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L’Enciclica Caritas in veritate fra tradizione cristiana e mondo moderno

Martin Schlag

I. Introduzione

Georg Jellinek pubblicò nel 1895 la prima edizione del libro La Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino[1]. Il contenuto provocò una vivace discussione. In questo testo Jellinek sostiene anche la tesi che la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e quella americana (e di conseguenza le Dichiarazioni del mondo occidentale) si rifanno, in definitiva, alle lotte per la libertà religiosa. «L’idea di stabilire legalmente i diritti inalienabili, innati, sacri, non è di origine politica bensì religiosa. Quello che fino ad allora era stato ritenuto essere opera della rivoluzione è in realtà frutto della Riforma e delle sue lotte»[2]. Non posso entrare qui nel merito della correttezza dell’enunciato che si presenta, per molti aspetti, suggestivo. Mi interessa evidenziare un aspetto della questione che soggiace alla tesi di Jellinek: «Esiste una sostanziale continuità fra la tradizione cristiana e il mondo moderno? Oppure la modernità è dovuta alla rottura e alla discontinuità con la tradizione cristiana?»[3].

Max Weber fu molto influenzato dal libro di Jellinek quando sviluppò la sua tesi in L’etica protestante e lo “spirito” del capitalismo[4]. Qui Weber trasforma il materiale storico costituzionale in un modello per la spiegazione di evoluzioni sociali in generale. In buona sostanza sosteneva che non soltanto le forze materiali ed economiche cambiano il mondo, ma anche quelle religiose, e che queste, nel caso della società occidentale industriale, avevano anche concretamente operato in tal senso[5].

L’Enciclica di Papa Benedetto XVI, benché non si rifaccia esplicitamente a Max Weber, ingloba in un discorso più ampio le stesse questioni sviluppate da Weber, tematica questa che a una prima lettura non è semplice da capire[6]. Nelle pagine seguenti si tenterà di esporre la tesi che Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate voglia far fruttificare elementi della tradizione cristiana per l’economia moderna, la quale, in linea con il titolo del documento papale, conviene sia rivolta allo sviluppo integrale dell’uomo.

Caritas in veritate è l’Enciclica sociale quantitativamente più lunga della storia, ma anche nei contenuti pone molte domande che possono generare un nuovo indirizzo di pensiero e punti di vista innovativi.

In questa introduzione ne vorrei rilevare due che sembrano particolarmente importanti. Il primo punto è la “svolta antropologica” della dottrina sociale della Chiesa sottolineata dalla Caritas in veritate[7]. Infatti, Benedetto XVI afferma che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica»[8]. Il Pontefice riferisce questo giudizio soprattutto alla razionalità tecnica. Una razionalità tecnica strumentale non può coprire l’intera area dell’umano. Se la ragione conosce le cose esclusivamente in quanto sono mezzi da usare, si perde la possibilità di contemplarle anche in quanto esse sono fini. “Sapere” e “conoscere” non di rado vengono identificati con “sapere che cosa si può fare con qualcosa”[9]. Anche l’eccessiva matematizzazione e l’esagerato uso di metodi econometrici nell’economia fanno sì che a volte non si percepisca più l’evidente senso umano dell’agire[10]. Sembra che si voglia costruire una scienza “esatta” a mo’ di scienza naturale in un ambito dove non è possibile, cioè nell’ambito della persona umana, del suo agire sociale ed economico, dello sviluppo umano integrale, ecc. Tutte queste realtà richiedono un altro metodo. E dovrebbe essere l’oggetto di studio a decidere sul metodo e non il metodo a decidere sull’oggetto. Altrimenti, accade ciò che dice Spaemann: con lo scopo di una presunta purezza scientifica, la scienza moderna ha via via eliminato gli antropomorfismi, a tal punto che l’uomo stesso è diventato un “antropomorfismo”[11]. Per superare una tale tendenza Benedetto XVI introduce termini come gratuità, dono, relazionalità, reciprocità, ecc. dei quali si parlerà più avanti.

Il secondo punto che voglio menzionare si riferisce allo statuto epistemologico della dottrina sociale della Chiesa[12]. Questa dottrina è certamente teologia, concretamente teologia morale. Non è però solo teologia (basata sulla Rivelazione), ma anche antropologia (filosofia basata sulla ragione umana). Perché parla nel nome della ragione, la Chiesa può chiedere uno spazio pubblico. Anzi, «la dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana»[13].

Successivamente si tratterà della relazione fra tradizione cristiana e mondo moderno, e con questo anche dell’aspetto della continuità e discontinuità nella dottrina sociale.

Scrive Papa Benedetto XVI nell’Enciclica:

«Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa. In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie a esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo.

«È giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale. Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono»[14].

Nelle note a piè di pagina, a questo punto viene citato, accanto all’Enciclica Sollicitudo rei socialis, il discorso che Papa Benedetto XVI ha fatto ai membri della Curia Romana il 22 dicembre 2005.

In tale sede egli fa riferimento alla corretta interpretazione dei nuovi orientamenti scaturiti dal Concilio. Si occupa fondamentalmente della problematica della trasformazione e della persistenza. Contrappone alla “ermeneutica della discontinuità e della rottura” la “ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa. Questo secondo tipo di ermeneutica corrisponderebbe al Concilio Vaticano II, che doveva ristabilire la relazione tra la Chiesa e la modernità e ne sarebbe il giusto metodo di interpretazione. È certo che erano necessari grandi passi di riforma e quindi di cambiamento per giungere alla nuova configurazione. Il Papa enuncia tre nuovi punti di riferimento della Chiesa: il rapporto della fede e della Chiesa nei confronti delle scienze naturali, dello Stato liberale e delle altre religioni. «È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi (…). Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità»[15]. Questi passi furono fatti così che, in piena concordia con l’insegnamento di Gesù, venne ripresa una eredità che era già profondamente ancorata nella Chiesa[16].

II. Dottrina sociale cattolica e ordinamento economico liberale

Nel citato discorso di Natale il Papa fa esplicito riferimento al rapporto verso le scienze naturali, lo Stato liberale moderno e le altre religioni. Come si pone l’economia liberale moderna? Papa Benedetto XVI l’ha inclusa implicitamente parlando del pensiero moderno? Oppure l’ha volutamente omessa nell’elenco degli ambiti tematici concreti? Non era un dovere della Chiesa occuparsi della modernità dell’economia?

