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“Il lavoro del beato Álvaro del Portillo nella genesi del decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II”, in Dialoghi di Teologia di Almudí, Valencia, Spagna (17-IV-2015)

Per poter studiare la genesi e il contenuto del decreto Presbyterorum ordinis, sul ministero e la vita dei presbiteri, ci sembra utile accennare brevemente alle vicissitudini che attraversò la sua elaborazione, sia nella fase preparatoria del Concilio, sia durante il periodo propriamente conciliare. Si dovrà anche tenere presente la storia dei diversi schemi De Ecclesia — che finirono nella costituzione dogmatica Lumen gentium —, perché le questioni sul sacerdozio lì trattate ebbero ripercussioni immediate nella elaborazione del decreto sui presbiteri.

I. Una breve introduzione storica

È noto che, per stabilire quali argomenti avrebbe trattato il Concilio, fu richiesto il parere di tutti i vescovi del mondo, della Curia Romana e delle università della Chiesa. Le proposte, molto numerose, furono distribuite fra dieci commissioni e tre segretariati; poi fu redatto un numero molto elevato di schemi di eventuali documenti, che si sarebbero dovuti studiare ed elaborare nell’assemblea conciliare.

Si sa anche che questo abbondante materiale preliminare fu scartato quasi del tutto dai padri conciliari. I motivi furono molteplici, benché, in definitiva, è possibile ridurli a due:

a) In questi schemi si affrontavano questioni molto diverse e succedeva che, in molti casi, mancava un filo conduttore.

b) L’elaborazione di questi progetti si basava in generale sul ricorso, allora considerato sufficientemente solido, alla teologia che si era costruita nel corso dei secoli, senza tentare un maggior approfondimento della dottrina. Per ciò che si riferisce al sacerdozio, l’opinione comune sosteneva che i presbiteri possedevano la pienezza del sacerdozio, poiché la loro potestà principale è incentrata nella grande responsabilità di consacrare il corpo e il sangue di Cristo nel celebrare la Santa Messa; tutte le altre funzioni sacerdotali erano subordinate a questa potestas. Perciò era dottrina abbastanza diffusa che l’episcopato non costituiva il grado più alto del sacramento dell’Ordine; era concepito come un potere aggiunto — la giurisdizione — a quello che già possedevano i presbiteri, allo scopo di organizzare e governare la Chiesa.

Ben presto ci si rese conto che questa concezione della gerarchia aveva un difetto singolare: la scarsa considerazione della Chiesa come communio, che alcuni teologi avevano sviluppato nella prima metà del XX secolo.

Charles Moeller fece una riflessione penetrante su questa situazione quando, in un commento di vari autori della costituzione Lumen gentium, pubblicato nel 1965, iniziò il suo scritto con le seguenti parole: «Se qualcuno, nel gennaio del 1959, avesse detto che pochi anni dopo [nel 1964] sarebbe stata promulgata una costituzione dogmatica sulla Chiesa, sarebbe stato considerato un candido sognatore»[1].

Le sessioni conciliari cominciarono l’11 ottobre 1962. Man mano che il lavoro progrediva, diventava sempre più evidente la necessità di approfondire le radici ecclesiologiche di molti temi che si andavano affrontando. Per ciò che si riferisce al presbiterato, nell’ottobre del 1963, durante la seconda sessione conciliare, parecchi padri mostrarono la loro insoddisfazione perché — come fece notare uno di loro — il paragrafo dello schema De Ecclesia dedicato al sacerdozio ministeriale dei presbiteri era molto breve — “mezza pagina scarsa”, affermò, “di fronte alle nove pagine dedicate all’episcopato” — e marcatamente povero di contenuto. Si faceva notare che questa esposizione probabilmente sarebbe stata un motivo di delusione dei sacerdoti, che avrebbero potuto pensare che il Concilio non prestasse una sufficiente attenzione al grande servizio alla Chiesa che la loro missione meritava.

Per attenuare questi inconvenienti senza modificare lo schema sulla Chiesa, fu suggerita la possibilità di preparare un messaggio dei padri conciliari ai presbiteri. Un progetto di questo messaggio fu sottoposto al parere dell’assemblea; però furono tanti gli emendamenti proposti, che la seconda sessione del Concilio si concluse senza che il messaggio fosse stato completato e, quindi, non fu possibile inviarlo.

Nello stesso tempo, alcuni interventi dei padri conciliari avevano accennato, sia pure vagamente, alla necessità di approfondire molto di più i passi avanti fatti dalla ecclesiologia di comunione; lì si sarebbero trovate le basi strutturali per la revisione e una successiva nuova redazione del numero dello schema De Ecclesia nel quale si trattava specificamente dei presbiteri. Queste nuove idee aiutarono a capire che non era necessario inviare un messaggio specifico ai presbiteri e che questo tema di vitale importanza per la Chiesa doveva essere affrontato in profondità.

Come ho già detto, i padri conciliari erano d’accordo sul fatto che, in generale, si notava una mancanza di riflessione globale sulla Chiesa. Su questa linea, nel progetto della costituzione dogmatica sulla Chiesa, studiato durante la seconda sessione conciliare (1963), al capitolo I sul mistero della Chiesa, seguiva il capitolo II sulla gerarchia, e solo nel capitolo III si esponeva la dottrina della Chiesa come popolo di Dio e, in particolare, l’importanza e il rilievo dei laici. Le osservazioni e le proposte di correzione da parte dei padri portarono alla decisione chiarificatrice che al popolo di Dio — del quale fanno ugualmente parte sia i componenti della gerarchia, sia i fedeli laici — si dedicasse il capitolo II, dopo aver illustrato il mistero della Chiesa nel suo insieme, perché la condizione di membro del popolo di Dio (christifidelis) è comune a tutti i battezzati, laici o ministri ordinati. Solo dopo si sarebbe trattato della costituzione gerarchica della Chiesa (capitolo III) e dei laici (capitolo IV).

