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Articolo “Mettere Dio vicino a noi”, in occasione del V anniversario della elezione di Benedetto XVI, pubblicato su Avvenire, Italia (21-IV-2010)

Si compiono cinque anni dall’elezione del Cardinale Joseph Ratzinger a successore di San Pietro come capo della Chiesa Cattolica. Giovanni Paolo II era morto il 2 aprile 2005, e le televisioni avevano trasmesso tutta una serie di servizi informativi senza precedenti. E in mezzo a quel clima di commozione e di affetto verso il Pontefice defunto, ancora palpabile per le strade di Roma, il 19 aprile 2005 abbiamo visto per la prima volta l’amabile figura del nuovo Papa al balcone centrale della Basilica di San Pietro.

Tra i motivi di riconoscenza a Benedetto XVI vorrei mettere in evidenza la sua azione costante per far conoscere il Dio vicino. Questa espressione — tratta dal titolo di un libro del Cardinale Ratzinger sull’Eucaristia — è anche un modo affettuoso di parlare del Creatore, che la fede ci mostra amorevole e prossimo, interessato alle vicende delle sue creature, come affermava un Santo dei nostri giorni. Infatti San Josemaría ricordava spesso che, in mezzo al trambusto quotidiano, a volte “viviamo come se il Signore fosse lassù, lontano, dove brillano le stelle, e non pensiamo che è sempre anche al nostro fianco. E lo è come un Padre amoroso — vuol bene a ciascuno di noi più di quanto tutte le madri del mondo possano voler bene ai loro figli — per aiutare, ispirare, benedire... e perdonare” (Cammino, n. 267).

Dio, che non è assoggettato al tempo, adotta il tempo in Gesù Cristo e si dona all’umanità. Come ricorda spesso il Papa, Dio si è fatto uomo perché noi potessimo più facilmente accoglierlo e amarlo. E durante questi anni, Benedetto XVI ha mostrato in modo evidente, instancabilmente, che Dio è Amore e che non si comincia a essere cristiano come frutto di una decisione etica o di una grande idea, ma per l’incontro con una Persona — Gesù di Nazaret — che apre nuovi orizzonti alla vita (Deus caritas est, n. 1). In un mondo nel quale Dio potrebbe sembrare assente o lontano, non interessato agli uomini, la catechesi del Papa lo avvicina alla vita quotidiana, allo stesso passo dell’uomo e della donna del XXI secolo.

L’attività apostolica del cristiano consiste proprio nell’aiutare gli altri a conoscere Gesù in mezzo alla loro esistenza ordinaria, affinché incontrino Dio e parlino con Lui in ogni momento — non solo nelle circostanze dolorose —, coniugando un “Tu” e un “io” pieni di senso. Un “Tu” che, per noi cattolici, raggiunge il massimo grado nel sacramento dell’Eucaristia, sorgente della vita della Chiesa.

Per chi si sforza di “vivere” la Santa Messa, qualsiasi attività umana nobile può acquistare — per così dire — una dimensione liturgica, proprio per l’unione al Sacrificio di Cristo. In questa prospettiva, le attività familiari, professionali e sociali, che occupano la maggior parte della giornata di una persona, non l’allontanano dal Signore; al contrario, anche i contrattempi, le relazioni e i problemi che esse recano con sé possono alimentare la sua orazione. Se ci appoggiamo alla grazia, persino l’esperienza della debolezza, delle contrarietà, della stanchezza che ogni impegno umano comporta, ci rende più realisti, più umili, più comprensivi, più fratelli degli altri. Qualunque successo e qualunque gioia, per chi cammina al passo di Dio, è un’occasione per rendere grazie e per ricordarsi che dobbiamo stare sempre al servizio suo e dei nostri fratelli. Vivere questa amicizia con Dio — ricorda Benedetto XVI nella sua ultima Enciclica — è il modo di “trasformare i ‘cuori di pietra’ in ‘cuori di carne’ (cfr. Ez 36,26), così da rendere ‘divina’, e perciò più degna dell’uomo, la vita sulla terra” (Caritas in veritate, n. 79).