A un primo sguardo può sembrare che il Papa abbia escluso l’economia da quegli ambienti con cui sia avvenuta una riconciliazione. Questo giudizio si potrebbe poggiare sulla conferenza del 23 novembre 1985 nella quale Joseph Ratzinger si espresse in modo decisamente critico nei confronti del liberalismo economico[17]. Allora intese dire che il sistema liberale capitalistico non doveva venir accettato acriticamente, nemmeno con tutte le correzioni che erano intervenute dopo il suo nascere. Al contempo rifiutò anche il marxismo. La sua critica al liberalismo economico si indirizza contro una tradizione che risale fino ad Adam Smith, e cioè che etica e mercato non si concilierebbero. Secondo questa dottrina, le decisioni morali si contrapporrebbero alle leggi di mercato: attività economiche morali — secondo il comportamento criticato da Joseph Ratzinger — non avrebbero alcuna possibilità di sopravvivenza nel mercato. Etica e mercato sarebbero come un “ferro di legno”, dato che nell’economia ciò che conta è l’efficienza, non la moralità. Joseph Ratzinger fa vedere il determinismo che si nasconde in tale atteggiamento. È un modo deterministico di pensare quello secondo cui solo le leggi di mercato portano al bene e al progresso indipendentemente dalle qualità morali delle persone che agiscono da protagoniste nel mercato. Sicuramente le leggi di mercato sono vere e proprie leggi che vanno rispettate. Una morale per l’economia che creda di non poter andare d’accordo con le leggi di mercato non è morale, bensì il suo contrario: moralismo. Ma le leggi di mercato hanno un’autonomia e una validità relative. Queste esplicano la loro funzione se si collocano nell’ambito di una cultura di responsabilità etica per il bene comune, cioè in un consenso di valori. L’economia non è condotta solo da leggi, ma anche da persone. Un mero adattamento alla “realtà del mercato e ai fatti economici” non riconoscerebbe l’uomo e diverrebbe così irreale.

Queste parole hanno lo scopo di presentare l’etica come parte integrante dello sforzo per costruire dal di dentro l’agire economico. Come si spiegherà più avanti, ciò che contava per Joseph Ratzinger allora, e ora nella Caritas in veritate, era dimostrare che anche l’economia vive di presupposti che non può crearsi da sola. Nell’Enciclica Centesimus annus del 1° maggio 1991 Giovanni Paolo II ha sostenuto la stessa tesi con un linguaggio che, come uso dei termini, si avvicina molto di più alla tradizione liberale, e ha concesso definitivo diritto di cittadinanza nei confronti della dottrina della Chiesa alla cultura politica moderna sulla base del Concilio Vaticano II, includendovi il modello della libera economia di stampo sociale. Reinhard Marx, a questo proposito, scrive: «Questa logica interiore del funzionamento dell’economia di mercato l’ha riconosciuta per primo Adam Smith e l’ha descritta sistematicamente — un grande merito che non gli si può negare. Il liberalismo economico è stato un passo avanti proprio come tutto quanto il progetto di libertà della modernità.

«Tuttavia si deve qui ribadire che nei confronti del liberalismo economico la Chiesa è rimasta per lungo tempo estremamente riservata — più a lungo di quanto non ha fatto nei confronti del liberalismo politico»[18].

Nell’Enciclica Centesimus annus Giovanni Paolo II si chiede se il capitalismo sia il sistema sociale vincente e lo scopo delle fatiche. «La risposta è ovviamente complessa». Non è solo la terminologia che qui è nuova. Il Papa si schiera a favore della funzione del profitto, della ragionevole concorrenza e del libero mercato[19] e di un “buon capitalismo” (un sistema economico che riconosca il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia). E specifica: «Anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”». Rifiuta in modo altrettanto deciso il “cattivo capitalismo”, ossia quel «sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso»[20].

La Caritas in veritate ha un’altra finalità rispetto alla Centesimus annus. Per Giovanni Paolo II si trattava di dare un orientamento nella fase successiva al crollo del blocco sovietico; Benedetto XVI propone invece di utilizzare la crisi mondiale come una fondamentale pausa di riflessione e tenta di porre un fondamento antropologico e cristologico al progresso cui tende l’economia liberale. I due parlano lingue diverse, ma — malgrado l’apparenza — non si contraddicono nel contenuto.

La Caritas in veritate non rifiuta niente della Centesimus annus, anzi la presuppone e conferma. Tornando alle domande poste all’inizio di questo capitolo, il Papa non esclude l’economia dagli ambiti con cui era necessaria una riconciliazione. Nel terzo titolo si analizzeranno gli elementi che Benedetto XVI propone come contributi e fermenti del pensiero cristiano nell’ambito dell’economia moderna.

Dapprima però sono le differenze fra Centesimus annus e Caritas in veritate che balzano all’occhio: nella Caritas in veritate Benedetto XVI sostiene un rafforzamento della sovranità statale[21], non elogia il capitalismo nemmeno nella sua configurazione positiva, non pone l’accento né sulla concorrenza né sul libero mercato. Anche nei confronti di altri elementi del sistema economico liberale, come il profitto, il commercio internazionale, i mercati finanziari, la speculazione buona ecc., egli sembra assumere un atteggiamento piuttosto difensivo. Tra l’altro utilizza termini che potrebbero far fremere un economista: sembra voler introdurre elementi della gift economy nell’economia di mercato. La gift economy è tipica delle cosiddette civiltà “primitive” (per lo più di cacciatori e agricoltori) che presentano un assetto sociale in cui beni e servizi vengono forniti e prodotti senza un esplicito do ut des. La gift economy non è economia di mercato. Il Papa però non propone in nessun caso il ritorno a forme economiche premoderne, ma invita a un “allargamento della ragione” e all’introduzione di una nuova logica nell’economia: la logica della gratuità e del dono. Questo merita un chiarimento più approfondito.

III. Finalità fondamentali dell’Enciclica Caritas in veritate

1. La questione epistemologica dell’economia

Nella Caritas in veritate Papa Benedetto XVI parla direttamente della “eccessiva settorialità del sapere”[22] in ambiti specifici che hanno raggiunto un elevato grado di specializzazione al prezzo di una chiusura nei confronti del senso umano dell’oggetto di studio. Tale è il vicolo cieco in cui si è posta la scienza moderna, e quindi anche l’economia. Il Papa invece chiede «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini»[23].

