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Mons. Álvaro del Portillo e il Concilio Vaticano II

S. Em. R. Card. Julián Herranz *

* Presidente emerito del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e della Commissione Disciplinare della Curia Romana. Il testo corrisponde alla conferenza Mons. Álvaro del Portillo e il Concilio Vaticano II, pronunciata il 13-III-2014 nella Pontificia Università della Santa Croce e poi pubblicata in: PABLO GEFAELL (ed.), Vir fidelis multum laudabitur, EDUSC, Roma 2014, pp. 83-102.

Nell’era digitale della “high-technology” in cui viviamo, anche noi cardinali ultraottantenni abbiamo dovuto familiarizzare con i computer, i motori di ricerca, le conferenze in “streeming” e via dicendo. Perciò, chiedo scusa se in questo mio intervento mi permetterò di adoperare la tecnica di gestione dati chiamata “global vision”, usando l’applicazione “Google Earth” nella sua dimensione non spaziale ma temporale. Così, mediante il dispositivo di scorrimento dello “zoom”, cercherò di passare da una visione globale del tema espresso nei due termini “Mons. del Portillo” e “Vaticano II”, a tre visioni particolari e temporali concrete circa l’influsso del servo di Dio (prossimo beato) sul Concilio Vaticano II, prima, durante e dopo la celebrazione del Concilio stesso.

Ovviamente presenterò soprattutto il lavoro di Mons. del Portillo durante la celebrazione del Concilio, come Segretario di una delle dieci Commissioni di Padri conciliari, quella cui fu affidato uno degli argomenti più impegnativi dal punto di vista teologico e disciplinare, cioè la vita e il ministero dei sacerdoti nella Chiesa e nel mondo. Ma prima farò scorrere rapidamente lo “zoom” su qualche aspetto dell’influsso che Mons. del Portillo aveva avuto sulla futura tematica e sui futuri protagonisti del Concilio.

1. Mons. del Portillo e la Curia Romana

Ho vissuto con don Álvaro per 41 anni fino alla sua morte, il 23 marzo 1994. Lo incontrai a Roma, nella sede centrale dell’Opus Dei, nell’ottobre 1953, sette anni dopo il suo arrivo dalla Spagna nel febbraio 1946. Durante gli studi di laurea in Diritto Canonico all’Università di San Tommaso (allora Angelicum), cominciai a rendermi conto dell’affetto e del prestigio che tra i professori di quell’Ateneo Pontificio e tra non pochi Prelati della Curia Romana godeva quel sacerdote di 38 anni, Procuratore Generale dell’Opus Dei, già noto canonista, particolarmente esperto in questioni relative alla spiritualità e all’apostolato laicali, che aveva precedentemente fatto in Spagna gli studi superiori in filosofia e ingegneria civile ed esercitato questa professione.

Molti di loro sapevano che don Álvaro collaborava in stretto e continuo contatto con il fondatore dell’Opus Dei, san Josemaría Escrivá de Balaguer, nel difficile impegno di ottenere che il peculiare carisma e la realtà sociale di questa nuova e molto originale compagine apostolica trovassero una adeguata soluzione giuridica nel diritto della Chiesa. Alcuni avevano letto articoli di don Álvaro in varie riviste ecclesiastiche, o lo avevano sentito parlare delle caratteristiche, alquanto nuove e sorprendenti, di una vocazione laicale alla santità e all’apostolato, cioè al dialogo filiale con Dio e alla diffusione del Vangelo, in mezzo al lavoro professionale e alle altre realtà secolari della ordinaria vita del cristiano.

Dal 1955 don Álvaro aveva cominciato a lavorare come Consultore in Dicasteri della Santa Sede, dove erano molto apprezzati non soltanto la dottrina ma anche il carattere amabile, umile e cordiale di don Álvaro. Farò solo un esempio. Il 16 aprile 1960, in una conversazione con il Cardinale Pietro Ciriaci, Prefetto della Congregazione che si occupava della disciplina del clero e del popolo cristiano, egli mi disse che stimava molto don Álvaro e che, perciò, un anno prima, quando cominciarono i primi lavori preparatorii del Vaticano II, annunciato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, lo aveva nominato Presidente di una speciale Commissione di studio sul laicato cattolico, che era stata costituita in seno al citato Dicastero. Ho voluto riferire questo episodio perché fu in questi anni e in questi lavori preparatorii del Vaticano II che don Álvaro ebbe occasione di conoscere e trattare non poche persone, vescovi e cardinali, teologi e canonisti, che ebbero poi una partecipazione decisiva nell’elaborazione di progetti di documenti conciliari riguardanti, fra l’altro, ciò che è stato un insegnamento centrale del Concilio Vaticano II: la dottrina sul laicato e sulla chiamata universale alla santità e all’apostolato.

Il carattere semplice e affabile di don Álvaro, la profondità e al tempo stesso l’umiltà del suo pensiero e l’estrema delicatezza nei suoi giudizi, facevano ben capire la sua grande capacità di guadagnarsi la simpatia e l’amicizia delle persone: da quelle degli ambienti di Curia, come i Monsignori Domenico Tardini, futuro Segretario di Stato, e Giovanni Battista Montini, futuro Arcivescovo di Milano e poi Papa Paolo VI, oppure i Cardinali Ciriaci, Marella, Antoniutti e Baggio, fino a noti teologi e canonisti che progressivamente si incorporarono ai lavori del Concilio. Di questi ultimi, che furono tanti, vorrei citare soltanto alcuni che manifestarono, in più occasioni, particolare interesse di conoscere, tramite don Álvaro, la persona e gli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei. Tra i personaggi protagonisti del Vaticano II, ricordo soprattutto i Cardinali Frings, Doepfner, Ottaviani, Koenig e Marty; come anche Mons. Pericle Felici, Segretario generale del Concilio, futuro Cardinale Presidente della Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto canonico; Mons. Carlo Colombo, Preside della Facoltà di Teologia di Milano, perito conciliare e teologo personale di Paolo VI; Mons. Willy Onclin, Decano della Facoltà di Diritto canonico dell’Università di Lovanio e perito di quattro Commissioni conciliari; Padre Yves Congar, O.P., perito teologo in più Commissioni e futuro cardinale; Mons. Jorge Medina, perito conciliare e futuro Cardinale Prefetto della Congregazione per il Culto Divino; Mons. Karol Wojtyla, futuro Cardinale arcivescovo di Cracovia e san Giovanni Paolo II; Mons. Joseph Ratzinger, futuro Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Papa Benedetto XVI.

