitas successionis, si dice: «Tutta la Chiesa è apostolica, in quanto è “inviata” in tutto il mondo; tutti i membri della Chiesa, sia pure in modi diversi, partecipano a questa missione».

Occorre ora riproporre il nesso fra l’apostolicità della Chiesa e le altre proprietà. L’area in cui ci muoviamo tende da sé verso la cattolicità e, anzi, a un primo sguardo sembrerebbe che apostolicità e cattolicità, almeno in parte, coincidano, perché di fatto i due concetti implicano la diffusione del Vangelo in tutto il mondo. La Chiesa «è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano».[41] Si noti addirittura la presenza, in questa definizione, dell’idea d’invio e di missione, ampiamente presente nell’ambito dell’apostolicità.

Insieme a quest’aspetto «quantitativo» della cattolicità esiste, tuttavia, quell’altro che possiamo chiamare «qualitativo», perché «in essa (nella Chiesa) sussiste la pienezza del Corpo di Cristo unito al suo Capo, e questo implica che essa riceve da lui in forma piena e totale i mezzi di salvezza che egli ha voluto: confessione di fede retta e completa, vita sacramentale integrale e ministero ordinato nella successione apostolica».[42] Perciò «la cattolicità della Chiesa non dipende dall’estensione geografica, che comunque ne è segno visibile e motivo di credibilità. La Chiesa era cattolica già nella Pentecoste; nasce cattolica dal cuore piagato di Gesù, come un fuoco alimentato dallo Spirito Santo».[43]

Mettendo insieme entrambi questi aspetti, potremmo dire che la missione della Chiesa consiste nel portare la sua indefettibile cattolicità qualitativa all’effettiva cattolicità quantitativa. Ma, affinché la cattolicità qualitativa diventi pure quantitativa, è necessario che l’annuncio del Vangelo si faccia secondo un terzo senso della cattolicità, che possiamo chiamare intensivo, ed è quello che con più forza è richiamato dall’evento che nella Chiesa più profondamente segnò la sua cattolicità: la Pentecoste. Allora il Vangelo fu annunciato in un modo tale che tutti lo poterono capire. Questo miracolo delle lingue segna una svolta rispetto alla divisione delle lingue proveniente dall’evento della torre di Babele; non è destinato a ripetersi nella storia della Chiesa, ma ha una rilevanza ecclesiologica permanente, ed è proprio in questo terzo senso che viene assunto dalla Lumen gentium, come introduzione proprio all’ambito della missione (n. 13). Ciò non viene affermato solo come questione linguistica, ma più largamente come capacità del Vangelo di permeare e di assumere tutte le legittime diversità presenti nell’intera umanità. Infatti, «in tutte (…) le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste». La Chiesa «favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva».

L’apostolicità è dunque cattolica, e la cattolicità è apostolica, anche perché la «diversità congenita» della cattolicità, l’assunzione in Cristo di tutte le realtà umane, è misurata dall’apostolicità. La missione cattolica, cioè, è sempre quella apostolica, la quale resta criterio normativo. Entrambe queste proprietà, quindi, condividono reciprocamente tratti simili e non si possono isolare; se la Chiesa, ipoteticamente, abbandonasse la spinta cattolica della sua missione, tradirebbe anche la sua identità apostolica; se non fosse fedele alla tradizione apostolica ricevuta, verrebbe meno anche la sua cattolicità. La testimonianza apostolica, in definitiva, richiama la missionarietà cattolica, e viceversa.

Queste caratteristiche ecclesiali e questo loro intreccio hanno rilevanza anche a livello esistenziale, nella vita vissuta dei fedeli. Come è stato riaffermato dal magistero recente, «l’evangelizzazione non si realizza soltanto attraverso la predicazione pubblica del Vangelo, né unicamente attraverso opere di pubblica rilevanza, ma anche per mezzo della testimonianza personale, che è sempre una via di grande efficacia evangelizzatrice».[44] Ogni fedele è dunque chiamato a essere testimone del mistero pasquale nella sua vita; essa è «apostolica» nella misura in cui in essa prende corpo la «fede apostolica»; ma ogni fedele, come membro della congregatio fidelium che è la Chiesa, è chiamato anche ad «annunziare la verità della salvezza (...) sino all’ultimo confine della terra».[45] Naturalmente, la «cattolicità dell’annuncio» è vissuta da ciascuno secondo le proprie possibilità, ma per tutti regge il monito paolino «Guai... a me, se non predicassi il Vangelo» (1 Cor 9,16), come continua a dire la Lumen gentium.