Il problema cui si riferisce è parallelo all’epistemologia nel rapporto tra fede e scienze naturali. Se uno scienziato esclude consapevolmente e a priori nel suo metodo tutto ciò che non è materiale, questo metodo non potrà mai portare alla luce qualcosa di non materiale. J.B.S. Haldane, un biologo del secolo scorso, ha scritto: «My practice as a scientist is atheistic. That is to say, when I set up an experiment I assume that no god, angel or devil is going to interfere with its course»[24]. Possiamo integrare le sue parole: nemmeno persone, sentimenti e riflessioni etiche ecc. possono interferire nel corso del suo esperimento. Fin quando uno scienziato si muove entro i limiti di un simile metodo e rimane consapevolmente in questi limiti, allora il metodo può essere giustificato. Ma se attraverso un tale metodo limitato volesse dimostrare la non esistenza di qualcosa, che era già esclusa dalla scelta del metodo, allora cadrebbe in errore. Egli, proprio in quel momento, si trova in un vicolo cieco. Ciò è particolarmente importante laddove si tratta dell’agire umano, perché in quel caso si fa sentire la voce della coscienza. E l’agire economico è libero agire umano — agire che viene giudicato dalla nostra coscienza e guidato dai nostri convincimenti normativi e dalle nostre virtù oppure dai nostri vizi. I principi morali non sono fastidiose limitazioni al successo economico. Alla lunga non può esserci contraddizione tra etica ed economia: ciò che è eticamente cattivo è anche economicamente sbagliato; ciò che è sbagliato economicamente lo è anche in senso etico, poiché rappresenta un comportamento umano erroneo. Nelle parole di Benedetto XVI:

«La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano»[25].

Quando l’economia sia teorica che pratica si aprirà a un più ampio concetto di ragione — così spera Papa Benedetto XVI —, allora scoprirà nuove soluzioni per uno sviluppo umano generale[26].

Con queste enunciazioni il Papa si riallaccia a una corrente delle scienze sociali che è nata in Italia e che fuori d’Italia non è ancora conosciuta a sufficienza. Si tratta della scuola di “economia civile”[27]. Senza poterne offrire qui una spiegazione approfondita e completa, questa scuola parte da alcuni dati storici. Da secoli esiste quello che si potrebbe chiamare “risentimento cattolico” nei confronti dell’economia, della finanza, del denaro, ecc., cioè verso i componenti fondamentali del sistema economico moderno liberale. Questo “risentimento” trae origine da quattro fonti: Aristotele, che considera il denaro come mero mezzo di scambio e dunque rifiuta un incremento del denaro con il denaro come “arte dell’arricchimento innaturale” (nummus non facit nummum)[28]; il biblico divieto di usura che veniva esteso a ogni tipo di interessi, cioè a un elemento essenziale dell’economia contemporanea[29]; un certo numero di Padri della Chiesa[30]; e alcuni enunciati del Magistero, in particolare il diritto ecclesiastico: ancora nel 1745 Benedetto XIV nell’Enciclica Vix pervenit condannava severamente il prelievo di interessi, ma al contempo permetteva contratti paralleli che de facto resero possibile il pagamento del “lucrum cessans”[31].

Per contro, la stragrande maggioranza dei Padri della Chiesa aveva un atteggiamento largamente equilibrato nei confronti del commercio economico e del raggiungimento di un benessere ragionevole e misurato. Il loro atteggiamento si può riassumere così: il problema non consiste nel possesso della ricchezza, ma nel suo uso. Se si ricerca nelle fonti pertinenti della Patristica, si vede che i Padri della Chiesa non hanno sviluppato una dottrina veramente economica, bensì una dottrina sociale[32]. Alzano la voce per difendere i poveri dallo sfruttamento, condannano il lusso e lo spreco, come la pigrizia e l’approssimazione nel lavoro[33]; ma in primo luogo realizzano nel loro campo la Caritas cristiana: vengono costruiti e messi in funzione ospedali, ospizi per forestieri, mense per i poveri, ecc. Peraltro presuppongono il libero commercio e la libertà contrattuale.

Si deve poi soprattutto alla scuola francescana del XIV secolo e alla scuola di Salamanca nel XVI secolo l’aver gettato le basi fondamentali non solo per una nuova comprensione dell’economia all’interno della Chiesa, ma anche per la moderna scienza economica[34]. Il concetto di “capitale”[35], per esempio, è stato sviluppato da monaci che avevano fatto proprio il voto della povertà: il denaro attraverso il lavoro dell’uomo diventa “caput”, cioè sorgente di guadagno.

Sono stati i Francescani che per primi hanno allestito in tutta Italia una rete di più di 150 “Monti di Pietà”, una sorta di centri di prestiti su pegno, per offrire crediti accessibili ad artigiani e contadini poveri in momenti di crisi (microcredits). Questi frati erano in contatto con i poveri che diventavano regolarmente vittime degli usurai che, paradossalmente, proprio grazie al canonico divieto di chiedere interessi, si trovavano al di fuori di ogni regola e spesso pretendevano interessi esorbitanti. Al contempo i poveri venivano spinti in un’indigenza ancora più grande quando venivano loro tolti come pegno gli strumenti di lavoro o il bestiame. Questo problema doveva essere risolto con i “Monti di Pietà”, per i quali i teologi francescani, con grandi difficoltà, dovettero creare i presupposti teorici[36].

Ciò avvenne laddove lo slancio paleo-capitalistico era più forte: nelle città-Stato del primo Rinascimento e più tardi, durante l’Illuminismo, nelle cattedre delle Università di Napoli e Milano.

Questo movimento porta il nome comune di “economia civile”. Da questa scuola di pensiero vengono quei concetti dell’Enciclica che nel contesto dell’economia sono i più difficili da comprendere: gratuità, logica del dono, fraternità, reciprocità, relazionalità.

2. Il principio della gratuità, del dono e della fraternità

Benedetto XVI nella Caritas in veritate propone di «fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità»[37]. Questo “principio della gratuità”, al quale egli affianca la “logica del dono”, non esclude la giustizia e non le viene aggiunto dall’esterno in un secondo momento. «Mentre ieri si poteva ritenere che per prima cosa bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia»[38].

Nella scuola di pensiero della “economia civile” il dono e il regalo non sono la stessa cosa. In economia si vende, domina la concorrenza e bisogna ottenere profitto. Tutto ciò non è compatibile col distribuire regali. Ciò nonostante il Papa esige spazio per lo “spirito del dono”, e questo spazio di fatto esiste.