A proposito di Benedetto XVI, il nostro caro Papa emerito, permettetemi un breve recentissimo ricordo. Sono stato a trovarlo qualche giorno fa al suo ritiro nel monastero dei giardini vaticani. Sapeva già della prossima beatificazione di don Álvaro e mi ha detto: «Che bello! Io l’ho avuto collaboratore per anni come consultore nella Congregazione per la Dottrina della Fede: che bell’esempio per tutti noi!».

2. Un protagonista del Concilio Vaticano II

Ma il tempo corre. Devo perciò far scorrere lo “zoom” fino all’inizio del Concilio, e concretamente sull’immane lavoro di don Álvaro come segretario di una delle più impegnative Commissioni del Vaticano II. L’indicatore si ferma su una data precisa, il 4 novembre 1962. Quel giorno Mons. del Portillo ricevette una lettera del Card. Pietro Ciriaci, Presidente della Commissione De disciplina cleri et populi christiani del Concilio Vaticano II, in cui gli comunicava che era stato nominato Segretario della medesima. Quattro giorni dopo, l’8 novembre, don Álvaro ricevette il regolare Biglietto di nomina.

San Josemaría Escrivá manifestò, a quanti eravamo presenti quel giorno nella sede del Consiglio Generale dell’Opus Dei, la sua soddisfazione per la grande stima che con tale nomina la Santa Sede aveva dimostrato a don Álvaro. Ci disse anche che aveva consigliato a don Álvaro di accettare — per amore alla Chiesa e in filiale obbedienza al Papa — l’oneroso impegno di lavoro che gli veniva richiesto, e che aveva dato questo consiglio con la fondata speranza che egli potesse continuare a svolgere, pur con ulteriori sforzi e sacrifici, anche le mansioni di Segretario Generale dell’Opus Dei. E così avvenne, effettivamente, durante i tre lunghi anni delle grandi assise conciliari.

Ma, oltre a questa realtà di un duplice grave impegno di lavoro, Mons. del Portillo dovette affrontare subito, con quella serenità che tutti ammiravano in lui, una particolare difficoltà, diciamo così, esistenziale e metodologica nell’incarico ricevuto dalla Santa Sede. Una difficoltà di cui soltanto l’attenta considerazione della storia del Vaticano Il permette di rendersi sufficientemente conto. Mi riferisco concretamente al palese divario che esisteva tra i contenuti piuttosto scarsi degli schemi preparatorii affidati alla Commissione “Sulla disciplina del clero”, nel cui lavoro di studio anch’io fui invitato a collaborare, e l’ampiezza, invece, delle questioni dottrinali e disciplinari che cominciavano a porsi circa l’identità e l’immagine ecclesiale del presbitero e le esigenze e caratteristiche specifiche della sua vita e del suo ministero.

Infatti, nelle riunioni tenute nei giorni dal 21 al 29 gennaio 1963 la Commissione Coordinatrice dei lavori del Concilio stabilì che doveva ridursi a 17 il numero degli schemi di Costituzioni e di Decreti da presentare all’Aula da parte delle diverse Commissioni conciliari. Conseguentemente, la Commissione per la disciplina del Clero fu incaricata di preparare un unico schema di Decreto comprendente tre soli argomenti, cioè: la spiritualità sacerdotale, la scienza pastorale e il retto uso dei beni ecclesiastici. Anzi, la stessa Commissione di Coordinamento decise un anno dopo che il predetto schema fosse invece ridotto drasticamente ai soli punti essenziali, da presentare in forma non di un vero Decreto ma di poche e brevi Propositiones.

Non c’è dubbio che queste decisioni degli organismi direttivi del Concilio ubbidivano a criteri selettivi e metodologici d’ordine generale che tendevano a dare priorità di sviluppo ad argomenti considerati di primaria importanza, quali la rinnovata riflessione teologica sulla Chiesa, gli indirizzi della riforma liturgica, la dottrina sull’Episcopato e la sua sacramentalità, l’apostolato dei laici o il movimento ecumenico. Tuttavia, i 30 membri della Commissione De disciplina cleri (2 cardinali, 15 arcivescovi e 13 vescovi) e i 40 periti (teologi e canonisti di 17 nazionalità) erano concordi nel considerare — don Álvaro ne era ben edotto e lo faceva notare con la sua abituale mite fortezza — che proprio lo sviluppo dottrinale e normativo sull’episcopato e sul laicato rendeva ancora più necessario il parallelo approfondimento teologico e disciplinare sul presbiterato. Altrimenti sarebbe rimasta incompiuta la stessa teologia di comunione che era alla base dei lavori conciliari, e sarebbero rimasti defraudati i più di mezzo milione di presbiteri che erano e sono in tutto il mondo cooperatori necessari dei vescovi e immediati pastori dei fedeli laici.

Tuttavia, la Commissione De disciplina cleri, in ossequio alle direttive ricevute, preparò a malincuore — l’espressione può sembrare forte, ma si doveva poi rivelare comprensibile — le brevi e perciò necessariamente povere e insufficienti Proposizioni De vita et ministerio sacerdotali, che furono discusse nell’assemblea conciliare i giorni 13, 14 e 15 ottobre 1964. Dalla discussione e votazione in Aula e dalle molte proposte di emendamento ricevute, emerse chiaramente, come don Álvaro prevedeva e me ne aveva parlato prima, che era desiderio dei Padri del Concilio che il tema del sacerdozio ministeriale dei presbiteri venisse trattato non in quella forma di brevi proposizioni, ma tramite un vero e proprio Decreto conciliare, di sufficiente ampiezza e contenuto.