Emerge così un richiamo reciproco fra testimonianza e annuncio, risalente all’originario legame fra apostolicità e cattolicità, destinato a trovare conferma nella vita «cattolica-apostolica» dei fedeli. La testimonianza, cioè, è assolutamente indispensabile, ma da sola non basta per adempiere la missione apostolica: occorrono il coraggio e la grinta dell’annuncio. Con parole di Paolo VI, «anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata (...) ed esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù».[46] È altrettanto chiaro che l’annuncio della verità salvifica, fatto senza testimoniare quella verità nella propria vita, è destinato alla sterilità.

Missione apostolica e santificazione del mondo

Qual è il contenuto della missione apostolica? In modo generico, possiamo certamente identificarlo con la diffusione del Vangelo. Guardando la questione più da vicino, e sulla scia del comando missionario così come lo troviamo in Mt 28,19-20, esso può essere adeguatamente descritto come una funzione profetica, cultuale e regale. Questo contenuto, tuttavia, pur conservando una sostanziale identità, è ricevuto, trasmesso ed esercitato in modo diverso secondo i diversi portatori della missione: laici, ministri, consacrati. Occorre considerare ora, in questa terza parte del nostro studio, il compito specifico dei fedeli laici nell’assolvimento della missione, sempre all’interno della più ampia cornice dell’apostolicità della Chiesa.

A questo riguardo è anzitutto necessario sottolineare, negli scritti apostolici, quei brani che parlano della missione della Chiesa rispetto al mondo, visto che la condizione dei fedeli laici nel mondo è ciò che li caratterizza come tali; per considerare poi il peso del lavoro umano all’interno dell’apostolicità e della cattolicità della Chiesa.

Il rapporto Chiesa-mondo

Occorre prendere atto che la missione apostolica continuata nella Chiesa fino alla fine dei tempi non riguarda esclusivamente la salus animarum, ma comprende pure l’intera realtà della creazione, intesa sia in senso cosmico, sia come il tessuto dei valori umani nel quale si rapportano gli uomini fra sé e con il mondo materiale. Questo è proprio l’ambito specifico dei fedeli laici, ai quali spetta «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio».[47] Conviene dunque rivolgere ora la nostra attenzione al rapporto Chiesa-mondo, all’interno del quale si svolge la missione dei laici.

Troviamo questa visione già negli scritti apostolici. La redenzione del cosmo è presentata da Rm 8,20-21 con tratti quasi angoscianti: la creazione «nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». Infatti, nella Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, le cui mura «poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello» (Ap 21,14), oltre a «una folla immensa» (Ap 19,1), ci sarà anche «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1).

Coinvolgendo più direttamente la dimensione ecclesiale spicca l’introduzione di Col 1,13-20; nel contesto della creazione di tutte le cose, «quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili», esse vengono contemplate con un destino preciso: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui (del Figlio)», che «è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa». La stessa panoramica, se guardata dal punto di vista della consumazione escatologica, è presente in Ef 1,9-10: «Il mistero della sua volontà» (del Padre), quello «prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi», consiste nel «disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La «ricapitolazione» ha una chiara impronta ecclesiologica, dato che il Cristo di cui si parla è stato «costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1,22-23).[48] Il discorso si riprende ancora in Ef 4,15, quando si esorta a «crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo», un passaggio che, secondo l’esegesi moderna, significa «far sì che l’universo cresca verso colui che è il capo, Cristo».[49] Anzi, lo scopo dei doni conferiti dal Cristo glorioso è quello di «edificare il corpo» (Ef 4,12), cioè la Chiesa, in modo che «in essa, con essa e per mezzo di essa la totalità dell’universo cresca verso Cristo».[50]

