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Quale impulso può ricevere la Teologia dall’insegnamento di San Josemaría?

Fernando Ocáriz

Vice Gran Cancelliere della Pontificia Università della Santa Croce. Discorso pronunciato il 14-XI-2013 durante il Convegno “San Josemaría e il pensiero teologico”.

1. I santi e le fonti della Teologia

Nel 1993, nel contesto di un Convegno sugli insegnamenti di San Josemaría, il Cardinale Joseph Ratzinger spiegava che il teologo «dev’essere uomo di scienza, ma anche, e proprio in quanto teologo, uomo d’orazione. Deve essere attento non solo al divenire della storia e allo sviluppo delle scienze, ma anche — e ancor più — alla testimonianza di chi, dopo avere percorso fino in fondo il cammino dell’orazione, ha raggiunto, restando ancora sulla terra, le alte vette dell’intimità divina; alla testimonianza cioè di quelli che, nel linguaggio ordinario, indichiamo con il qualificativo di santi»[1].

La Teologia contemporanea riconosce il valore ispiratore della vita spirituale, e pertanto dei grandi santi, superando così la frattura tra teologi e spirituali dei secoli passati[2]. Tuttavia, pur affermando la connessione tra Teologia e spiritualità, non sembra che si tenga sufficiente conto degli insegnamenti dei santi, almeno esplicitamente, se non nelle questioni più immediatamente relative alla spiritualità. In molti casi, le testimonianze dei santi hanno un influsso più o meno importante sugli approcci e sulla verifica delle conclusioni del lavoro teologico, ma non ne costituiscono vere fonti (o “luoghi”). Di fatto sono poco o nulla citati, forse perché i santi non hanno esposto i loro insegnamenti in modo discorsivo e deduttivo e, in non pochi casi, essi riguardano più direttamente gli stati soggettivi dell’anima che non i temi oggettivi della dogmatica[3]. Ma in realtà, come osservava nel 2011 la Commissione Teologica Internazionale, «la Teologia non è soltanto scienza ma anche sapienza […]. La persona umana non si accontenta di verità parziali, ma cerca di unificare elementi e aree di conoscenza diversi in una comprensione della verità ultima di tutte le cose e della vita umana stessa. Questa ricerca di sapienza indubbiamente anima la stessa Teologia, e la pone in stretta relazione con l’esperienza spirituale e con la sapienza dei santi»[4].

Non ci stiamo, ovviamente, riferendo ai santi che hanno esposto la propria dottrina in modo scientifico, come San Tommaso d’Aquino, ma a quelli che, con i loro scritti e con il loro esempio, ci hanno lasciato un’ampia dottrina sul modo pratico di rispondere alla chiamata di Dio alla santità: soprattutto quelli che sono stati “maestri di vita spirituale”.

Si è affermato che «i grandi maestri spirituali, ognuno con le proprie diverse sfumature, apportano sempre luci particolarmente intense non tanto alla Teologia propriamente detta quanto al contenuto e significato dell’esistenza cristiana (…), che altro non è che l’imitazione e identificazione dei cristiani con Cristo»[5]. Tuttavia, queste luci possono illuminare non poco la riflessione teologica accademica. Inoltre, il fatto che si tratti di maestri di vita spirituale non esclude che su alcune questioni possano offrire direttamente luci alla Teologia sistematica ed essere fonte di ispirazione per il lavoro teologico. Giovanni Paolo II si espresse in tal senso su San Josemaría Escrivá de Balaguer, affermando che «come altre grandi figure della storia contemporanea della Chiesa, può essere fonte di ispirazione anche per il pensiero teologico. In effetti, la ricerca teologica, che svolge una mediazione imprescindibile nei rapporti tra la fede e la cultura, progredisce e si arricchisce attingendo alla fonte del Vangelo, sotto la spinta dell’esperienza dei grandi testimoni del cristianesimo»[6]. C’è infatti una conoscenza teologica alla quale si accede mediante un processo discorsivo della ragione, ma ve ne è anche un’altra resa possibile dalla connaturalità creata dall’amore di Dio. Quest’ultima è tipica dei santi e il teologo ne dovrebbe tener conto.

Di questo tema parlano molti autori, sia per sostenere che i santi sono i veri teologi (hanno conosciuto profondamente Dio perché lo hanno amato molto), sia per sottolineare che il teologo deve essere un uomo di preghiera, un uomo che ama Dio[7]. La ragione è, secondo le parole di San Josemaría, che «la carità, infusa da Dio nell’anima, trasforma dal di dentro l’intelligenza e la volontà»[8]. La carità, infatti, implicando una comunione affettiva con Dio, apre l’anima a una più profonda conoscenza di Lui: apre alla contemplazione, a quel simplex intuitus veritatis ex caritate procedens[9]. «La comprensione della fede — leggiamo nell’Enciclica Lumen fidei, pubblicata da Papa Francesco — è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà»[10]. E. aggiunge: «Si tratta di un modo relazionale di guarda¬re il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose»[11].