“Dono” non significa soltanto dare qualcosa senza contraccambio. Ciò sarebbe il “dono” assoluto, il “puro” regalo. Si tratta piuttosto della seguente realtà: commerciare è sempre uno scambio di merci o di altri beni materiali tra persone. Tale scambio è possibile solo all’interno di una relazione personale che può essere di svariata natura (umana, disumana, amichevole, leale, di sfruttamento, truffaldina, sbilanciata, ecc.). Per far sì che una relazione sia umana bisogna in primo luogo che ci sia un “pre-dono” (Vorgabe), ossia riconoscere l’altro come proprio prossimo con la sua dignità, fidarsi dell’altra persona e mettersi nei suoi panni. Questo pre-dono dà al rapporto commerciale il suo senso specifico: la relazione sarà umanamente corretta o scorretta, di sfruttamento o di lealtà, ecc., a seconda del modo di porsi verso il partner commerciale o verso il prossimo al quale si rivolge il commercio economico in generale. Il pre-dono è al contempo “dono-di senso” (Sinngebung). Laddove questo contenuto di senso manca, la relazione diventa disumana. Per questo il dono nello spirito della gratuità è segno di civiltà della società[39].

Che cosa sia la gratuità è difficile da definire. Il vivere insieme in modo umano è impensabile e impossibile senza la gratuità. Senza la gratuità non c’è vero incontro umano con il prossimo. Senza gratuità non c’è fiducia, cosa indispensabile per la stabilità del mercato e della società.

Il concetto di gratuità non deve essere inteso come “cose fornite gratis”, poiché si tratta di una peculiarità o di una dimensione del nostro agire. Gratuità non significa “distribuzione a prezzo zero” bensì “impagabilità”, “qualcosa che non ha prezzo”. È ciò che Kant intendeva con il concetto di dignità dell’uomo: l’uomo ha dignità ma non prezzo. La dignità umana è il fondamento e la sorgente di tutti i diritti umani e l’espressione della mutua trascendenza di persona e società: la persona, per essere sé stessa, ha bisogno di vivere in società, ma non si esaurisce in essa; la società serve alla persona, ma al tempo stesso ne è superiore. Questa differenza di mutua trascendenza in un collegamento inscindibile di compenetrazione è la dignità umana: ogni persona è unica, irripetibile, indisponibile, incommensurabile, incomunicabile. È fine in sé, non mezzo. Il comportamento “gratuito” nell’economia sta nel riconoscimento della dignità dell’altro. Gratuità significa dunque relazioni genuinamente umane, che non si lasciano strumentalizzare per scopi di profitto o di mera efficienza[40]. Questo è appunto il dilemma: la domanda di relazioni veramente umane aumenta e le “risorse” di beni relazionali sono scarse, ma questi beni relazionali non possono essere offerti dal mercato. Come si potrebbe soddisfare la richiesta se proprio l’offerta economica di una “relazione umana” distruggesse l’agognato “bene relazionale” con la sua strumentalizzazione?

La communitas antica e medievale era totalizzante, nel senso che non si concepiva una vita etica fuori della polis e nel senso che la comunità era il tutto, l’essere umano ne era solo una parte. L’età moderna è il superamento di questa tendenza totalizzante e ha condotto alla nascita dell’individuo con i suoi diritti anche contro la comunità. Si doveva, di conseguenza, trovare una nuova base per la vita in comune, giacché il concetto della totalità della comunità si era perso. Si è trovato il mercato per risolvere le tensioni economiche. Per scambiare con l’altro non ci sarebbe bisogno di riconoscere l’altro nella sua alterità drammatica (diversità vera e identità). Per esempio, in linea di massima non importerebbero la religione, la cultura, l’etnia, ecc., perché il sistema dei prezzi, agendo come mediatore, sterilizzerebbe gli elementi di potenziale contrasto: chiunque paghi o sia in grado di scambiare beni o servizi viene incluso nel sistema del mercato. La soluzione del mercato ha due effetti: l’effetto inclusivo e l’effetto di produrre solitudine e infelicità, perché il prezzo da pagare è l’abbandono della fraternità autentica. La fraternità di fondo viene relegata alla sfera privata. La fraternità universale è troppo pericolosa per la sfera pubblica, perché — essendo una manifestazione di àgape — mette in crisi l’apparente equilibrio della comunità di mercato[41].

Ai tre tipi di amore corrispondono tre valori: all’eros la libertà, alla filìa l’uguaglianza, all’àgape la fraternità. Eros e filìa sono simmetrici: al desiderio dell’eros corrisponde un bene che viene contraccambiato, alla filìa corrisponde uno scambio libero di doni. Perciò non mettono in crisi l’apparente equilibrio della comunità.

L’àgape non è simmetrica perché è imprevedibile e creativa. L’àgape è una forma di dedizione di sé stesso, un “uscire da sé stesso”: l’amato è nell’amante. Il bene per l’altro è il bene per me, il male per l’altro è il male per me. L’amante è ec-centrico: ha cambiato il suo centro, che è diventato l’amato. In questo senso l’àgape è una specie di “follia” — si è “pazzi d’amore”. La fraternità di fondo è anche fonte di potenziale sofferenza, perché espone il cuore. Ma è la vera produttrice di felicità. Senza la fraternità, la libertà e l’uguaglianza non possono fiorire in pienezza. «La grande illusione dell’umanesimo di mercato è stata pensare che si potesse salvare qualcosa di autenticamente umano rimuovendo la relazione di fraternità, con tutto il suo carico tragico di dolore e di sofferenza»[42]. Questo grande inganno dev’essere espiato e la ferita profonda alla fraternità universale dev’essere curata. La grande sfida dell’economia civile è riportare la fraternità nella sfera pubblica e nel mercato. Economia e civiltà, mercato e fraternità vanno assieme, ma senza tornare indietro nella storia. Non c’è opposizione tra libera economia di mercato e fraternità. Non si tratta di sostituire la nostra economia di mercato con una non-economia di mercato, ma di scoprire e rafforzare i molti elementi che già ora sono gratuiti: donazione di sangue e di organi, forme di volontariato sociale, open source software, e soprattutto i servizi gratuiti forniti nell’ambito della famiglia. Tutte queste attività arricchiscono antropologicamente la nostra vita e le nostre società[43].

