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Nel numero 322 del mensile "Studi Cattolici", corrispondente al mese di dicembre 1987, è stata pubblicata un'intervista rilasciata da Mons. Alvaro del Portillo a Cesare Cavalleri, direttore della rivista, su temi connessi con il recente Sinodo dei Vesc

1. Quale elemento di una definizione del laico Le sembra particolarmente chiarito, o sottolineato, dai lavori del Sinodo?

Il Sinodo ha attinto al magistero conciliare, sottolineando fedelmente i due elementi qualificanti del laicato che si trovano in quel celeberrimo passo della Lumen gentium in cui è detto che i laici sono "i fedeli incorporati a Cristo per il battesimo", aggiungendo che "l'indole secolare è propria e peculiare del laico" (n. 31). In primo luogo viene sottolineata l'identità cristiana, comune a tutti i fedeli, e poi il tratto specifico: il laico, cioè, è quel fedele cristiano che vive in maniera specifica la secolarità, che è una dimensione comune a tutta la Chiesa ma che non qualifica, di per sé, né i sacerdoti né i religiosi, che sono definiti da altre coordinate teologiche. La secolarità, infatti, non è un dato meramente sociologico, cioè il fatto di vivere materialmente nel mondo (evidentemente, non si può vivere altrove, finché si rimane quaggiù): è, come era precisato già nei Lineamenta che sono serviti di base ai lavori sinodali, un "dato teologico", cioè indicativo del modo in cui il cristiano si rapporta a Dio e conduce a Dio tutte le cose; e non avrebbe senso teologico se non fosse collegato all'elemento primario, cioè all'identità del cristiano. Parafrasando una frase di Mons. Escrivá, possiamo dire che il laico cristiano è colui che è chiamato a "vedere Dio nel mondo", in tutte e singole le occupazioni nella vita ordinaria, professionale, famigliare e sociale. Ecco perché il Fondatore dell'Opus Dei affermava che la missione nella Chiesa e la missione nel mondo, per il laico non sono "contrapposte", ma "sovrapposte".

2. Quali sono le condizioni affinché la presenza dei laici cristiani nelle attività temporali sia effettivamente di lievito e non di assimilazione dei modelli offerti dalle società "secolarizzate"?

Certo, secolarità non vuol dire secolarizzazione. Guai se, anziché una cristianizzazione del mondo avvenisse una mondanizzazione dei cristiani. Santificare il mondo dall'interno, secondo il compito che il Vaticano II riconosce ai laici, non è un fatto automatico, nel senso che non basta che un'attività sia svolta da un cristiano perché sia immediatamente santificata. Innanzitutto il cristiano deve vivere in grazia, nutrendosi dei sacramenti —in particolare dell'Eucaristia e della Penitenza—, conducendo una vita di orazione e di sacrificio, e impegnandosi a sviluppare tutte le virtù, umane e soprannaturali. Per questo è imprescindibile anche un'adeguata formazione dottrinale, con un'approfondita conoscenza dell'insegnamento della Chiesa nei vari campi. E poi l'azione nel mondo deve seguire le leggi intrinseche della creazione (la ricerca della perfezione anche umana del lavoro è una condizione per santificarlo) ed è orientata da quel senso di offerta in cui fra l'altro si esprime, sempre secondo la Lumen gentium, la partecipazione dei laici al sacerdozio regale di Cristo.

In definitiva il senso dell'azione dei cristiani nel mondo può essere inteso solo all'interno della chiamata universale alla santità, che comporta ciò che il nostro Fondatore chiamava "unità di vita": la reale incidenza che la comunione con Cristo deve avere nella realizzazione di ogni lavoro cristiano.

3. Effettivamente il Sinodo ha rilanciato la "chiamata universale alla santità" proclamata dal Concilio Vaticano II: ma come evitare che la stessa espressione "chiamata universale alla santità" diventi una specie di slogan, e come realizzarla nella pratica?

Un conto è la vocazione, e un altro è la risposta alla vocazione. Il Signore chiama tutti ad essere santi, e chiama il laico ad esserlo nel mondo. I risultati dipendono dalla generosità della risposta, cioè dalla corrispondenza alla grazia. In primo luogo occorre l'impegno, la decisione di rispondere, e poi bisogna adoperare i mezzi: sacramenti, orazione, mortificazione, secondo una genuina spiritualità laicale. Santità è eroismo, e l'accessibilità che proviene dalla chiamata universale, non significa né sconti né facilitazioni. Santità è sempre e comunque identificazione con Cristo crocifisso e risorto, e non si può aspirare alla risurrezione senza passare attraverso la Croce.