Ricordo bene che Mons. del Portillo, quale diligente e paziente segretario della Commissione, accolse questo desiderio dell’Assemblea conciliare non soltanto in spirito di obbediente disponibilità, ma anzi con viva gioia e soddisfazione. Tant’è vero che egli stesso suggerì al relatore dello schema, l’allora arcivescovo di Reims Mons. François Marty — anni dopo Cardinale arcivescovo di Parigi —, di indirizzare subito una lettera ai cardinali moderatori del Concilio, tramite il Segretario Generale, Mons. Pericle Felici, chiedendo l’autorizzazione necessaria affinché la nostra Commissione potesse rifare e sviluppare lo schema nella forma auspicata dall’Assemblea, cioè come un vero Decreto conciliare.

La lettera, in latino (Prot. N. 730/64, del 20-X-1964), ebbe sette giorni dopo la desiderata risposta del Segretario Generale del Concilio: «Ho avuto premura — diceva Mons. Felici — di sottoporre alla considerazione degli Em.mi Cardinali Moderatori la lettera di Vostra Eccellenza. Nella seduta del 22 u.s. gli Em.mi Moderatori [...] accedendo alle ragioni accennate da Vostra Eccellenza hanno espresso il parere che la Commissione rielabori il testo dello schema De vita et ministerio sacerdotali come viene indicato da Vostra Eccellenza [...]» (Lettera della Segreteria Generale del Concilio, Prot. N. LC/758, del 27-X-1964).

«Omnia tempus habent» (Sir 3, 1) tutte le cose hanno il loro tempo. Era finalmente arrivato il momento in cui il Concilio Ecumenico Vaticano II, ben consapevole che l’auspicato rinnovamento della Chiesa e della sua missione evangelizzatrice dipende in grandissima parte dal ministero dei presbiteri (cfr. Decr. Presbyterorum Ordinis, proemio e n. 1; Decr. Optatam totius, n. 2), poteva dedicare a loro un documento sufficientemente ampio, con tutti i chiarimenti dottrinali e le norme pastorali e disciplinari che si rendevano necessari, con specifico riferimento alle circostanze culturali e sociologiche del mondo contemporaneo.

Ricordo che don Álvaro convocò immediatamente e mise al lavoro le varie sottocommissioni di membri e di periti in cui era articolata la Commissione, e fu preparato in tempo “record” il progetto del nuovo schema. La Commissione plenaria, sempre sotto la direzione di Mons. del Portillo a cui il Presidente, Card. Pietro Ciriaci, di salute cagionevole, aveva affidato questo compito, prese in esame le varie parti del nuovo schema nelle riunioni plenarie tenute — posso dire in vere “sedute fiume” — i giorni 29 ottobre e 5, 9 e 12 novembre 1964. La grazia dello Spirito Santo, invocato con fiducia all’inizio di ogni sessione di lavoro, rese possibile che il progetto di Decreto De ministerio et vita Presbyterorum fosse approntato, stampato e distribuito all’intera Assemblea conciliare otto giorni dopo, il 20 novembre 1964, cioè alla vigilia della conclusione della Terza Sessione del Concilio. Il Segretario Generale del Concilio ne rimase veramente e lietamente sorpreso, quasi gridava al “miracolo”.

Questo testo, integrato poi in alcuni punti con opportune aggiunte, fu discusso e approvato dall’Assemblea (“in Aula”, come si era soliti dire) durante la Quarta e ultima Sessione del Concilio, nell’ottobre 1965, e fu votato definitivamente con il seguente risultato: Votanti: 2.394 Padri conciliari; Placet: 2.390; Non placet: 4. Il Santo Padre Paolo VI, in Sessione Pubblica dell’intero Concilio, promulgò solennemente il Decreto Presbyterorum Ordinis, de Presbyterorum ministerio et vita il 7 dicembre 1965.

Furono giorni, settimane, mesi di intensissimo lavoro, di grande tensione morale e psicologica, di lotta contro il tempo, di stress, ma nell’anima e sul volto di Mons. del Portillo c’era sempre il sereno. Sembrava dicesse quello che è scritto alla base di un bell’orologio solare cui mi è sempre piaciuto paragonare don Álvaro: Horas non numero nisi serenas (indico soltanto le ore serene); tempo sereno (con sole nel cielo), animo tranquillo (con pace nell’anima).

Sono sicuro che a tutti voi, in particolare a quelli che hanno avuto la fortuna di conoscere e frequentare don Álvaro, piacerà ascoltare il contenuto di una lettera che il Card. Pietro Ciriaci gli scrisse una settimana dopo, il 14 dicembre 1965. Leggerò soltanto qualche brano:

«Rev.mo e caro don Álvaro,

con l’approvazione definitiva del 7 dicembre scorso si è chiuso, grazie a Dio, felicemente, il grande lavoro della nostra Commissione, che ha potuto così condurre in porto il suo Decreto, non ultimo per importanza dei decreti e costituzioni conciliari». Dopo aver ricordato con gioia la «votazione quasi plebiscitaria del testo», l’Em.mo Presidente aggiungeva: «So bene quanto in tutto questo abbia avuto parte il Suo lavoro saggio, tenace e gentile, che, senza mancare di rispetto alla libertà di opinione altrui, non ha trascurato di seguire una linea di fedeltà a quelli che sono i grandi principi orientatori della spiritualità sacerdotale. Nel riferire al Santo Padre non mancherò di segnalare tutto questo. Intanto voglio che Le giunga, con un caldo plauso, il mio grazie più sentito».

Non ero presente quando don Álvaro lesse questa lettera. Ma sono sicuro che egli dovette commentare, come era solito fare riportando subito a Dio ogni lode o ringraziamento personale: Sia ringraziato il Signore! Deo Gratias!