2. I santi tra l’auditus fidei e l’intellectus fidei

Nell’Enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II ricordava che «la Teologia si organizza come scienza della fede alla luce di un duplice principio metodologico: l’auditus fidei e l’intellectus fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa. Con il secondo, la Teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa»[12]. L’auditus fidei e l’intellectus fidei non vanno separati perché si integrano mutuamente.

Possiamo allora porre la domanda: per la Teologia, l’insegnamento dei santi appartiene all’auditus fidei o all’intellectus fidei? Innanzitutto bisogna considerare che mediante l’intellectus fidei non si conferisce intelligibilità a un auditus fidei che non abbia già un contenuto intelligibile. L’intellectus fidei porta a termine il processo teologico, conferendogli unità, ma rivelandone anche la circolarità e mettendo la ragione credente in condizione di approfondire maggiormente quanto Dio ha rivelato, la cui verità è conosciuta già attraverso l’ascolto della Parola accolta nella fede[13]. Perciò, a un primo approccio, possiamo dire che l’insegnamento dei santi appartiene sia all’auditus che all’intellectus fidei. Ma va fatta un’ulteriore precisazione sul rapporto di questo insegnamento con la Sacra Scrittura e la Tradizione della Chiesa.

Sui santi e l’interpretazione della Scrittura c’è la seguente affermazione di Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica Verbum Domini: «L’interpretazione della Sacra Scrittura rimarrebbe incompiuta se non si mettesse in ascolto anche di chi ha vissuto veramente la Parola di Dio, ossia i santi»[14]. In questo senso, l’insegnamento dei santi acquisisce il carattere di intellectus fidei, in quanto interpretazione della Scrittura. Lo stesso Pontefice aggiunge: «Mettersi alla loro scuola [dei santi] costituisce una via sicura per intraprendere un’ermeneutica viva ed efficace della Parola di Dio»[15].

Allora, l’insegnamento dei santi sulla Scrittura è interpretazione (o comprensione) di essa, ma allo stesso tempo fonte di interpretazione (o di comprensione). Infatti, secondo Benedetto XVI, «ogni santo costituisce come un raggio di luce che scaturisce dalla Parola di Dio»[16] e poi cita l’esempio di alcuni santi, e tra questi «San Josemaría Escrivá nella sua predicazione sulla chiamata universale alla santità»[17]. In questo duplice senso, non solo interpretazione ma anche fonte di interpretazione, si comprende San Tommaso quando afferma, seguendo Sant’Agostino, che «dicta et praecepta Sacrae Scripturae ex factis sanctorum interpretari possunt et intelliguntur, cum idem Spiritus Sanctus qui inspiravit prophetis et aliis Sacrae Scripturae auctoribus, moverit sanctos ad opus»[18].

La Tradizione, inseparabile dalla Scrittura e dal Magistero della Chiesa[19], è anche fonte insostituibile della Teologia. Questa Tradizione non è una trasmissione per via di semplice ripetizione, ma una realtà viva che, trasmettendo soltanto quanto ricevuto, «progredisce nella Chiesa — spiega il Concilio Vaticano II — sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di Verità»[20]. Perciò i testimoni della Tradizione non sono soltanto i Padri della Chiesa, sebbene questi abbiano un’importanza speciale, per la loro antichità — vicinanza alla Fonte —, santità e profondità di dottrina.

L’intera Chiesa, in ogni tempo, trasmette tutto quanto essa è e tutto quanto essa crede[21]. Al suo interno, i santi sono importanti testimoni della Tradizione, come leggiamo chiaramente in questo testo della Costituzione Lumen gentium: «Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla e ci mostra il segno del suo regno, verso il quale, avendo davanti a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati»[22].

I santi, a eccezione dei Padri della Chiesa, non furono considerati tra i loci theologici nella celebre opera di Melchiore Cano[23] che, del resto, non è un’opera esaustiva (ad esempio, non fa menzione della liturgia né dell’arte sacra come luoghi teologici). Tuttavia, dalle precedenti riflessioni penso si possa affermare che l’insegnamento dei santi (non solo le loro parole ma anche le loro opere) costituisca un locus theologicus, un “luogo” dove trarre luci che aiutino i teologi a penetrare più profondamente nella Rivelazione, nel quale è chiaramente espressa la circolarità e inseparabilità tra auditus fidei e intellectus fidei. Inoltre, va pure ricordato che, tra le prospettive generali assunte dal Vaticano II, c’è la finalizzazione della Teologia al servizio dell’uomo in vista della salvezza, quindi della santità[24]. A ogni modo, riconoscendo nei santi un vero luogo teologico[25], va sottolineato che «è importante conoscere non solo i loci, ma anche il loro peso relativo, e come si rapportano tra loro»[26].