Anzi, ribadire che l’etica faccia parte dell’economia significa anche che l’economia deve essere libera, perché non c’è eticità senza libertà. L’unica forma etica dell’economia è la libera economia di un mercato libero. Libertà autentica è libertà nella verità. Non esiste una libertà dalla verità o al di fuori della verità. Questo è vero perché una libertà senza amore non ha senso. Una persona nel deserto è libera di andare in qualsiasi direzione, ma non si sente libera finché non sa dove andare per trovare l’oasi. Allo stesso modo nessuno si sente libero se non dà sé stesso nell’amore. Siamo abituati a identificare amore con emozioni, ma amore è un atteggiamento della volontà che “vuole bene agli altri”. Amore è volere il bene degli altri. Presuppone perciò l’atteggiamento che dà agli altri il dovuto (giustizia), ma è giustizia allargata dalla comprensione, che eccede il dovuto e dà ciò di cui l’altro ha bisogno: dona e perdona. A tutto questo rimandano i concetti di dono, gratuità e fraternità.

3. Reciprocità e relazionalità

La gratuità è collegata a un’altra categoria che il Papa vuole rendere utile per l’economia, e cioè alla categoria della reciprocità e della relazione.

«La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza sé stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio»[44].

La reciprocità è il denominatore comune e la legge interiore della rete di relazioni che reggono una società. Esiste una reciprocità negativa (conflitti, guerre, vendetta, ecc.), nonché una reciprocità positiva e costruttiva che rende possibile la collaborazione e lo sviluppo civile (contratti, mercato, amicizia, amore, ecc.)[45]. La reciprocità positiva coincide con la regola aurea e rappresenta come tale un atto basilare del riconoscimento dell’altro come uguale a me[46].

Papa Benedetto analizza quattro istituzioni della vita economica nelle quali il principio della reciprocità e della relazione diventa efficace: mercato, impresa, attività imprenditoriale, autorità politica. Applicata al mercato, la reciprocità significa intendere il mercato come un incontro fra persone che entrano in relazione tra loro:

«Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro fra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri»[47].

Questo è un modello di economia di mercato che si colloca in un più ampio contesto antropologico, sociale, giuridico e politico. Il “mercato allo stato puro” non esiste, si dice nella Caritas in veritate[48]. Esso dipende da presupposti culturali e da standard etici (capitale sociale). Anche per l’economia si può applicare quanto detto da Böckenförde[49]: il mercato dipende da presupposti culturali ed economici che esso stesso non è in grado di creare.

IV. La Caritas in veritate e San Josemaría

Poiché in questa rivista buona parte degli Studi sono rivolti ad approfondire il messaggio di San Josemaría e le sue implicazioni nei diversi ambiti della vita umana, abbiamo ritenuto opportuno soffermarci su alcuni punti della sua predicazione e della sua attività pastorale, mettendoli in relazione con gli insegnamenti della Caritas in veritate.

Infatti, molte questioni e proposte discusse nella Caritas in veritate sono cruciali negli insegnamenti di San Josemaría[50]. Questo vale, in primo luogo, per il tema centrale del suo messaggio — la santificazione del lavoro in mezzo al mondo[51] — e, insieme a ciò, per la nostra questione di partenza intorno all’influenza della religione nel mondo e nella società. È stato studiato esaurientemente — in dialogo con le tesi di Max Weber[52] — come San Josemaría abbia introdotto nella tradizione cattolica l’intuizione dei riformatori protestanti circa il valore positivo della vita ordinaria. Com’è noto, Lutero introdusse nella lingua tedesca il termine Beruf e lo riservò al lavoro professionale[53]. Secondo lui, la vocazione (Berufung) propria dell’uomo è il lavoro, non la vita consacrata. Josemaría Escrivá, senza per questo limitare il concetto di vocazione, usa le espressioni “vocazione professionale” e “vocazione umana” per far capire che tutte le circostanze e le occupazioni oneste degli uomini possono rappresentare un’autentica vocazione divina se sono prese in considerazione e vissute alla luce della fede. «Parlando con rigore teologico, senza limitarci a una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà — buone, nobili, e anche indifferenti — esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l’amicizia e l’obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte»[54]. Per capire bene il pensiero di San Josemaría è importante non interpretare la proposizione “non vi sono più realtà profane” in senso di devozione o di clericalismo, o nel senso di una visione sentimentale o superficiale delle cose. San Josemaría rifiuta “le soluzioni facili e miracolistiche”; al contrario, esige “perseveranza, tenacia e ingegno” per santificare il lavoro[55]. In ogni caso, dev’essere chiaro che nessuna realtà umana onesta è esclusa dalla possibilità di essere santificata e diventare un cammino di santità: neppure l’economia e la finanza moderne. Questo è un principio che Escrivá dovette difendere espressamente a beneficio dei membri dell’Opus Dei. Il codice di diritto canonico vietava e vieta ai sacerdoti e ai religiosi di partecipare ad attività finanziarie e commerciali[56], ma non ha mai avuto difficoltà a che un cristiano normale lavorasse in questi campi. Tuttavia un decreto del 1950 proibì ai membri laici degli istituti secolari di dedicarsi ad attività economiche. A questo punto, per dissipare ogni eventuale dubbio sulla condizione laicale dei membri dell’Opus Dei, il Fondatore chiese alla Santa Sede una dichiarazione espressa secondo cui questi potevano lavorare anche in commercio vel rebus nummariis[57].

Che significa, allora, per un cristiano santificarsi nel mondo dell’economia e delle finanze in base agli insegnamenti di San Josemaría? Non è possibile in questo articolo riprendere in esame tutta la dottrina sulla santificazione del lavoro[58]; però ci sentiamo in qualche modo obbligati a soffermarci brevemente su alcuni punti che si trovano anche nella Caritas in veritate.

San Josemaría mette anzitutto in evidenza la libertà dei laici ed evita espressamente di interferire in essa. Il Fondatore dell’Opus Dei riteneva che, in quanto sacerdote, non doveva giudicare o suggerire le soluzioni tecniche: esse dovevano essere cercate attraverso il dialogo tra le parti interessate[59]. Su un altro piano, tuttavia, troviamo nei suoi insegnamenti alcuni principi orientatori, che ora potremmo formulare con la terminologia dell’Enciclica e in appoggio a essa. Infatti i suoi scritti rendono più facile un’interpretazione e un’applicazione accessibile di certi concetti, la cui comprensione potrebbe non essere facile.