3. Quale immagine del sacerdote nei lavori conciliari?

A questo punto pare doveroso porsi una domanda precisa, che viene anche suggerita da una frase della lettera del Card. Ciriaci: quali sono stati questi “grandi principi orientatori” che guidarono don Álvaro, la Commissione conciliare e i Padri tutti del Concilio nel definire gli elementi essenziali dell’identità teologica e della missione apostolica dei presbiteri? Io direi che questi “grandi principi orientatori” sono pervasi, innanzitutto, dal duplice impegno di fedeltà alla tradizione e di reale rinnovamento che ha ispirato tutto il Concilio Vaticano II.

Infatti, situando il sacerdozio ministeriale dei presbiteri e la sua triplice funzione docente, santificatrice e di governo nel cuore della missione salvifica della Chiesa, il Decreto Presbyterorum Ordinis ha inquadrato il sacerdozio dal punto di vista originale e profondo della partecipazione del presbitero alla consacrazione e alla missione di Cristo, Capo e Pastore. Ne risulta così una visione del ministero sacerdotale essenzialmente sacramentale e fondamentalmente dinamica, come spiegò con squisita chiarezza Mons. del Portillo in una dichiarazione del 1966:

«Durante i dibattiti conciliari su questo Decreto si erano manifestate due posizioni che, considerate separatamente, potrebbero apparire opposte o addirittura contraddittorie: da una parte si insisteva sull’annuncio del messaggio di Cristo a tutti gli uomini; dall’altra si poneva l’accento sul culto e sull’adorazione di Dio come fini cui tutto deve tendere nel ministero e nella vita dei sacerdoti. Fu necessario uno sforzo di sintesi e di conciliazione, e la Commissione lavorò con tutto l’impegno per armonizzare le due concezioni, che non sono opposte né si escludono a vicenda. In effetti, le due diverse posizioni dottrinali sul sacerdozio acquistano pieno rilievo e significato quando vengono ambedue inserite in una sintesi più comprensiva, nella quale si mostra che si tratta di aspetti assolutamente inseparabili e complementari, che danno risalto l’uno all’altro: il ministero in favore degli uomini si comprende solo come un servizio prestato a Dio, mentre la glorificazione di Dio richiede che il presbitero senta l’ansia di unire alla propria lode quella di tutti gli uomini [...]. Si ha così una prospettiva dinamica del ministero sacerdotale, che annunciando il Vangelo genera la fede in quelli che ancora non credono, in modo che appartengano al Popolo di Dio e uniscano il loro sacrificio a quello di Cristo, formando un solo Corpo con Lui»[1].

In questo contesto il sacerdote è un membro del Popolo di Dio, scelto fra gli altri con una particolare chiamata divina (vocazione), per essere consacrato da uno speciale sacramento (consacrazione) e inviato (missione) a svolgere specifiche funzioni al servizio del Popolo di Dio e dell’intera umanità. Un uomo scelto, un uomo consacrato, un uomo inviato. Queste sono indubbiamente, nella loro unità e inseparabilità, le tre caratteristiche fondamentali dell’immagine del presbitero, come don Álvaro ebbe cura di glossare nei suoi scritti, specialmente nel libro Consacrazione e missione del sacerdote, tradotto e pubblicato in quasi tutte le lingue moderne. Vediamo brevemente queste caratteristiche del ministro di Cristo, anche perché anche adesso, a cinquant’anni dal Concilio, esse sono spesso sottolineate da Papa Francesco.

1) Un uomo scelto e chiamato

Scelto da chi? Scelto dalla comunità cristiana, come alcuni vorrebbero? Scelto forse da sé stesso, come se ci fosse un assoluto diritto personale a diventare sacerdote? Sembrava inutile e anche sciocco porre domande come queste. Esistevano però durante la celebrazione del Concilio, e continuano a esistere ora, diverse prese di posizione ideologica, dalle quali con argomenti diversi ma tutti riduttivi della natura del sacerdozio si contesta il Magistero della Chiesa. Ma nella dottrina conciliare è palese che la vocazione del presbitero è assolutamente inseparabile dalla sua consacrazione e dalla sua missione. Colui che lo elegge è anche lo stesso che lo consacra e che lo invia: cioè, Cristo stesso, attraverso gli Apostoli e i loro successori, i vescovi.

Ecco come questa realtà divina viene sancita dal Decreto Presbyterorum Ordinis: «Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però “non tutte le membra hanno la stessa funzione” (Rm 12, 4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero il sacro potere dell’Ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale»[2].

Nel sottolineare così l’istituzione divina del sacerdozio si pone l’accento sulla vocazione divina del presbitero. Egli, pertanto, non è un delegato della comunità davanti a Dio, né un funzionario o un impiegato di Dio di fronte al Popolo. È un uomo scelto da Dio tra gli uomini per realizzare in nome di Cristo il mistero della salvezza. La nozione di vocazione divina — amava ricordare don Álvaro — è essenziale per opporsi a certe concezioni democraticistiche, purtroppo presenti in alcuni ambienti ecclesiali, e anche perché noi, sacerdoti, non ci dimentichiamo mai della scelta di amore che Cristo ha operato nelle nostre vite. Ha ricordato Papa Francesco: «Chiamati da Dio. È importante ravvivare in noi questa realtà, che spesso diamo per scontata in mezzo a tanti impegni quotidiani: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, ci dice Gesù. È riandare alla sorgente della nostra chiamata»[3]. «Diventare sacerdote non è primariamente una scelta nostra, ma la risposta a una chiamata e a una chiamata di amore»[4].

2) Un uomo consacrato

Anche se scelti da Dio per svolgere in forma ufficiale, in nome di Cristo, la funzione sacerdotale, è chiaro che i presbiteri sono qualcosa di più che semplici detentori di un ufficio, pubblico e sacro, esercitato a servizio della comunità dei fedeli. Il Presbiterato, scrisse Mons. del Portillo, «è essenzialmente, e anzitutto, una configurazione, una trasformazione sacramentale e misteriosa della persona dell’uomo-sacerdote nella persona dello stesso Cristo, unico Mediatore»[5]. Sono certo che in tutto il suo lavoro come segretario della Commissione, egli aveva sempre presente l’insegnamento sul sacerdozio di un sacerdote santo a quel tempo ancora in vita, Mons. Escrivá. Questi aveva detto in un’omelia del 1960, riferendosi al Sacrificio Eucaristico: «La Messa — ripeto — è azione divina, trinitaria, non umana. Il sacerdote che celebra, collabora al progetto del Signore, prestando il suo corpo e la sua voce; non agisce in nome proprio, ma in persona et in nomine Christi, nella Persona di Cristo e nel nome di Cristo»[6].