Come utilizzare allora gli insegnamenti dei santi nel lavoro teologico? Ovviamente non allo stesso modo in tutti i casi. In generale, da quanto emerso finora, possiamo dire che la comprensione di Dio testimoniata dai santi non si riduce a confermare quanto già acquisito dalla Teologia scientifica, né a un possibile e scontato punto di partenza su un particolare argomento. I santi offrono infatti non solo conclusioni o ragionamenti nell’ambito dell’intellectus fidei, ma spesso offrono anche luci nuove su aspetti della Rivelazione che rappresentano per il teologo materia dell’auditus fidei.

3. San Josemaría e la Teologia

Mi sembra opportuno ricordare innanzitutto che, sebbene San Josemaría avesse un’ottima formazione teologica, essa non è la ragione principale del suo essere una fonte di ispirazione per la Teologia. L’origine delle sue potenzialità di influsso teologico, alla cui ampiezza e profondità mi riferirò in seguito, è di natura carismatica — soprannaturale — ed ebbe il suo fulcro nell’illuminazione fondazionale dell’Opus Dei, ricevuta il 2 ottobre 1928[27]. Ma va anche rilevato che la coscienza della trascendenza della fede e del rilievo ecclesiale del carisma ricevuto non condusse mai San Josemaría a sottovalutare la dimensione propriamente scientifica della Teologia: anzi lo portò ad apprezzarla, non solo teoricamente ma anche nella sua attività. Infatti, durante tutta la sua vita, e quindi anche nei periodi più intensi della sua esperienza mistica, si rivolse alla scienza teologica come alimento della propria vita spirituale[28].

San Josemaría non pubblicò trattati accademici né monografie scientifiche, a eccezione dello studio teologico-giuridico La Abadesa de Las Huelgas. Com’è ben noto, quasi tutti i suoi scritti pubblicati — tradotti in molte lingue e con una diffusione di più di cinque milioni di copie — sono raccolte di omelie e di altri testi di spiritualità, miranti, in forma diretta e viva, ad aiutare i lettori a progredire nella vita cristiana: raccolte di spunti di meditazione (Cammino, Solco, Forgia), riflessioni sui misteri del Rosario e sulla Via Crucis, ecc. A ciò vanno aggiunti gli scritti ancora inediti, chiamati da San Josemaría Istruzioni e Lettere, in cui, in forma parimenti diretta e viva e senza intento sistematico, espone, alla luce del carisma ricevuto da Dio, i lineamenti precisi del suo insegnamento, con frequenti riferimenti storici.

Non si tratta dunque di testi di Teologia scientifica; tuttavia — come ha scritto il Venerabile, prossimamente Beato, Álvaro del Portillo riferendosi alle omelie pubblicate, anche se l’affermazione è estendibile a tutte le opere di San Josemaría — essi si caratterizzano per «la profondità teologica [...]. Si noti, ad esempio, come l’Autore commenta il Vangelo. Non si tratta mai di erudizione né di citazioni adoperate come luoghi comuni. Ogni versetto è stato meditato molte volte e la contemplazione vi ha scoperto luci nuove. [...] Una seconda caratteristica è il legame immediato che viene a stabilirsi fra la dottrina del Vangelo e la vita di un comune cristiano»[29].

Il valore ispiratore per la scienza teologica di San Josemaría Escrivá — che ha, come scrisse Cornelio Fabro, la tempra di un Padre della Chiesa[30] — raggiunge molti settori della Teologia. I suoi testi costituiscono sempre insegnamenti sulla vita cristiana, e a questo sono indirizzati i riferimenti espliciti ai fondamenti dogmatici che si trovano spesso nelle sue opere e che frequentemente sono carichi di novità. Per fare un esempio, si pensi al modo assai originale e apparentemente paradossale di riferirsi alla kenosi del Verbo eterno: «Dio che si umilia fino a farsi uomo, e che non considera menomazione l’aver preso un corpo come il nostro [...]. Il suo annichilimento non lo abbassa»[31]. Non si tratta di una contraddizione, ma di una luce da sviluppare, nel senso di riconoscere l’annientarsi di Dio nell’assumere una natura che da sola, senza Dio, sarebbe nulla e, allo stesso tempo, vedere in questa stessa umanità di Cristo la cima e la piena perfezione della creazione, alla quale, nella sua unione senza confusione con la divinità nell’unità della Persona, è indirizzato tutto il creato, secondo l’affermazione di San Paolo ai Colossesi (cfr. Col 1,16)[32].