Tuttavia, il rapporto Chiesa-mondo non è presentato come relazione fra due realtà sovrapposte, né fra le due parti di un tutto, ma piuttosto come la stessa realtà contemplata o nel suo momento iniziale o nella consumazione alla quale è destinata.[51] Come dicevano i cristiani dei primi tempi, «per essa (per la Chiesa) fu ordinato il mondo».[52] Il Catechismo della Chiesa Cattolica riprende questa espressione e aggiunge: «Dio ha creato il mondo in vista della comunione alla sua vita divina, comunione che si realizza mediante la “convocazione” degli uomini in Cristo, e questa “convocazione” è la Chiesa».[53] In questo senso si ripropone, sulla scia della tradizione patristica, una coraggiosa affermazione: «Considerando la finalità, la Chiesa è esistita prima di tutte le cose».[54]

Mondo, lavoro e santità

È possibile parlare in questo contesto di una dimensione cosmica e secolare della cattolicità della missione apostolica; quell’apertura universale del Vangelo comprende anche la stessa realtà materiale della creazione e l’insieme dei valori umani contenuti nel rapporto uomo-creazione e fra gli uomini: è una capacità per ricondurre a Dio tutte le cose, incorporando al Corpo di Cristo non solo l’uomo ma anche ogni valore umano. «L’opera della redenzione di Cristo — sono parole del Vaticano II — ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l’ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico».[55] Non ci è stato rivelato in quale modo si realizzerà la trasformazione escatologica della creazione; sappiamo invece che «l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di Dio».[56] Questo «sforzo» è anzitutto il lavoro umano, il quale viene così integrato all’interno della ricapitolazione del mondo in Cristo. Continua dicendo la Gaudium et spes: «L’uomo, infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riferire a Dio il proprio essere e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutte le realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra».[57]

Questo compito grandioso ricevuto dal Creatore, che chiamiamo santificazione del mondo, resta così integrato all’interno della missione apostolica e quindi legato direttamente alla cattolicità e all’apostolicità della Chiesa. Esso è portato avanti anzitutto dai fedeli laici, perché la loro condizione secolare è premessa indispensabile in questo processo. Essi hanno il compito, affidato loro da Dio, di «illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo».[58] Con parole di San Josemaría Escrivá, «la partecipazione specifica che spetta ai laici nella missione globale della Chiesa è appunto quella di santificare ab intra — in modo immediato e diretto — le realtà secolari, l’ordine temporale, il mondo».[59] Come funzione svolta all’interno dell’apostolicità della Chiesa, ai laici «corrisponde in modo specifico l’opera “immediata” e “diretta” di ordinare le realtà temporali secondo i principi dottrinali enunciati dal Magistero»;[60] ai laici spetta anche irradiare il Vangelo fra gli uomini, che si trovano nelle diversissime situazioni e circostanze che sono oggetto del lavoro umano, attuando così anche la cattolicità insita nella stessa apostolicità.

Come compito ecclesiale, la santificazione del mondo s’inserisce anche nel versante dinamico della santità della Chiesa. La Chiesa, infatti, è santa non solo nel suo Fondatore e nello Spirito, non solo nelle sue istituzioni e nei suoi fedeli, ma anche nella sua funzione e nella sua finalità. La Chiesa, cioè, è santa e santificante,[61] e cerca di portare l’uomo e l’intera creazione verso quella santità alla cui pienezza giungerà solo nella consumazione finale. La stessa Lumen gentium si preoccupa di integrare nella santità escatologica raggiungibile nella Chiesa («nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità») quell’aspetto concreto della santità riguardante l’intera creazione: infatti, la santità escatologica avrà luogo «quando verrà il tempo in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3,21), e col genere umano anche tutto l’universo, il quale è intimamente congiunto con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà nel Cristo la sua definitiva perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20)».[62]

Infine, in questa cornice dovrebbe trovare la sua adeguata comprensione il testo di Apostolicam actuositatem 2, 2 sul ruolo dei laici. Lì leggiamo: «I laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all’interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo». La specificità del ruolo laicale è senz’altro assunta, visto che si parla di «compiti propri», ma una lettura superficiale del testo potrebbe facilmente isolare i compiti realizzati «nella Chiesa» da quelli realizzati «nel mondo», e così facendo si distruggerebbe proprio la specificità che si vuole evidenziare. La disgiunzione, in definitiva, è seriamente fuorviante; proprio perché la missione apostolica comprende la santificazione del mondo, il compito specifico dei laici nella Chiesa è quello realizzato nel mondo.[63]