Il Presbyterorum Ordinis — avendo di fronte il notevole sviluppo che aveva raggiunto in altri documenti del Concilio la dottrina sull’episcopato e sul sacerdozio comune dei fedeli — ha voluto mettere in risalto la speciale consacrazione sacramentale dei presbiteri, che li rende partecipi dello stesso sacerdozio di Cristo, Capo della Chiesa. E così ha fatto, mostrando contemporaneamente il legame del ministero presbiterale con la pienezza sacerdotale e la missione pastorale dei vescovi dei quali sono cooperatori, e distinguendolo anche nettamente dal sacerdozio comune di tutti i battezzati. «Dopo aver inviato gli Apostoli come Egli stesso era stato inviato dal Padre — si legge nel Decreto —, Cristo, per mezzo degli stessi Apostoli, rese partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai presbiteri, affinché questi, costituiti nell’Ordine del Presbiterato, fossero cooperatori dell’Ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione Apostolica affidata da Cristo».

Agere in persona Christi Capitis, agire cioè impersonando Cristo, permette di esprimere esattamente l’essenza della condizione ministeriale come capacità di partecipare, attraverso la ricezione del sacramento dell’Ordine, alle azioni proprie di Cristo Capo e Pastore nei confronti della Chiesa. Il fondamento di tale partecipazione è la potestà ricevuta, mentre il suo fine è rendere presente qui e adesso, mediante azioni specifiche (ministerium verbi et sacramentorum), la salvezza come vita della Chiesa e, nella Chiesa, del mondo. Si osserva, dunque, in questa formula la sacramentalità delle azioni specifiche del ministero ordinato rispetto alla vita della Chiesa.

A questa sacramentalità fa pieno riferimento la figura ministeriale del presbitero, che «mentre è nella Chiesa, si trova anche di fronte a essa»[7]. Infatti, come ribadì san Giovanni Paolo II, «per la sua stessa natura e missione sacramentale, il sacerdote appare, nella struttura della Chiesa, come segno della priorità assoluta e della gratuità della grazia, che nella Chiesa viene donata dal Cristo risorto. Per mezzo del sacerdozio ministeriale la Chiesa prende coscienza, nella fede, di non essere da sé stessa, ma dalla grazia di Cristo nello Spirito Santo. Gli Apostoli e i loro successori, quali detentori di un’autorità che viene loro da Cristo Capo e Pastore, sono posti col loro ministero di fronte alla Chiesa come prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo nel suo stesso stare di fronte alla Chiesa e al mondo, come origine permanente e sempre nuova della salvezza»[8]. Noi sacerdoti, presbiteri e vescovi, siamo segni sacramentali di Cristo fra gli uomini, tanto più quanto più sinceramente possiamo dire con san Paolo: «Vivo, ma non io, è Cristo chi vive in me» (Gal 2, 20). Perciò Papa Francesco ha detto ai sacerdoti: «Questo vivere in Cristo in realtà segna tutto ciò che siamo e facciamo. E questa “vita in Cristo” è precisamente ciò che garantisce la nostra efficacia apostolica [...]. Non è la creatività pastorale, non sono gli incontri o le pianificazioni che assicurano i frutti, ma l’essere fedeli a Gesù, che ci dice con insistenza: “Rimanete in me e io in voi”»[9].

3) Un uomo inviato

I presbiteri del Nuovo Testamento, insegna ancora il Decreto a cui tanto lavorò don Álvaro, «sono presi fra gli uomini, e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio»[10]. Il presbitero è un uomo chiamato e consacrato per essere inviato a tutti gli uomini, a servizio dell’azione salvifica della Chiesa come pastore e ministro del Signore. Il Vaticano II ha voluto ricordare e riaffermare la dimensione cultuale e rituale del sacerdozio, attenendosi alla tradizione del Concilio di Trento, ma ha voluto, nello stesso tempo, sottolineare con forza la sua dimensione missionaria: non come due momenti distinti, ma come due aspetti simultanei della stessa esigenza di evangelizzazione.

Partendo dal riferimento normativo dell’esistenza sacerdotale di Cristo e degli Apostoli, il Decreto ha parlato con forza della necessaria presenza evangelizzatrice dei presbiteri tra gli uomini: «Vivono in mezzo agli altri uomini come fratelli. Così infatti si comportò Gesù Cristo nostro Signore, Figlio di Dio, Uomo inviato dal Padre agli uomini, il quale dimorò presso di noi e volle in ogni cosa essere uguale ai suoi fratelli, eccetto che per il peccato»[11]. Il sacerdote deve essere presente in modo vitale e operativo — come ministro di Cristo — nella vita degli uomini, e non lo sarebbe se la sua attività fosse limitata alle funzioni rituali, o se per caso aspettasse che fossero gli altri a venire a rompere il suo isolamento.

Allo stesso tempo, il Presbyterorum Ordinis ha proclamato, con un’ammirevole energia spirituale, un insegnamento che non esito a definire fondamentale, anche per fugare ogni pericolo di desacralizzazione dell’immagine del sacerdote oppure di riduzione temporalista, sociale o filantropica del suo ministero. E ciò senza alcun allontanamento dal mondo, o senza alcuna perdita di umanità. Dice, infatti, il Decreto: «I presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della propria chiamata e della propria ordinazione, sono in un certo modo segregati in seno al Popolo di Dio; ma non per rimanere separati da questo Popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente all’opera per la quale il Signore li assume. Essi non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; ma non potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente. Per il loro stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi con il secolo presente; ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini»[12].