Possiamo ricordare alcuni dei temi a proposito dei quali, più direttamente, si possono trovare negli insegnamenti di San Josemaría testi di notevole profondità e forza ispiratrice per la Teologia: l’universalità della vocazione alla santità e all’apostolato; il senso cristiano delle attività temporali come materia e luogo di santificazione e di apostolato; l’identità e la missione dei laici nella Chiesa; la centralità della filiazione divina del cristiano e la sua identificazione con Gesù Cristo; la Santa Messa come centro e radice della vita cristiana; la santificazione del lavoro e la possibilità della contemplazione nelle attività professionali, familiari e sociali; la relazione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale; l’unità di vita; la bontà originale del mondo e la storia come processo per ricostituire, dopo il peccato, l’ordinamento a Dio di tutte le cose; ecc[33]. Come è noto, in rapporto a vari di questi argomenti — in particolare alla chiamata universale alla santità e all’identità e missione del laico nella Chiesa —, sono già molti gli autori (tra i quali va citato in primo luogo il prossimamente Santo Giovanni Paolo II) che hanno riconosciuto nel Fondatore dell’Opus Dei un precursore del Concilio Vaticano II[34]. L’influsso di San Josemaría nel Vaticano II è stato già trattato ampiamente nella Relazione tenuta da S.E. Mons. Javier Echevarría.

4. La radice cristologica degli insegnamenti di San Josemaría

Gli aspetti ricordati sopra sono profondamente legati tra di loro e in ognuno di essi si scoprono luci nuove. Non essendo possibile in questa sede, come è ovvio, una loro trattazione esaustiva, cercherò di mostrare come il modo con cui San Josemaría contempla la loro comune radice teologica gli conferisce unità e quindi particolare forza ispiratrice per la Teologia. Questa radice non poteva essere altro che una profonda contemplazione del mistero dell’Incarnazione: il cristocentrismo di San Josemaría «presenta una grande coerenza di fondo. Nel mutare le chiavi di lettura che si utilizzano — il senso della filiazione divina, l’unità di vita, l’identificazione con Cristo o l’esempio che Egli ci dà come vero Dio e vero uomo — si ritrovano inalterati i contenuti essenziali del suo messaggio spirituale: dalla vita di orazione alla santificazione del lavoro, dalla chiamata universale alla santità all’impegno di corredimere con Cristo. Più che parlare di diverse chiavi, sarebbe più corretto parlare di un’unica chiave di comprensione dell’esistenza cristiana nel mondo, Cristo stesso e il mistero della sua Incarnazione, al quale possiamo accedere secondo varie linee di forza tutte parallele»[35].

Come si legge nel Decreto Pontificio sull’eroicità delle virtù di San Josemaría: «Grazie a una vivissima percezione del mistero del Verbo Incarnato, egli comprese che l’intero tessuto delle realtà umane si compenetra, nel cuore dell’uomo rinato in Cristo, con l’economia della vita soprannaturale e diviene luogo e mezzo di santificazione»[36].

Innanzitutto, va considerato il modo in cui San Josemaría contempla Cristo in quanto rivelazione di Dio. Certamente si può avere una conoscenza di Dio senza riferimento esplicito a Gesù Cristo. Tuttavia, soltanto nel mistero di Cristo si svela il mistero supremo della Trinità: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» ha detto Gesù (Gv 14,9). San Josemaría esprime questa fondamentale verità cristiana in molti modi; particolarmente illuminante mi è sempre sembrato questo suo commento sull’operare umano del Signore: «Ognuno di questi gesti umani è un gesto divino [...]. Ogni azione di Cristo ha un valore trascendente: ci fa conoscere il modo di essere di Dio, ci invita a credere nell’amore di Dio che ci ha creati e vuole portarci nella sua intimità»[37]. Considerare che l’umanità di Gesù ci mostri “il modo di essere di Dio” offre una prospettiva di notevole interesse, che va sviluppata e approfondita in Teologia con la mediazione della metafisica. Infatti, riconoscendo con San Tommaso l’unità dell’atto di essere in Cristo, contempliamo la sua natura umana come il modo di essere umano della Persona divina, che rende visibile il suo modo di essere divino a esso unito senza confusione[38]. Perciò, ogni approfondimento dell’umanità di Cristo — le sue parole, reazioni, sentimenti, azioni — ci parla di come è Dio.