Per Josemaría Escrivá la “relazionalità” è un’idea fondamentale. Molti sono i passi delle sue opere nei quali si trovano indicazioni sulla necessità dell’unione con gli altri. Questo è particolarmente valido per il lavoro, che per sua stessa natura è servizio: «Pertanto, volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicarvi questo: Per servire, servire. [...]. Questa idoneità che potremmo chiamare tecnica, questo saper fare il proprio mestiere, deve essere dotato di una caratteristica che [...] dovrebbe essere fondamentale per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune»[60]. Nelle sue opere è frequente imbattersi in una visione originale dell’idea della gratuità. Ad esempio, per mezzo di una immaginaria teoria sul lavoro e sul carattere di San Giuseppe, che gli permette di esporre le proprie convinzioni sul retto ordine dell’attività economica, scrive: «In certe occasioni, lavorando per persone più povere di lui, immaginiamo Giuseppe che accetta un compenso simbolico, quanto basta a lasciare l’altra persona con la soddisfazione di aver pagato. Ma normalmente Giuseppe si sarà fatto pagare il giusto prezzo, né più né meno. Avrà saputo esigere, secondo giustizia, quanto gli era dovuto, poiché la fedeltà a Dio non richiede la rinuncia a diritti che in realtà sono doveri: e Giuseppe era tenuto a esigere il giusto, perché con il compenso del suo lavoro doveva sostenere la Famiglia che Dio gli aveva affidato»[61]. L’esortazione a comportarsi così non può essere trascurata. Dice ancora San Josemaría, con parole che ricordano John Wesley, il fondatore del metodismo[62]: «Il cristiano non può accontentarsi di un lavoro che gli consenta di guadagnare quanto basta per sostenere sé e la propria famiglia: la sua grandezza di cuore lo spingerà a rimboccarsi le maniche per aiutare gli altri, a motivo della carità, ma anche a motivo della giustizia [...]». E poco dopo domanda: «Quanto vi costa — anche economicamente — essere cristiani?»[63].

Nell’impegno per la santificazione del lavoro (e, di conseguenza, per la santificazione dell’economia) non può mancare, infine, anche la preoccupazione per la giustizia sociale e lo sviluppo. «Si comprendono benissimo l’impazienza, l’ansia, i desideri inquieti di coloro che, con un’anima naturalmente cristiana, non si rassegnano di fronte all’ingiustizia personale e sociale che il cuore umano è capace di creare. [...] i beni della terra divisi tra pochi e i beni della cultura chiusi in cenacoli ristretti. Fuori, c’è fame di pane e di dottrina; e le vite umane, che sono sante perché vengono da Dio, sono trattate come cose, come numeri statistici. Comprendo e condivido questa impazienza: essa mi spinge a guardare a Cristo che continua a invitarci a mettere in pratica il comandamento nuovo dell’amore»[64].

Per ciò che si riferisce alla tesi centrale di questo articolo, vale a dire la relazione fra tradizione cristiana e mondo moderno, è significativo il seguente aforisma di Solco[65]:

«Per te, che desideri formarti una mentalità cattolica, universale, trascrivo alcune caratteristiche:

— ampiezza di orizzonti, e un vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica;

— anelito retto e sano — mai frivolezza — di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia...;

— una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporanei;

— un atteggiamento positivo e aperto di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita».

V. Conclusione

Papa Benedetto XVI con la Caritas in veritate ha prolungato e sviluppato l’Enciclica Centesimus annus del suo predecessore. Non elimina la conciliazione con la modernità, ma fa fare un passo avanti alla modernità pensando fino in fondo ai presupposti di quest’ultima. Anche riguardo all’economia egli tenta una “illuminazione dell’Illuminismo”, volendo liberare la ragione dai pregiudizi e dalle strettoie metodologiche e dare spazio a profonde realtà umane.

Ma che cosa vuol dire tutto questo a proposito della domanda di partenza: la Chiesa ha dunque riscoperto le sue radici riconciliandosi con l’economia moderna?

Per giudicare la continuità diacronica della dottrina sociale della Chiesa, bisogna estendere a molto prima del 1789 l’arco di tempo esaminato, rifarsi ai Padri della Chiesa, includere i primi secoli dell’era cristiana e tener conto della tradizione prima della Rivoluzione Francese.

In questo articolo è stato possibile farlo solo in forma di abbozzo. I Padri della Chiesa, e con essi la tradizione cristiana, hanno messo al centro, anche nel commercio, la persona con la sua libertà e dignità. Contemporaneamente hanno fissato un netto limite all’adeguamento della condotta cristiana nella sfera pubblica nell’ambito dello Zeitgeist allora dominante. In questo modo hanno dato un’indicazione su che cosa può significare anche per l’economia di oggi una “purificazione della ragione partendo da Dio”. A ciò si riallaccia l’Enciclica Caritas in veritate.

[1] Ho usato l’edizione “reprint” del 2006 nella casa editrice VDM Dr. Müller, Saarbrücken: G. JELLINEK, Die Erklärung der Menschen-und Bürgerrechte. Ein Beitrag zur modernen Verfassungsgeschichte. Terza edizione, postuma, controllata e completata da Walter Jellinek, 1919.

[2] Ibidem, 57.

[3] Da questo punto di vista, T. RENDTORFF analizza l’opera di Jellinek nel suo saggio «Menschenrechte als Bürgerrechte. Protestantische Aspekte ihrer Begründung», in: E.-W. BÖCKENFÖRDE-R. SPAEMANN (edd.), Menschenrechte und Menschenwürde. Historische Voraussetzungen - säkulare Gestalt - christliches Verständnis, Klett-Cotta, Stuttgart 1987, 93 ss. A Rendtorff devo anche le argomentazioni che seguono su Max Weber.

[4] Pubblicato per la prima volta sotto il titolo «Die protestantische Ethik und der “Geist” des Kapitalismus», in: Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, volumi XX e XXI, 1905; uso l’edizione in M. WEBER, Die Protestantische Ethik I. Eine Aufsatzsammlung, edito da Johannes Winkelmann, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 19816, 27-277.

[5] Così T. RENDTORFF, Menschenrechte (FN3), 98, con altre prove del rapporto tra Max Weber e Georg Jellinek.

[6] Per una introduzione e un primo sguardo, vedi L. ROOS, «Menschen Märkten und Moral. Die Botschaft der Enzyklika Caritas in veritate», Kirche und Gesellschaft n. 362, edito da Katholische Sozialwissenschaftliche Zentralstelle, Mönchengladbach, Bachem, Köln 2009; S. BERETTA ET AL. (edd.), Amore e Verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, Paoline, Milano 2009; Benedetto XVI, Caritas in veritate. Linee guida per la lettura, a cura di G. CAMPANINI, EDB, Bologna 2009; AA.VV., Carità globale. Commento alla Caritas in veritate, LEV, Città del Vaticano 2009.