La presenza del sacerdote secolare nel mondo sarà sempre caratterizzata da questo aspetto dialettico che è insito nella natura della sua missione. «Perché una tale missione — ha spiegato magistralmente Mons. del Portillo — potrà adempiersi soltanto se il sacerdote — consacrato dallo Spirito — saprà essere fra gli uomini (pro hominibus constituitur) e, al tempo stesso, separato da loro (ex hominibus assumptus); se vivrà con gli uomini, se comprenderà i loro problemi, apprezzerà i loro valori, ma al tempo stesso, in nome di un’altra realtà, testimonierà e insegnerà altri valori, altri orizzonti dell’anima, un’altra speranza»[13]. È così che i presbiteri riusciranno anche a risolvere un problema che talvolta viene esagerato o travisato — oggi, come ai tempi del Concilio — sul piano sociologico. Mi riferisco al loro valido inserimento nella vita sociale della comunità civile, nella vita ordinaria degli uomini. Oggi, infatti, più che mai i laici — l’intellettuale, l’operaio, l’impiegato — vogliono vedere nel sacerdote un amico, un uomo dal tratto semplice e cordiale (un uomo, si dice, a portata di mano), che sappia ben capire e stimare le nobili realtà umane. Ma, al tempo stesso, vogliono vedere in lui un testimone delle cose future, del sacro, della vita eterna, un uomo cioè che sappia cogliere e insegnare loro, con fraterna sollecitudine, la dimensione soprannaturale della loro esistenza, il destino divino della loro vita, le ragioni trascendenti della loro sete di felicità: in una parola, un uomo di Dio[14]. Quell’uomo capace di aprire il loro cuore alla “tenerezza di Dio”, come ripete Papa Francesco: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia»[15].

4. Il sacerdote “chiamato alla santità”

Mi sia permessa un’ultima considerazione su una verità che noi vedevamo costantemente trasparire negli interventi di don Álvaro. I tre essenziali lineamenti teologici testè esposti sull’immagine del sacerdote (la sua vocazione divina, la sua consacrazione sacramentale e la sua missione evangelizzatrice) vanno ben capiti, integrati e direi avvolti da una profonda esigenza d’ordine ascetico: la santità personale, tramite la spiritualità specifica del presbitero secolare. Con quanto particolare impegno, che non gli faceva risparmiare sacrifici, e con quanto amore verso il sacerdozio, appreso direttamente da san Josemaría Escrivá, Mons. del Portillo diresse i lavori di questo III Capitolo del Decreto!

Ci sono stati giorni, non pochi, in cui la giornata lavorativa di don Álvaro, e con lui dei suoi più stretti collaboratori nella Commissione, finiva ben oltre la mezzanotte. A quelle ore intempestive, chiusi tutti gli uffici dei Dicasteri della Santa Sede, ci si doveva riunire in una delle residenze dei Padri e periti conciliari (San Tommaso di Villanova, in viale Romania), per ultimare la preparazione delle proposte dei testi del Decreto, oppure le responsiones ad modos (le risposte della Commissione agli emendamenti proposti dai Padri), da presentare la mattina successiva alla Commissione plenaria e inviare in giornata alla Tipografia Vaticana. Ricordo bene la grande stima e soprattutto il cordiale affetto che, nonostante l’incalzante ritmo di lavoro, manifestavano verso Mons. del Portillo tutti quei suoi stretti collaboratori.

Se teniamo conto che ciò che sottende a tutto il Concilio è promuovere un rinnovamento nella Chiesa capace di spingerla verso una più efficace evangelizzazione del mondo, è opportuno far osservare che in queste pagine dedicate alla santità sacerdotale vibrano con particolare vigore lo stesso impegno e lo stesso spirito. Ascoltiamo ancora: «Questo sacrosanto Sinodo — dice il Decreto — per il raggiungimento dei suoi fini pastorali di rinnovamento interno della Chiesa, di diffusione del Vangelo in tutto il mondo e di dialogo con il mondo moderno, esorta vivamente tutti i sacerdoti a impiegare i mezzi efficaci che la Chiesa ha raccomandato, in modo da tendere a quella santità sempre maggiore che consentirà loro di divenire strumenti ogni giorno più validi al servizio di tutto il Popolo di Dio»[16].

Da ciò deriva che, sin dall’inizio, viene sottolineato un aspetto essenziale: il sacerdote è chiamato a raggiungere la santità tramite l’esercizio delle proprie funzioni ministeriali, che non solo gli richiedono questo impegno di perfezione, ma lo stimolano e lo favoriscono[17].

Svolgendo il proprio ministero secondo l’esempio di Cristo, il cui alimento era fare la volontà del Padre, il presbitero raggiunge l’unità di vita — espressione, questa, particolarmente cara a don Álvaro perché spesso ricorrente negli insegnamenti di san Josemaría Escrivá —, cioè la desiderabile unione e armonia tra la sua vita interiore e gli impegni, tante volte dispersivi, che derivano dal proprio ministero pastorale. Il riferimento all’unità di vita dei sacerdoti e al suo fondamento, che consiste nell’«unirsi a Cristo nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato»[18], è uno degli elementi più significativi della dottrina ascetica del Decreto.

Ma non potrà vivere realmente questa unità di vita e non manifesterà veramente la carità pastorale di Cristo nel suo ministero il presbitero che non sia un uomo di Eucaristia e di preghiera, un’anima essenzialmente eucaristica e contemplativa. Avverte, infatti, il Presbyterorum Ordinis, a scanso di equivoci sociologici o semplicemente emotivi, che «questa carità pastorale scaturisce soprattutto dal Sacrificio Eucaristico, il quale risulta quindi il centro e la radice — centrum et radix — di tutta la vita del presbitero, cosicché l’anima sacerdotale si studia di rispecchiare ciò che viene realizzato sull’altare. Ma questo non sarà possibile se i sacerdoti non penetrano sempre più a fondo nel mistero di Cristo con la preghiera»[19]. Con la sua incantevole semplicità, Papa Francesco ha glossato così questa realtà mistica: «Se andiamo da Gesù Cristo, se cerchiamo il Signore nella preghiera, siamo buoni sacerdoti, benché peccatori. Se invece ci allontaniamo da Gesù Cristo, dobbiamo compensare quel rapporto con altri atteggiamenti mondani, idolatri, e diventiamo devoti del “dio Narciso” [...]. Il prete che adora Gesù Cristo, il prete che parla di Gesù Cristo, il prete che cerca Gesù Cristo e che si lascia cercare da Gesù Cristo: questo è il centro della nostra vita. Se non c’è questo, perdiamo tutto. E cosa daremo alla gente?»[20].