È particolarmente centrale che «Dio è amore» (1 Gv 4,8) ed è nel Cristo che si manifesta più compiutamente l’amore di Dio per noi. Conoscere nella fede questo amore di Cristo è conoscere Dio e l’unità del disegno divino della creazione e redenzione; redenzione che non è soltanto remissione dei peccati ma anche partecipazione all’intimità divina. Questa partecipazione è stata sempre considerata da San Josemaría in chiave cristologica, non soltanto nell’ordine dell’efficienza — Cristo è il Redentore e Santificatore con il suo Spirito, lo Spirito Santo — ma anche nell’ordine formale. Infatti, l’elevazione soprannaturale ci costituisce figli di Dio in Cristo, come ormai la Teologia e anche il Magistero della Chiesa ricordano da parecchi anni. Così, ad esempio, nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo: «Ciò che l’uomo non può concepire, né le potenze angeliche intravvedere, cioè la relazione personale del Figlio nei confronti del Padre, ecco che lo Spirito del Figlio lo comunica a noi»[39].

San Josemaría, in accordo con la migliore tradizione teologica — e in particolare con San Tommaso d’Aquino —, considera la nostra filiazione divina come una partecipazione alla Filiazione di Cristo: «Mediante la grazia battesimale siamo stati costituiti figli di Dio. Con questa libera decisione divina, la dignità naturale dell’uomo è stata elevata in modo incomparabile: se il peccato distrusse questo prodigio, la Redenzione lo ripristinò in modo ancora più meraviglioso, facendoci partecipare più intimamente alla filiazione divina del Verbo»[40]. L’espressione “più intimamente” mostra che San Josemaría ritiene l’Incarnazione non soltanto il “mezzo” per donarci la filiazione divina adottiva, del quale poi si potrebbe fare a meno (come il ponte una volta che è stato attraversato), ma anche e soprattutto il fine del disegno di Dio, che è ricapitolare tutto in Cristo (cfr. Ef 1,10). Perciò, quando diciamo che siamo “figli nel Figlio”, vogliamo dire “in Cristo”, uniti a Lui attraverso la sua Umanità.

Nell’insegnamento di San Josemaría, la filiazione divina adottiva è partecipazione alla Filiazione incarnata e redentrice, partecipazione al Verbo fatto carne, partecipazione di Cristo, che comporta un’identificazione con Lui, che non è confinata all’ordine morale — all’identità di sentimenti con Gesù, ecc. —, ma appartiene più radicalmente all’ordine ontologico, metafisico, e comporta non solo somiglianza con Cristo e dipendenza causale da Cristo, ma anche la presenza stessa di Cristo, Verbo incarnato, nel cristiano. Certamente, la presenza dell’umanità del Signore in noi non è una presenza sostanziale, come nell’Eucaristia, ma una vera presenza operativa di questa santissima umanità gloriosa che trascende lo spazio e il tempo. Ciò si comprende ancora di più approfondendo il discorso sulla grazia che, in noi, è partecipazione alla pienezza di grazia dell’umanità di Cristo[41].

San Josemaría esprimeva molte volte questa realtà affermando che il cristiano, per grazia, è — e deve essere sempre di più — non soltanto alter Christus ma ipse Christus[42]. La profondità con cui egli intendeva questa espressione non traeva origine dalla speculazione teologica ma dalla contemplazione spirituale, soprattutto quando, nel 1931, Dio gli fece sperimentare in modo straordinario la filiazione divina. Anni più tardi, San Josemaría stesso lo ricordava così: «Quando il Signore mi dava quei colpi, era l’anno 1931, io non capivo. E improvvisamente, in mezzo a quell’amarezza così grande, queste parole: Tu sei mio figlio (Sal 2,7), tu sei Cristo. Io sapevo solo ripetere: Abbà, Pater! Abbà, Pater! Abbà! Abbà! Abbà! E ora lo vedo con una luce nuova, come una nuova scoperta: come si vede, con il passare degli anni, la mano del Signore, della Saggezza divina, dell’Onnipotente. Tu hai fatto, Signore, che io capissi che avere la Croce è incontrare la felicità, la gioia. E il motivo — lo vedo con più chiarezza che mai — è questo: avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, perciò, essere figlio di Dio»[43].