Gesù percorre le strade della Palestina e si accorge immediatamente del dolore dei suoi contemporanei. Perciò, quando il cristiano conosce e ama il “Dio vicino”, non rimane indifferente alla sorte degli altri. È il “circolo virtuoso” della carità: la vicinanza di Dio alimenta la vicinanza con gli uomini, provoca “la disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso” (Caritas in veritate, n. 78).

Al contrario, la lontananza da Dio, l’indifferenza verso il Creatore, conducono prima o poi a ignorare i valori umani, che allora perdono ogni fondamento. “È la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi e insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama a uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti” (ibidem).

Come concepisce Benedetto XVI la sua missione di capo della Chiesa universale? Nella Messa d’inizio del Pontificato, spiegava che il compito del Pastore potrebbe sembrare faticoso, ma in realtà s’innalza come un compito «bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo». In quella stessa occasione affermava che «non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo» e «non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui» (Omelia, 24-IV-2005). Così il Papa intende la sua missione: comunicare agli altri la gioia che proviene da Dio. Suscitare nel mondo un nuovo dinamismo nell’impegno di dare una risposta umana all’amore di Dio.

In questi cinque anni di Pontificato, non sono mancati al Papa gli attacchi provocati da quelli che s’impegnano a scacciare il Creatore di tutte le cose dalla società degli uomini; neppure sono mancate le sofferenze causate dalla incoerenza e dai peccati di alcune persone chiamate a essere “sale della terra” e “luce del mondo” (Mt 5,14-16). Niente di questo ci può meravigliare, perché le difficoltà fanno parte dell’itinerario normale del cristiano, poiché il discepolo non è più del maestro, come annunciò Cristo: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Allo stesso tempo non dimentichiamo ciò che il Signore ha aggiunto: “Se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (ibidem).

In questo consiste l’ottimismo indistruttibile del cristiano, stimolato dallo Spirito Santo, che non abbandona mai la Chiesa. Historia docet: quante volte, nel corso di venti secoli, si sono alzate voci infauste, che annunciavano la fine della Chiesa di Cristo! Eppure, con l’impulso del Paraclito, superate le prove, essa si è poi dimostrata più giovane e più bella, piena di energia nel condurre gli uomini lungo i sentieri della salvezza. Lo abbiamo visto in questi anni: l’autorità morale e intellettuale del Papa, la sua vicinanza e il suo interessamento per quelli che soffrono, la sua fermezza in difesa della Verità e del Bene, sempre con carità, hanno fortificato negli uomini e nelle donne i loro convincimenti. Il Romano Pontefice continua a essere un faro che illumina le intricate vicissitudini terrene.

Nel compimento della mia attività episcopale, migliaia di persone di buona volontà — cattolici e non cattolici, e anche numerosi non cristiani — mi hanno confidato che le risposte chiare e ottimiste date da Benedetto XVI ai diversi drammi dell’umanità per loro hanno avuto un significato di conferma del Vangelo, o un motivo di avvicinamento alla Chiesa, ma soprattutto un rinnovato interesse ad avvicinarsi al “Dio vicino” che il Papa proclama. Siamo in molti quelli che ogni giorno ci sentiamo arricchiti da questo annuncio gioioso di Benedetto XVI, condito dalla luce della fede, esposto con tutte le risorse dell’intelletto, con un linguaggio cristallino e con la testimonianza della sua relazione personale con Gesù Cristo. Che il Signore ce lo conservi per molti anni come guida della Chiesa, per il bene dell’umanità intera.

+ XAVERIUS ECHEVARRÍA

Prælatus Operis Dei

Romana, n. 50, Gennaio-Giugno 2010, p. 115-117.

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