4. Qual è l'esperienza dell'Opus Dei in materia di collaborazione e di servizio nei confronti delle Chiese locali?

L'Opus Dei esiste soltanto per servire la Chiesa, e non può esservi contrapposizione —sarebbe un assurdo teologico e pratico— tra Chiesa universale e Chiese particolari. Come svolge questo servizio? Non mi dilungo sugli aspetti organizzativi che sono chiaramente espressi nella costituzione apostolica Ut sit che ha eretto l'Opus Dei in Prelatura personale, e negli altri documenti. Per andare al nocciolo del problema, dirò che l'Opus Dei svolge il suo servizio alla Chiesa attraverso una copiosa semina di santità, non solo tra i suoi membri, ma anche in tutte le persone che si avvicinano agli apostolati della Prelatura o che sono raggiunte dall'apostolato "di amicizia e di confidenza", da anima a anima, che tutti i membri svolgono nel loro ambiente. Chi entra in contatto con l'Opus Dei, insomma, è invitato a prendere sul serio i propri impegni battesimali, il che comporta, fra l'altro, una fedele obbedienza al magistero del Papa e dei Vescovi. Se un cristiano si decide a ricercare la santità, si produce di conseguenza un irraggiamento di iniziative, suggerite dalla creatività di ciascuno e da realizzare insieme ad altri, in una grande mobilitazione per il Regno di Cristo. L'Opus Dei accende la scintilla perché il fuoco che Cristo è venuto a portare sulla terra si propaghi. E' un contributo specifico ad arricchire la comunione dei santi: la Chiesa progredisce a forza di santità; e incoraggiare i laici ad essere santi secondo il modo loro proprio, "alle frontiere della storia", come ha detto Giovanni Paolo II nell'omelia conclusiva del Sinodo, è il servizio che l'Opus Dei si sforza di rendere alla Chiesa.

5. Che rapporto ha l'Opus Dei con i Movimenti ecclesiali?

Un rapporto di stima e di rispetto reciproci. Ringrazio Dio con tutto il cuore quando vedo i frutti di vita cristiana che i vari Movimenti suscitano in tutto il mondo, e chiedo al Signore che crescano sempre più per il bene di tutta la Chiesa.

E' noto, per altro, che l'Opus Dei non è un Movimento, bensì una Prelatura personale, con una precisa configurazione giuridica, diversa da quella dei Movimenti. Una Prelatura è una struttura gerarchica della Chiesa, cioè uno dei modi di auto-organizzazione che la Chiesa si dà in ordine al raggiungimento dei fini che Cristo le ha assegnato.

Il Concilio Vaticano II ha evidenziato la natura delle diocesi e delle altre strutture gerarchiche ad esse più o meno equiparate, come comunità cristiane costituite da un Pastore proprio, da un proprio clero e da un popolo cristiano, uniti dai vincoli della communio fidelium e della communio hierarchica.

Nell'Opus Dei troviamo un Prelato, che è l'Ordinario proprio, un clero incardinato alla Prelatura, e dei fedeli laici —che sono la stragrande maggioranza— in unità organica e corresponsabile, secondo la particolare communio fidelium specificata dai fini della Prelatura, che sono la ricerca della santità nel proprio stato e nel proprio ambiente attraverso la santificazione del proprio lavoro professionale, e la diffusione apostolica della chiamata universale alla santità.

Tra il Prelato, il clero e i fedeli laici intercorrono i vincoli della communio hierarchica, sempre nell'àmbito determinato dai fini della Prelatura.

Questi elementi sono presenti nell'Opus Dei fin dall'inizio: posso testimoniarlo per diretta conoscenza di causa. Pertanto l'Opus Dei, che come Prelatura personale ha ricevuto la configurazione giuridica coerente al carisma fondazionale di Mons. Josemaría Escrivá, è geneticamente diversa rispetto ai Movimenti ecclesiali.

Romana, n. 5, Luglio-Dicembre 1987, p. 237-239.

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