Molte sono le luci che emergono da questo testo: non solo sulla filiazione divina come identificazione con Cristo, ma anche sulla sostanza cristologica del senso della sofferenza, del rapporto tra sofferenza e gioia, ecc. Vorrei tuttavia soffermarmi brevemente sulla connessione tra il cristiano come ipse Christus e un altro aspetto centrale degli insegnamenti di San Josemaría: la valutazione positiva del mondo e la grandezza della vita ordinaria. «Quando lottiamo per essere veramente ipse Christus, lo stesso Cristo, allora nella nostra vita l’umano si intreccia col divino. Tutti i nostri sforzi — anche i più insignificanti — acquistano una portata eterna, perché sono uniti al sacrificio di Gesù sulla Croce»[44]. L’Incarnazione di Dio in Cristo non solo è causa efficiente ma anche esemplare della vita cristiana, nella quale in “tutti i nostri sforzi” si verifica l’unione senza confusione del divino e dell’umano.

Perciò afferma che «non si può dire che ci siano realtà — buone, nobili e anche indifferenti — esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l’amicizia e l’obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte [...]. Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono: il peccato di Adamo ruppe la divina armonia del creato, ma Dio ha inviato il suo Figlio unigenito a ristabilire la pace. E così noi, divenuti figli di adozione, possiamo liberare la creazione dal disordine e riconciliare tutte le cose con Dio»[45]. Il concetto di “profano” non è univoco. Nel pensiero di San Josemaría, “non essere esclusivamente profano” non significa “essere sacro”, bensì essere occasione e mezzo di incontro con Cristo, perché «c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni»[46], conservando però pienamente la propria consistenza naturale, secolare. Questo “qualcosa di divino”, che secondo San Josemaría ognuno deve scoprire[47], è la presenza di Dio, di Cristo, in ogni cosa, che sussiste in Lui ed è stata creata in vista di Lui (cfr. Col 1,16-17), così come il disegno della Provvidenza che, in ogni situazione, è espressione dell’amore di Dio per noi[48].

“Divenuti figli di adozione” — dice San Josemaría —, ovvero diventati ipse Christus e, perciò, in grado di compiere le opere di Cristo: liberare il mondo dal disordine e riconciliarlo con Dio, attraverso tutte le realtà umane oneste, in particolare attraverso il lavoro santificato. Nella vita di Cristo in terra, anche negli anni trascorsi a Nazaret, lavoro e preghiera si fondevano nell’unione dell’umano e del divino nella sua Persona divina. Il cristiano più diventa ipse Christus, più può unire preghiera e lavoro nella sua vita quotidiana, convertendo il lavoro in orazione e santificando in tal modo il lavoro stesso; e attraverso la santificazione del lavoro diviene più intensamente ipse Christus. Convertire il lavoro e le altre realtà umane in preghiera è il modo in cui veramente si può “pregare sempre” (Lc 18,1; cfr. 1 Ts 5,17).

San Josemaría spiegò in molti modi e con molte sfumature la santificazione del lavoro[49]. Mi limiterò qui a ricordare, nel contesto della valutazione positiva del mondo e della vita ordinaria, questo suo insegnamento: «Un cristiano sincero, coerente con la sua fede, agisce faccia a faccia con Dio, con visione soprannaturale; lavora in questo mondo che ama appassionatamente, impegnandosi nelle vicende della terra, con lo sguardo al Cielo»[50]. Altrove San Josemaría segnala questo essere allo stesso tempo in cielo e in terra come conseguenza/esigenza dell’essere figli di Dio, quindi dell’essere ipse Christus, umani e divini (divini, ovviamente, per partecipazione): «Se accettiamo la responsabilità di essere suoi figli, vedremo che Dio ci vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra»[51].

5. Conclusione

La forza ispiratrice per la Teologia racchiusa negli insegnamenti di San Josemaría varia a seconda della diversità degli argomenti trattati, ma è latente in tutta la sua potenzialità nel modo in cui viene contemplata la loro radice cristologica. Il mistero di Cristo è infatti la luce che fa risplendere con chiarezza sempre nuova che Dio è Amore, che la filiazione è identificazione con Cristo, che le realtà terrene, il lavoro e l’intera vita ordinaria sono luogo e mezzo di unione con Dio. Inoltre, potremmo continuare dicendo che San Josemaría, alla luce del mistero dell’Incarnazione, vede la Chiesa come Cristo che si fa presente nella storia con la sua parola e i suoi Sacramenti — Sacramenti che sono “orme” lasciate dal Signore su questa nostra terra —, e l’identità del sacerdote come quella di Gesù Cristo. Su questi e su molti altri temi, ai quali ho anche fatto riferimento in precedenza, gli insegnamenti di San Josemaría non contengono soltanto interpretazioni particolari che andrebbero perciò individuate nell’ambito dell’intellectus fidei, ma anche luci che aprono nuove prospettive e, in questo senso, appartengono piuttosto all’auditus fidei, secondo la succitata mutua implicazione e circolarità tra l’auditus e l’intellectus.