5. Di fronte alla nuova evangelizzazione

Ci siamo rivolti al Decreto Presbyterorum Ordinis per cercare nelle sue pagine l’immagine di sacerdote che il Concilio Vaticano II ci ha lasciato e che don Álvaro ha illustrato nei suoi scritti, ma soprattutto con l’esemplarità del suo lavoro e della sua vita sacerdotale. Ma possiamo ora formulare una domanda che lo stesso Mons. del Portillo si poneva talvolta — ricordo bene alcune sue conversazioni — alla sera della sua vita, ormai alla soglia del Terzo Millennio: quest’immagine, questi parametri dottrinali e disciplinari, quest’identità propria del sacerdote cattolico, come si inseriscono nella grande sfida che le circostanze del mondo attuale e l’impulso missionario di Papa Francesco pongono alla Chiesa e, in primo luogo, ai ministri di Cristo?

Possiamo fare una prima constatazione. Dal Concilio Vaticano II a oggi sono passati cinquant’anni di vita vissuta e sofferta nella Chiesa, anni di riflessione teologica non sempre equilibrata e serena; di rinnovato impegno pastorale, non sempre senza contrasti e difficoltà. Eppure la dottrina del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri non soltanto non è impallidita, ma si è imposta con crescente vigore nel tempo. Ciò ha una spiegazione: il Concilio Vaticano II è venuto alla luce nella Chiesa con una vocazione di rinnovamento e di evangelizzazione. Ed è certo che, a distanza di mezzo secolo dalla sua conclusione, sono facilmente rilevabili i segni crescenti del positivo influsso del suo dinamismo spirituale e pastorale.

Lo spirito conciliare di rinnovamento ha impregnato in questi anni, sotto la guida provvidenziale dei grandi Papi che si sono succeduti sulla sede di Pietro, la vita liturgica, la normativa canonica, l’insegnamento catechetico. La Chiesa ha veramente rinnovato la sua dottrina, la sua legislazione e la sua vita d’accordo con il Vaticano II, ed è in grado di svolgere la sua missione apostolica all’alto livello che i tempi esigono. Inoltre, è impegnata da anni, sotto il vigoroso impulso di san Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e ora di Papa Francesco, in un’impresa di nuova evangelizzazione, che «esige sacerdoti che siano radicalmente e integralmente immersi nel mistero di Cristo e capaci di realizzare un nuovo stile pastorale»[21], sempre nel segno della fedeltà alla sua vocazione, consacrazione e missione, cioè ai contenuti del Decreto Presbyterorum Ordinis.

La nuova evangelizzazione, che deve manifestare con vigore la centralità di Cristo nel cosmo e nella storia, ha non solo una dimensione ascendente — Cristo come compimento di tutti gli aneliti dell’uomo — ma è, anche e innanzitutto, una mediazione discendente: «In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca. L’Incarnazione del Figlio di Dio testimonia che Dio cerca l’uomo»[22]. Parole di san Giovanni Paolo II che anche Papa Francesco ama ripetere.

Cristo, unico Mediatore, è presente nel sacerdote per far sì che l’intera Chiesa, Popolo sacerdotale di Dio, possa dare al Padre il culto spirituale che tutti i battezzati sono chiamati a offrire. Come potrebbe esserci offerta accettabile al Padre se ciò che i fedeli offrono — il lavoro, le gioie e le difficoltà della vita familiare e sociale, la propria vita — non venisse offerto nella santa Messa, in unione al Corpo e al Sangue del suo Figlio, unica Vittima propiziatoria?

Cristo, Unico ed Eterno Sacerdote, è presente nel ministero dei sacerdoti, per ricordare a tutti che la sua passione, morte e risurrezione non costituiscono un avvenimento da circoscrivere o relegare al passato della storia, alla Palestina di 2000 anni fa, ma una realtà salvifica, sempre attuale, resa continuamente operativa dal miracolo d’amore dell’Eucaristia, centro e sorgente di tutta la vita della Chiesa.

Cristo, per la sua divinità unigenito del Padre e per la sua umanità primogenito di tutte le creature, è presente nel sacerdote per annunziare autorevolmente al mondo la sua Parola, educare tutti nella fede e formare con i sacramenti la nuova umanità, il Corpo mistico del Signore, in attesa della Sua venuta nell’ultima ora della storia.

Cristo, Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, è presente nel sacerdote, per insegnare agli uomini che la riconciliazione dell’anima con Dio non può essere ordinariamente opera di un monologo; che l’uomo peccatore, per essere perdonato, ha bisogno dell’uomo-sacerdote, ministro e segno nel sacramento della Penitenza della radicale necessità che l’umanità caduta ha avuto dell’Uomo-Dio, unico Giusto e Giustificatore.

In una parola, Cristo è presente nel sacerdote, per proclamare e testimoniare al mondo che Egli è il Principe della pace, la Luce delle anime, l’Amore che perdona e riconcilia, il Cibo di vita eterna, l’unica Verità a sé stante, l’Alfa e l’Omega dell’universo. E che, perciò, nessuna realtà veramente umana, nessun processo umano di perfezione o di sviluppo, può essere concepito al margine della nuova creazione operata dalla sua incarnazione e dal suo sacrificio.