[7] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate. Linee guida per la lettura a cura di G. CAMPANINI, EDB, Bologna 2009, 25 ss. Vedi anche P.J. CORDES, «Kirchliche Soziallehre und Offenbarung. Zur Enzyklika Caritas in veritate», in: Die Neue Ordnung 5/2009, 234-332.

[8] Caritas in veritate, n. 75. Forse anche per sottolineare questo aspetto si è scelto l’anniversario dell’Enciclica Populorum progressio anziché un’altra ricorrenza della Rerum novarum.

[9] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Evangelium vitae, n. 83, dove il Papa afferma che è urgente coltivare uno sguardo contemplativo che non pretenda di impossessarsi della realtà, ma l’accolga come un dono.

[10] Cfr. le osservazioni di P.T. BAUER, Dalla sussistenza allo scambio. Uno sguardo critico sugli aiuti allo sviluppo. IBL Libri, Torino 2009, 87.

[11] Cfr. R. SPAEMANN-R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, Piper, München/Zürich 1985², 274 ss.

[12] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate Linee guida per la lettura, a cura di G. CAMPANINI, EDB, Bologna 2009, 21.

[13] Caritas in veritate, n. 56.

[14] Caritas in veritate, n. 12.

[15] BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli Auguri natalizi (22 dicembre 2005), www.vatican.va.

[16] Cfr. BENEDETTO XVI, ibidem. Riferisce questo enunciato al diritto di libertà religiosa.

[17] J. RATZINGER, «Marktwirtschaft und Ethik», in: Lothar Roos (ed.) Stimmen der Kirche zur Wirtschaft, Bachem, Köln 1986, 50-58 (disponibile anche su www.ordosocialis.de). Recentemente è stata ripubblicata la traduzione italiana: J. RATZINGER, «Chiesa ed economia. Responsabilità per il futuro dell’economia mondiale», in: Communio (edizione italiana). Fascicolo n. 218, 2008, 83-89.

[18] R. MARX, Das Kapital. Ein Plädoyer für den Menschen, Pattloch, München 2008, 82. In italiano il libro è apparso con il titolo: Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, Rizzoli, Milano 2009. Cfr. anche M. RHONHEIMER, «La realtà politica ed economica del mondo moderno e i suoi presupposti etici e culturali. L’Enciclica Centesimus annus, 1-V-1991», in G. BORGONOVO-A. CATTANEO (edd.), Giovanni Paolo Teologo. Nel segno delle Encicliche, Mondadori, Milano 2003, 142 ss.

[19] Centesimus annus, n. 34, AAS 1991, 793-867: «Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni».

[20] Cfr. Centesimus annus, n. 42.

[21] Cfr. Caritas in veritate, n. 24, e in particolare n. 41.

[22] Caritas in veritate, n. 31.

[23] Caritas in veritate, n. 32.

[24] J.B.S. HALDANE, Faith and Fact, Watts & Co, London 1934.

[25] Caritas in veritate, n. 34.

[26] Cfr. Caritas in veritate, n. 31.

[27] Cfr. per uno sguardo generale, in primo luogo, L. BRUNI-S. ZAMAGNI, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004; L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009.

[28] Si veda ARISTOTELE, Politica, I (A), 1258 b, 2-8: «Perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (…), sicché questa è, tra le forme di guadagno, la più contraria a natura». Su ciò B. SCHEFOLD, «Platone (428/427-348/347) e Aristotele (348-322)», in J. STARBATTY (ed.), Klassiker des ökonomischen Denkens. Von Platon bis John Maynard Keynes, Nikol, Hamburg 2008, 19-55, 39.

[29] I brani principali dell’Antico Testamento sono: Es 22,24; Lv 25,35-37; Dt 23,20-21; cfr. anche Sal 15,5; Prv 28,8; Ez 18,8. 13. 17; 22,12. Nel Nuovo Testamento è Lc 6,35. Per un commento esegetico si veda A. TOSATO, Vangelo e ricchezza. Nuove prospettive esegetiche, a cura di D. ANTISERI, F. D’AGOSTINO e A. PETRONI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, 272 ss.

[30] Cfr. per esempio LATTANZIO, Institutiones divinae 6,18: AMBROGIO, Tb 7; LEONE I MAGNO, Sermo 17,3. Le citazioni sono tratte da R. SIERRA BRAVO (ed.), Diccionario Social de los Padres de la Iglesia, Edibesa, Madrid (s.d.), 376 ss. (voce “usura”).

[31] Cfr. H. DENZINGER-P. HÜNERMANN, Enchiridion Symbolorum, EDB, Bologna 20034, nn. 2546-2550.

[32] Cfr. E. DASSMANN, Kirchengeschichte I. Ausbreitung, Leben und Lehre der Kirche in den ersten drei Jahrhunderten, Kohlhammer, Stuttgart/Berlin/Köln 1991, 239-250; Id., Kirchengeschichte II/2. Theologie und innerkirchliches Leben bis zum Ausgang der Spätantike, Kohlhammer, Stuttgart/Berlin/Köln 1999, 225-233. Inoltre: W. SCHWER, voce “Armenpflege”, in: TH. KLAUSER (Hrsg.), Reallexikon für Antike und Christentum, Anton Hiersemann, Stuttgart 1950, 689-698; MARA, voci “poveri-povertà” e “ricchi-ricchezza-beni”, in: Dizionario Patristico e di Antichità cristiane, Marietti, Genova/Milano 2008; O. BAZZICHI, Dall’usura al giusto profitto. L’etica economica della Scuola francescana, Effatà editrice, Torino 2008, 32 ss.; R. SIERRA BRAVO, Diccionario Social de los Padres de la Iglesia, Edibesa, Madrid (s.d.). Per la descrizione della situazione storica in generale, cfr. T. HEINZE, Konstantin der Große und das konstantinische Zeitalter in den Urteilen und Wegen der deutsch-italienischen Forschungsdiskussion, Herbert Utz Verlag, München 2005, 313 ss.

[33] Cfr. A. LUCIANI, Etica, Economia, Finanza globale, LEV, Città del Vaticano 2008, 57.

[34] Per uno sguardo storico chiarificatore, vedi O. BAZZICHI, Dall’usura al giusto profitto. L’etica economica della Scuola francescana, Effatà editrice, Torino 2008.

[35] Cfr. sulla storia del termine M.-E. HILGER, «Kapital, Kapitalist, Kapitalismus», in: O. BRUNNER-W. CONZE-R. KOSELLECK (edd.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Studienausgabe, Band 3, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, 399-428; qui interessano particolarmente 403 ss.