Dalla radice cristologica che illumina e conferisce unità a molti temi degli insegnamenti di San Josemaría scaturisce uno spirito di vita cristiana, segnato dall’unità di vita[52], necessariamente centrato in Cristo come cammino al Padre nello Spirito Santo, e che riconosce in Maria, Madre di Cristo, la Madre di tutti coloro che diventano per grazia ipse Christus.

[1] JOSEPH RATZINGER, “Messaggio inaugurale al Convegno teologico di studio sugli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá”, in AA.VV., Santità e mondo, Libreria Editrice Vaticana 1994, p. 20. Cfr. ID., Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 1989, p. 29.

[2] Cfr. LUCAS FRANCISCO MATEO-SECO, “Teología y Espiritualidad”, in Scripta Theologica, 25 (1993) pp. 155-174.

[3] Cfr., ad esempio, HANS URS VON BALTHASAR, Verbum caro, Morcelliana/Jaca Book 2005, pp. 198-200.

[4] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Teologia oggi. Prospettive, principi e criteri, 29-XI-2011, n. 86.

[5] ANTONIO ARANDA, “La teología y la experiencia espiritual de los santos. En torno a la enseñanza de San Josemaría Escrivá”, in Scripta Theologica, 43 (2011) p. 49.

[6] BEATO GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione ai partecipanti al Convegno teologico di studio sugli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá, in AA.VV., Santità e mondo, cit., pp. 10-11.

[7] Si è affermato addirittura che «tutti i santi sono teologi, solo i santi sono teologi» (FRANÇOIS-MARIE LÉTHEL, Connaître l’amour du Christ qui surpasse toute connaissance: la théologie des saints, Éditions du Carmel, Venasque 1980, p. 3).

[8] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, Ares, Milano, 9ª ed. 2009, n. 71.

[9] Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, In III Sent., d. 35, q. 1, a. 2, qc. 1 c; Summa theologiae, II-II, q. 180, a. 6 ad 2; Summa contra gentiles, IV, c. 22.

[10] PAPA FRANCESCO, Lettera enciclica Lumen fidei, 29-VI-2013, n. 26.

[11] ID., n. 27.

[12] BEATO GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio, 14-IX-1998, n. 65.

[13] Cfr. FERNANDO OCÁRIZ, “Teologia sistematica ed esegesi biblica”, in AA.VV. (a cura di M. SODI), Il metodo teologico. Tradizione, innovazione, comunione in Cristo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, p. 62.

[14] BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica Verbum Domini, 30-IX-2010, n. 48.

[15] Ibidem, n. 49.

[16] Ibidem, n. 48.

[17] Ibidem.

[18] SAN TOMMASO D’AQUINO, Super Ev. Ioannis, c. 18, lect. 4.

[19] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 10.

[20] Ibidem, n. 8.

[21] Cfr. ibidem.

[22] CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 50.

[23] Cfr. CYRILLE MICHON, “Luoghi teologici”, in J.-Y. LACOSTE (dir.), Dizionario critico di Teologia, Città Nuova, Roma 2005, p. 786; KARL J. BECKER, “Presentación”, in M. CANO, De locis theologicis (ed. JUAN BELDA PLANS), BAC, Madrid 2006, p. XVII; JOSEP-IGNASI SARANYANA, “Teología de los santos vs. Teología de la santidad. Una hipótesis de trabajo”, in Scripta Theologica, 43 (2011) p. 606.

[24] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Decreto Optatam totius, n. 16; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum veritatis, 24-V-1990, n. 7.

[25] Cfr. PIERO CODA, “La santità come luogo teologico”, in AA.VV., Il martirologio romano. Teologia, liturgia, santità, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, p. 40.

[26] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Teologia oggi. Prospettive, principi e criteri, 29-XI-2011, n. 20.

[27] Cfr. JOSÉ LUIS ILLANES, “Dos de octubre de 1928. Alcance y significado de una fecha”, in AA.VV., Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei, Pamplona, 2ª ed. 1985, pp. 65-107.

[28] Cfr. FERNANDO OCÁRIZ, “El Beato Josemaría Escrivá de Balaguer y la Teología”, in Scripta Theologica, 26 (1994) pp. 977-991.