Ecco la nostra ragion d’essere di tutti noi sacerdoti, le “credenziali della nostra identità”, da presentare con tanto più coraggio e chiarezza davanti agli uomini quanto più sfacciata sia la pressione dell’agnosticismo religioso e del permissivismo morale. San Giovanni Paolo II ha detto: «La Chiesa del nuovo Avvento, la Chiesa che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore, deve essere la Chiesa dell’Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo profilo spirituale della sua vitalità e della sua attività, essa è la Chiesa della missione divina, la Chiesa in statu missionis»[23]. Questa Chiesa, in permanente stato di missione, di evangelizzazione, è quella che salva il destino eterno e l’autentica felicità dell’uomo.

Ha scritto Papa Francesco: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata»[24]. Di fronte a questa realtà, la volontà salvifica di Cristo (compito della Chiesa e in primo luogo dei sacri ministri) offre ai cuori umani quella gioia che il mondo non dà e neppure può togliere: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia»[25].

6. Mons. Álvaro del Portillo dopo il Vaticano II

La promulgazione del Decreto sulla vita e il ministero dei sacerdoti coincise praticamente con la fine del Concilio Vaticano II e, conseguentemente, con l’impegno di Mons. del Portillo nei lavori conciliari. Dovrei, perciò, anch’io concludere qui questa conferenza. Ciò sarebbe certamente un sollievo per la vostra pazienza! Ma non sarebbe giusto verso don Álvaro, perché la sua influenza nel Concilio si prolungò notoriamente negli anni successivi e si prolunga oggi qui, tra noi, in questa Università. Possiamo vederlo subito spostando ora lo “zoom” del nostro discorso sulla seguente solenne affermazione del Vaticano II: «Il Concilio Ecumenico, ben consapevole che l’auspicato rinnovamento di tutta la Chiesa in gran parte dipende dal ministero sacerdotale animato dallo spirito di Cristo, afferma solennemente l’importanza somma della formazione sacerdotale»[26].

Penso che il Papa Paolo VI, promulgatore dei Decreti del Concilio e buon conoscitore di Mons. del Portillo, avrà gioito in Cielo vedendo con quale squisita sensibilità don Álvaro accoglieva questo desiderio del Concilio, peraltro già presente nella mente e nella preghiera di san Josemaría. Infatti, il 9 gennaio 1985 venne eretto, promosso dall’allora prelato dell’Opus Dei, Mons. del Portillo, il Centro superiore di studi ecclesiastici in cui oggi noi ci troviamo. Da allora migliaia di sacerdoti di tutto il mondo si sono formati in questa Pontificia Università della Santa Croce, in stretta comunione con il Successore dell’Apostolo Pietro, al servizio del rinnovato annuncio del Vangelo auspicato dal Concilio Vaticano II.

Permettetemi di concludere con un altro brevissimo ricordo di Mons. del Portillo. Il Signore, nella Sua infinita bontà, dispose che questo pastore esemplare nel servizio della Chiesa e figlio fedelissimo del fondatore dell’Opus Dei potesse celebrare l’ultima Messa della sua vita a Gerusalemme, nel Cenacolo, proprio nel luogo santo dove Gesù aveva istituito, nell’Ultima Cena, l’Eucaristia e il Sacerdozio. Era il 22 marzo 1994. Poche ore dopo, rientrato a Roma con lo stesso sorriso affabile di sempre, egli rese serenamente la sua anima al Signore nell’alba del giorno successivo, 23 marzo. San Giovanni Paolo II, recatosi a pregare davanti alla salma, rimase meravigliato nell’apprendere queste veramente toccanti circostanze dell’ultima Messa e del dies natalis di don Álvaro. Il Signore aveva voluto coronare la sua vita, tante volte segnata dalla Croce, con questa carezza: ben meritata!

[1] VEN. ÁLVARO DEL PORTILLO, “La figura del sacerdote nel dettato conciliare”, in Consacrazione & missione del sacerdote, Milano 2009, pp. 26-28. La redazione originale di questo capitolo è apparsa sulla rivista Palabra, nn. 12-13 (1968), pp. 4-8.

[2] CONCILIO VATICANO II, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum Ordinis, 2: EV 1, 1245.

[3] PAPA FRANCESCO, Omelia, 27-VII-2013.

[4] PAPA FRANCESCO, Parole in occasione di un incontro con seminaristi, novizi e novizie, 6-VII-2013.

[5] VEN. ÁLVARO DEL PORTILLO, Consacrazione & missione del sacerdote, cit., pp. 55-56.

[6] SAN JOSEMARÍA, “L’Eucaristia, mistero di fede e di amore”, in È Gesù che passa, Milano 1982, nn. 86, 186.

[7] CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, n. 12.

[8] SAN GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 16.

[9] PAPA FRANCESCO, Omelia, 27-VII-2013.

[10] CONCILIO VATICANO II, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum Ordinis, 3: EV 1, 1249.

[11] Ibidem, 2: EV 1, 1249.

[12] Ibidem.

[13] VEN. ÁLVARO DEL PORTILLO, Consacrazione & missione del sacerdote, cit., p. 41.

[14] Cfr. JULIÁN HERRANZ, “I rapporti sacerdoti-laici”, in Studi sulla nuova Legislazione della Chiesa, Roma, 1990, pp. 246-247.

[15] PAPA FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 1.

[16] CONCILIO VATICANO II, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum Ordinis, 12: EV 1, 1285.

[17] Ibidem, 12: EV 1, 1284.

[18] Ibidem, 14: EV 1, 1291.

[19] Idem.

[20] PAPA FRANCESCO, Omelie del mattino - Casa Santa Marta, Omelia dell’11-I-2014, Libreria Editrice Vaticana, vol. 2, 2014.

[21] SAN GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25-III-1992, n. 18.

[22] SAN GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, 10-XI-1994, n. 7.

[23] SAN GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptor hominis, 4-III-1979, n. 20.

[24] PAPA FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 2.

[25] Ibidem, n. 1.

[26] CONCILIO VATICANO II, Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, Proemio.

Romana, n. 58, Gennaio-Giugno 2014, p. 178-193.

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