Comunione nella missione apostolica e secolarità

L’apostolato dei fedeli laici, contemplato all’interno dell’apostolicità della Chiesa, porta a meglio evidenziare il legame intrinseco che intercorre, in loro, fra secolarità e comunione ecclesiale, manifestando così anche un aspetto concreto dell’unità della Chiesa. L’unità ecclesiale nel suo nucleo più genuinamente teologico trova il suo acme nell’Eucaristia, e in essa, attraverso «l’ufficio sacro del Vangelo di Dio» esercitato dal ministero apostolico, l’attività secolare diviene «una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (Rm 15,16). La liturgia della presentazione dei doni è ben esplicita a questo riguardo: il pane presentato al Signore è «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», e diventerà per noi «cibo di vita eterna»; il vino è «frutto della vite e del lavoro dell’uomo» e diventerà «bevanda di vita eterna». La menzionata «ricapitolazione» della creazione in Cristo trova così, nell’Eucaristia, un suo anticipo, e in questo processo il lavoro dell’uomo s’inserisce a pieno titolo. In definitiva, il mondo, mediante l’attività dei fedeli laici, diventa «materia» offerta a Dio in sacrificio spirituale, precisamente quando le realtà temporali vengono ordinate verso la perfezione della loro propria natura.[64] Questa mirabile convergenza degli aspetti cultuale e regale della missione ecclesiale dei laici contribuisce efficacemente all’unità della Chiesa secondo una dimensione loro molto specifica; al contrario, un’eventuale separazione di questi due aspetti fuoriesce dalla dinamica dell’apostolicità: sia l’impegno liturgico del fedele laico la cui secolarità non trova riscontro nella santificazione delle realtà temporali, sia il disdegno alla partecipazione ad attività liturgiche con l’ipotetico pretesto di custodire la propria secolarità. Entrambi questi estremi portano al distacco fra la fede professata e la vita quotidiana, un atteggiamento che «va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo».[65]

La connessione fra gli aspetti regale e cultuale della missione specifica dei laici colloca sempre la loro secolarità all’interno della comunione ecclesiale. Anzi, proprio l’enfasi della specificità secolare porta a rafforzare la comunione. Si tenga presente che l’esclusione dalla comunione proviene spesso dall’autosufficienza, dall’atteggiamento che porta a dire: «Non ho bisogno di te». Secondo la dottrina paolina, invece, le limitazioni dei membri si trovano in relazione diretta con la specificità dei singoli organi: dato che l’occhio è soltanto occhio, e non mano, non le può dire: «Non ho bisogno di te». Arriviamo così a una situazione paradossale: la specificità da sé non danneggia, ma, al contrario, rafforza la comunione.[66] Applicando quest’ottica sul versante specificamente laicale, risulta dunque chiaro che missione ecclesiale nelle attività secolari e comunione con i pastori si richiamano l’una all’altra, mentre un’eventuale divergenza non si accorda — né dall’una, né dall’altra, né da entrambe le parti — con l’apostolicità della Chiesa. Ciò regge anche rispetto a tutte le altre realtà ecclesiali, sia in ambito laicale, sia in quello della vita consacrata; e impegna tutti a partecipare alla missione apostolica ciascuno secondo la propria specificità, ma senza mancare alla comunionalità: talvolta lavorando insieme in progetti apostolici comuni, più spesso immersi ciascuno nel proprio campo specifico, ma in tutti i casi con spirito aperto, mutua conoscenza e stima reciproca.

Credo unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam: arrivati alla fine di queste riflessioni, conviene ribadire ancora l’intrinseca implicazione reciproca fra queste proprietà della Chiesa. «Ut et ipsi in nobis unum sint, ut mundus credat» (Gv 17,21), chiese Gesù al Padre, legando così per sempre lo slancio cattolico della missione apostolica all’unità della Chiesa nella sua indefettibile santità.