[29] ÁLVARO DEL PORTILLO, Presentazione a È Gesù che passa, cit., pp. 11-12. Sull’uso della Sacra Scrittura nelle opere di San Josemaría, cfr. in particolare SALVATORE GAROFALO, “Il valore perenne del Vangelo”, in C. FABRO - S. GAROFALO - M.A. RASCHINI, Santi nel mondo. Studi sugli scritti del Beato Josemaría Escrivá, Ares, Milano 1992, pp. 156-193. Si veda anche SANTIAGO AUSÍN, “La lectura de la Biblia en las ‘Homilías’ del Beato Josemaría Escrivá de Balaguer”, in Scripta Theologica, 25 (1993) pp. 191-220.

[30] CORNELIO FABRO, “La tempra di un Padre della Chiesa”, in C. FABRO - S. GAROFALO - M.A. RASCHINI, Santi nel mondo. Studi sugli scritti del Beato Josemaría Escrivá, cit., pp. 22-155.

[31] SAN JOSEMARÍA, Amici di Dio, n. 178.

[32] Cfr. ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, vol. II, Rialp, Madrid 2011, pp. 51-53.

[33] Per un ampio studio su questi temi in chiave principalmente di Teologia spirituale, vedi i tre volumi di ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, cit.

[34] Cfr. BEATO GIOVANNI PAOLO II, Discorso, 19-VIII-1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 (1979) p. 142; Omelia nella Messa di Beatificazione di Josemaría Escrivá, 17-V-1992, e Discorso, 18-V-1992, in L’Osservatore Romano, 18/19-V-1992, pp. 4-5 e 6. Cfr. anche CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI, Decreto sulle virtù eroiche del Servo di Dio Josemaría Escrivá, 9-IV-1990, in AAS 82 (1990) pp. 1450-1455.

[35] GIUSEPPE TANZELLA-NITTI, “Perfectus Deus, perfectus homo. Riflessioni sull’esemplarità del mistero dell’Incarnazione del Verbo nell’insegnamento del Beato Josemaría Escrivá”, in Romana, 25 (1997) p. 380. Cfr. anche JOAQUÍN PANIELLO, “En torno al núcleo de la mirada cristológica de S. Josemaría Escrivá de Balaguer”, in Annales Theologici, 18 (2004) pp. 449-468.

[36] CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI, Decreto, 9-IV-1990, cit. p. 1451.

[37] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 109.

[38] Cfr. FERNANDO OCÁRIZ - LUCAS F. MATEO-SECO - JOSÉ ANTONIO RIESTRA, El Misterio de Jesucristo, Eunsa, Pamplona, 4ª ed. 2010, pp. 266-285.

[39] CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, n. 2780.

[40] SAN JOSEMARÍA, Lettera 19-III-1967, n. 93.

[41] Cfr. FERNANDO OCÁRIZ, Natura, grazia e gloria, Edusc, Roma 2001, pp. 104-106.

[42] Cfr., ad esempio, soltanto in È Gesù che passa, nn. 8, 11, 96, 104, 107, 115, 120, 121, 183, 185. Sul cristiano come ipse Christus secondo San Josemaría, cfr. ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, cit., vol. II, pp. 78-95.

[43] SAN JOSEMARÍA, Meditazione, 28-IV-1963 (citato in F. OCÁRIZ, Natura, grazia e gloria, cit., p. 176).

[44] SAN JOSEMARÍA, Via Crucis, 10ª stazione, n. 5.

[45] SAN JOSEMARÍA, È Gesù che passa, n. 112; cfr. n. 120.

[46] SAN JOSEMARÍA, Colloqui con Mons. Escrivá de Balaguer, n. 114.

[47] Cfr. ibidem.

[48] Cfr. ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, cit., vol. III, pp. 56-63.

[49] Sull’argomento, cfr., ad esempio, JAVIER ECHEVARRÍA, Itinerarios de vida cristiana, Planeta, Barcelona 2001, pp. 209-221; JOSÉ LUIS ILLANES, La santificazione del lavoro, Ares, Milano 2003; ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, cit., vol. III, pp. 134-221; AA.VV., Trabajo y Espíritu: sobre el sentido del trabajo desde las enseñanzas de Josemaría Escrivá en el contexto del pensamiento contemporáneo, Eunsa, Pamplona 2004.

[50] SAN JOSEMARÍA, Amici di Dio, n. 206.

[51] Ibidem, n. 75.

[52] Sull’unità di vita in San Josemaría, cfr. IGNACIO DE CELAYA, “Unidad de vida y plenitud cristiana”, in FERNANDO OCÁRIZ - IGNACIO DE CELAYA, Vivir como hijos de Dios, Eunsa, Pamplona, 5ª ed. 2000, pp. 93-128; ERNST BURKHART - JAVIER LÓPEZ, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, cit., vol. III, pp. 617-653.

Romana, n. 57, Luglio-Dicembre 2013, p. 349-361.

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