[36] La Bolla Inter multiplices del 4 maggio 1515 di Leone X, che applica le conclusioni del quinto Concilio Laterano, ha scomunicato tutti coloro che criticavano i “Montes pietatis” per il fatto che questi pretendevano un modesto compenso per la concessione del credito. Nella Bolla si fa riferimento alle opinioni divergenti. Il divieto di pretendere interessi rimase in vigore anche dopo questa Bolla perché l’interesse per il prestito venne dedicato ai salari degli impiegati e alle spese aggiuntive del “Monte di Pietà” e non come pagamento per il prestito. Cfr. H. DENZINGER-P. HÜNERMANN, Enchiridion Symbolorum, EDB, Bologna 20034, nn. 1442-1444.

[37] Caritas in veritate, n. 34.

[38] Caritas in veritate, n. 38.

[39] Cfr. P.P. DONATI, voce “Dono”, in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 279-291.

[40] Cfr. L. BRUNI, voci “Fraternità” e “Gratuità” in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 439-444. 484-488; anche da un punto di vista giuridico: A. GALASSO-S. MAZZARESE (edd.), Il principio di gratuità, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano 2008.

[41] Cfr. L. BRUNI, voce “Communitas” in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 202-208.

[42] L. BRUNI, voce “Fraternità” in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 442.

[43] Cfr. M.P. CHIRINOS, Claves para una antropología del trabajo, EUNSA, Pamplona 2006. In italiano: Un’antropologia del lavoro: il “domestico” come categoria, Edusc, Roma 2005.

[44] Caritas in veritate, n. 53.

[45] Cfr. in proposito L. BRUNI, voce “Reciprocità”, in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 652-660.

[46] M. RHONHEIMER, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando Editore, Roma 1994, 242 ss., analizza questo concetto in modo accurato.

[47] Caritas in veritate, n. 35. Per un primo sguardo ai diversi concetti di “mercato” in prospettiva storica, cfr. K. RÖTTGERS, voce “Markt”, in: J. RITTER-K. GRÜNDER (edd.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Band 5, Schwabe & Co. AG, Basel/Stuttgart 1980, 753-758.

[48] Caritas in veritate, n. 36.

[49] Famoso il suo articolo «Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation», pubblicato per la prima volta in: Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien. Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart 1967, 75-94; successivamente rieditato parecchie volte, per esempio in: E.-W. BÖCKENFÖRDE, Der säkularisierte Staat. Sein Charakter, seine Rechtfertigung und seine Probleme im 21. Jahrhundert, Carl Friedrich von Siemens Stiftung, München 2007, 43-72. Da questa edizione, pagina 71, è presa la nostra citazione: «Der freiheitliche, säkularisierte Staat lebt von Voraussetzungen, die er selbst nicht garantieren kann». («Lo Stato liberale e secolarizzato vive di presupposti che egli stesso non è in grado di garantire»). Per una versione italiana dell’articolo si veda: «La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione», in: P. PRODI-L. SARTORI (edd.), Cristianesimo e potere. Atti del seminario tenuto a Trento il 21-22 giugno 1985 (Istituto Trentino di Cultura. Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze Religiose in Trento, 10), Bologna (EDB) 1986, 101-122.

[50] Questo non vuol dire che gli insegnamenti di San Josemaría abbiano influito direttamente sul contenuto della Caritas in veritate. Invece, ha avuto sicuramente un’influenza diretta sull’Enciclica la “economia di comunione”, un modello di economia cristianamente ispirata, promosso da Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari. Cfr. GIUSEPPE ARGIOLAS, voce “Economia di comunione”, in: L. BRUNI-S. ZAMAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 332-345.

[51] Un testo straordinariamente chiarificatore è: A. DE FUENMAYOR, V. GÓMEZ-IGLESIAS e J. L. ILLANES, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè editore, Milano 1991, in particolare pp. 35-48.

[52] Cfr. M. RHONHEIMER, «Bejahung der Welt und christliche Heiligkeit», in: Verwandlung der Welt. Zur Aktualität des Opus Dei, Adamas, Köln 2006, pp. 49 ss. Edizione castigliana: Afirmación del mundo y santidad cristiana, en Transformación del mundo. La actualidad del Opus Dei, Rialp, Madrid 2006, pp. 53-90.

[53] Cfr., per maggiori dettagli, M. WEBER, Die Protestantische Ethik I. Eine Aufsatzsammlung, pubblicato da Johannes Winkelmann, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh, 19816, pp. 66 ss.

[54] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 112.

[55] Cfr. SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 50.

[56] Canoni 286 e 672 CIC 1983.

[57] Altri dati in A. DE FUENMAYOR, V. GÓMEZ-IGLESIAS e J. L. ILLANES, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè editore, Milano 1991, pp. 226 ss.

[58] Cfr. J. L. ILLANES, La santificazione del lavoro: il lavoro nella storia della spiritualità, Ares, Milano 2003.

[59] Cfr. SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 184: «So che non tocca a me trattare i temi secolari e contingenti, propri della sfera temporale e civile, che il Signore ha affidato alla libera e serena discussione degli uomini. So anche che le labbra del sacerdote, evitando ogni partigianeria umana, devono aprirsi soltanto per condurre le anime a Dio, alla sua dottrina spirituale di salvezza, ai sacramenti che Gesù ha istituito, alla vita interiore che ci avvicina al Signore nella consapevolezza di essere suoi figli e quindi fratelli di tutti gli uomini, senza eccezione alcuna».

[60] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, nn. 50 e 51.

[61] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 52.

[62] Citato da M. RHONHEIMER, «Bejahung der Welt und christliche Heiligkeit», in: Verwandlung der Welt. Zur Aktualität des Opus Dei, Adamas, Köln 2006, 62: «Earn what you can, save what you can, give what you can». Edizione castigliana, p. 66.

[63] SAN JOSEMARÍA, Amici di Dio, n. 126.

[64] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 111. Anche questa preoccupazione di San Josemaría si tradusse nell’impulso a un’ampia gamma di iniziative sociali, educative e assistenziali; cfr. B. VILLEGAS, «Lo sviluppo delle società», in: Romana n. 47, Luglio-Dicembre 2008, 360 ss.

[65] SAN JOSEMARÍA, Solco, n. 428, Ares, Milano.

Romana, n. 49, Luglio-Dicembre 2009, p. 388-402.

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