[1] CONCILIO VATICANO II, Decr. Apostolicam actuositatem, 2, 1.

[2] CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad gentes, 2, 1.

[3] Cfr. M.J. LE GUILLOU, Décret sur l’activité missionnaire de l’Église “Ad gentes”. Introduction, in Documents Conciliaires, Éditions du Centurion, Paris 1966, 77-78.

[4] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 4, 2.

[5] Cfr. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione “Lumen gentium”, Coll. “Già e non ancora” Jaca Book, Milano 19894, 87-89.

[6] CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad gentes, 2, 2.

[7] CONCILIO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 2, 1.

[8] Cfr. G. THILS, Les Notes de l’Église dans l’Apologétique catholique depuis la Réforme, Duculot, Gembloux 1937.

[9] Cfr. L.-M. DEWAILLY, Mission de l’Église et apostolicité, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques, 32 (1948) 5.

[10] Cfr. P. GOYRET, Dalla Pasqua alla Parusia. La successione apostolica nel «tempus Ecclesiae», Coll. Studi di Teologia, 15, Edusc, Roma 2007, 27-28.

[11] Per un approfondimento dell’intera questione si può consultare J.N.D. KELLY, I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita, evoluzione, uso del credo, Dehoniane, Napoli 1987.

[12] Lettera del S. Uffizio ai vescovi d’Inghilterra, 16-IX-1864, in DH 2888.

[13] CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad gentes, 6, 6.

[14] CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 857.

[15] H. SCHLIER, La Lettera agli Efesini. Testo greco, traduzione e commento, Coll. Commentario teologico del Nuovo Testamento, 10.2, Paideia, Brescia 19732, 328.

[16] CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad gentes, 5, 1.

[17] Cfr. Y. CONGAR, voce Apostolicité, in Catholicisme 1, col. 729.

[18] Cfr. R.H. RENGSTORF, voce Apostéllo, in Grande Lessico del Nuovo Testamento 1, 1085.

[19] Cfr. L.-M. DEWAILLY, o.c., 17-18.

[20] Cfr. Commento al Credo, art. 9, in Opuscoli spirituali. Commenti al Credo, al Padre nostro, all’Ave Maria e ai dieci comandamenti, traduzione e note a cura di P. LIPPINI, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, 93.

[21] Cfr. Y. CONGAR, L’apostolicité de l’Église selon saint Thomas, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 44 (1960) 216.

[22] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L’apostolicità della Chiesa e la successione apostolica, n. 1, 1, 1973, in Documenti (1969-2005), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, 51.

[23] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 20, 3.

[24] Ibidem, 20, 1.

[25] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L’apostolicità della Chiesa e la successione apostolica, n. 5, in Documenti (1969-2005), cit., 61.

[26] La successione riguarda la funzione pastorale degli Apostoli, come ribadito in Lumen gentium 20, 2, la quale non comprende quegli elementi del ministero degli Apostoli legati alla loro condizione di testimoni oculari del mistero pasquale. Su questo tema, cfr. Dalla Pasqua alla Parusia, cit., 352-370.

[27] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L’apostolicità della Chiesa e la successione apostolica, n. 1, 3, in Documenti (1969-2005), cit., 53.

[28] SAN JOSEMARÍA, Cammino, n. 904.

[29] Acta Synodalia IV/III, 666.

[30] Il voto è di Paolo VI. Il testo è reperibile nel Dossier Congar relativo al Decreto Ad gentes (IV, V), conservato nell’archivio di Le Saulchoir, a Parigi, ed è stato pubblicato in E. BORDA, La apostolicidad de la misión de la Iglesia. Estudio histórico-teológico del capítulo doctrinal del Decreto “Ad gentes”, Pont. Ateneo della Santa Croce, Roma 1990, Appendice VI, p. 283.

[31] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 17.

[32] Remarques sur le schéma “De activitate missionali Ecclesiae”, pubblicate in appendice da J.B. ANDERSON, A Vatican II pneumatology of the Paschal mystery: the historical-doctrinal genesis of “Ad gentes” I, 2-5, Pont. Università Gregoriana, Roma 1988, 316-317.

[33] «Quia Ecclesia Dei in activitate sua ab hierarchia moderatur, moderamen missionum eodem modo res hierarchiae est»: Considerationes quoad fundamentum theologicum missionis Ecclesiae, in Dossier Congar relativo al Decreto Ad gentes, IV (O), riportato in E. BORDA, o.c., Appendice III, n. 5, p. 251. Queste considerationes furono lette nella sessione precedente, ma riguardano lo stesso tema. Cfr. anche Acta Synodalia IV/III, 740-741; IV/IV, 153, 523.

[34] CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad gentes, 5, 1.

[35] Ibidem.

[36] Acta Synodalia IV/IV, 271. Qualche riga più avanti si sottolinea ancora la stessa idea: «Sic iam ex ipso initio indicatur nunc et officium totius Ecclesiae et mandatum speciale, quod hierarchiae ecclesiasticae competit».

[37] Acta Synodalia IV/VII, 20-21.

[38] Il condizionale è d’obbligo, perché in parte non piccola la dottrina appena esposta non è stata ancora correttamente assimilata, malgrado siano già trascorsi più di 40 anni dalla pubblicazione dei documenti conciliari. Come detto nella presentazione del volume Los laicos en la eclesiología del Concilio Vaticano II. Santificar el mundo desde dentro (curato da R. PELLITERO, Rialp, Madrid 2006), «la messa in pratica del Concilio Vaticano II è ancora oggi il grande compito che la Chiesa e i cristiani hanno davanti a loro» (p. 7).

[39] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, 3-XII-2007, n. 10, 4.

[40] SAN JOSEMARÍA, Omelia “Lealtà verso la Chiesa”, 4-VI-1972, in La Chiesa nostra Madre, Ares, Milano 1976, 32. Il corsivo è nostro.

[41] CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 831.

[42] Ibidem, 830.

[43] SAN JOSEMARÍA, Omelia “Lealtà verso la Chiesa”, in La Chiesa nostra Madre, cit., 26.

[44] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, cit., n. 11.

[45] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 17.

[46] PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 22, 8-XII-1975.

[47] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 31, 2.

[48] Cfr. H. SCHLIER, La Lettera agli Efesini. Testo greco, traduzione e commento, Coll. Commentario teologico del Nuovo Testamento,10.2, Paideia, Brescia 19732, 90-91.

[49] Ibidem, 324.

[50] Ibidem, 325.

[51] Cfr. J.L. ILLANES, La condición laical en la Iglesia, in R. PELLITERO (ed.), Los laicos en la eclesiología del Concilio Vaticano II, cit., 136.

[52] ERMA, Il Pastore, Vis. 2,4,1, in A. QUACQUARELLI (ed.), I Padri apostolici, Coll. di testi patristici, Città Nuova, Roma 19948, 249.

[53] CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 760.

[54] SANT’EPIFANIO, Panarion seu adversus LXXX haereses, 1,1,5, in PG 41, 181C.

[55] CONCILIO VATICANO II, Decr. Apostolicam actuositatem, 5.

[56] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 34, 1.

[57] Ibidem.

[58] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 31, 2. Come precisato da Mons. G. Philips, anch’egli perito conciliare e autore dello schema iniziale della seconda redazione della Cost. dogm. Lumen gentium, «l’espressione illuminare è stata scelta a ragion veduta. Se i laici non rispettano i valori temporali o se li disistimano, non li illuminano: li distruggono» (cfr. La Chiesa e il suo mistero, cit., 353).

[59] SAN JOSEMARÍA, Colloqui con mons. Escrivá, n. 9.

[60] Ibidem, n. 11.

[61] Cfr. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 824.

[62] CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 48, 1.

[63] Cfr. F. OCÁRIZ, La partecipazione dei laici alla missione della Chiesa, in Annales Theologici 1/1-2 (1987) 10.

[64] Cfr. ibidem, 16.

[65] CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 43, 4.

[66] Cfr. R. LANZETTI, L’indole secolare propria dei fedeli laici secondo l’esortazione apostolica post-sinodale “Christifideles laici”, in Annales Theologici 3/1 (1989) 41.

Romana, n. 48, Gennaio-Giugno 2009, p. 170-186.

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