II. L’elaborazione del decreto sui presbiteri

La redazione del decreto che alla fine fu promulgato con le parole iniziali Presbyterorum ordinis fu affidata alla Commissione conciliare per la disciplina del clero e del popolo cristiano.

Nel titolo di questa commissione si faceva una impropria distinzione tra il clero e il popolo cristiano, riflesso di una situazione che, come abbiamo visto, si riuscì a superare solo un po’ per volta. Per ciò che si riferisce al popolo cristiano, nella tappa preparatoria erano stati elaborati diversi schemi sulla cura delle anime, la catechesi e le associazioni di fedeli[2]. Quanto alla disciplina del clero, in questa fase preparatoria erano stati redatti otto schemi; alcuni trattavano di questioni troppo specifiche, come la provvista, l’unione e la divisione delle parrocchie, il modo di vestire e la tonsura dei chierici, o l’ordinazione di coloro che erano stati ministri di una confessione cristiana non cattolica. Erano tutti aspetti pratici del ministero e della vita sacerdotale, ma senza che si approfondisse una vera teologia del presbiterato.

Quando ormai era iniziata la prima sessione del Concilio, in data 8 novembre 1962, don Álvaro del Portillo fu nominato segretario di questa commissione. Suo presidente era il cardinale Ciriaci, che, per motivi di salute, gli affidava abitualmente il compito di dirigere e coordinare i lavori dei membri e dei periti che costituivano questo organismo. Naturalmente, egli teneva costantemente informato il presidente sullo svolgimento e i passi avanti dei lavori. Penso che questo modo di occuparsi dell’incarico ricevuto costituisse un motivo in più per essere grati della instancabile dedizione dell’attuale beato, sempre mosso dal suo desiderio di servire la Chiesa e da un serio e responsabile amore al sacerdozio, che produsse come frutto importantissimo del Concilio la promulgazione del decreto Presbyterorum ordinis[3]. Non pochi padri e teologi lo considerarono di singolare importanza per la sua ricchezza dottrinale e pastorale. Per questo, nel descrivere il contenuto del decreto, utilizzerò alcuni paragrafi presi dagli scritti dello stesso don Álvaro del Portillo sul sacerdozio.

Senza voler fare una digressione, mi sembra di particolare rilievo il fatto che, durante la causa di canonizzazione di don Álvaro, molti testimoni abbiano messo in evidenza che sapeva creare attorno a sé un efficace clima di fiducia e di lavoro di gruppo. Già prima della sua partecipazione al Concilio era ben conosciuto in Spagna e in Italia specialmente per la sua simpatia umana, la sua semplicità sacerdotale e la sua profonda preparazione teologica e canonistica, qualità che cercava giorno dopo giorno di migliorare per un più buon servizio alla Chiesa, alla prelatura dell’Opus Dei e alle anime. Fu stimato dai Pontefici romani che conobbe personalmente: da Pio XII, quando Álvaro del Portillo era un giovane ingegnere civile, fino a Giovanni XXIII e a Paolo VI, che gli dimostrarono grande affetto e vicinanza; e, dopo il Concilio, da san Giovanni Paolo II, con il quale ebbe rapporti continui con un senso di stretta filiazione durante gli anni del suo servizio pastorale alla Chiesa come prelato dell’Opus Dei.

Un rispetto e un’ammirazione che erano condivisi da molte persone della Curia Romana, dai cardinali e dai vescovi fino agli impiegati: non invano aveva collaborato con varie congregazioni e consigli pontifici per molti anni. Era ammirevole la sua capacità di stringere amicizia con ogni tipo di persone, che cercava di servire in tutto ciò che era nelle sue possibilità. Molti manifestarono la loro gioia nell’apprendere che, alla morte di san Josemaría, era stato eletto alla guida dell’Opus Dei. E conoscendo don Álvaro, non si meravigliarono che, in un momento cruciale (come è la morte del fondatore di una istituzione della Chiesa), nell’Opus Dei non si fosse verificato il benché minimo terremoto; non solo per l’unità dei fedeli, ma per il prestigio interno ed esterno di cui godeva il primo successore di san Josemaría.

Benché don Álvaro mantenesse una delicata riservatezza intorno al suo lavoro nel Concilio, conservo — e ne sono grato a Dio — molti ricordi della mia vita vicino a un così buon servitore della Chiesa, in quegli anni, e sono testimone della sua dedicazione abnegata e costante all’incarico ricevuto. Spesso lavorava fino a ore avanzate della notte per evitare che queste occupazioni facessero diminuire la sua dedizione ai compiti che aveva nell’Opus Dei, nel suo aiuto al fondatore come segretario generale.

Inoltre sono stato abitualmente presente ai pranzi e alle successive conversazioni con molti padri e periti conciliari, invitati da san Josemaría Escrivá attraverso il beato Álvaro[4]. Spesso mi è stata offerta l’occasione di partecipare come testimone — intervenendo il meno possibile — nelle conversazioni tra san Josemaría e il beato Álvaro su temi riguardanti il sacerdozio, ma non sul compito che svolgeva nel Concilio. Questi dialoghi hanno aiutato certamente don Álvaro nel momento in cui doveva proporre una soluzione alle questioni che sorgevano nell’aula conciliare o nelle varie commissioni, che poi andavano sottoposte a uno studio accurato da parte della commissione conciliare della quale era segretario.

Il venerato cardinale Augustin Mayer, che lavorò nella commissione conciliare incaricata di preparare il decreto sulla formazione sacerdotale, espresse più di una volta la sua gratitudine a Monsignor del Portillo, che aveva arricchito lo studio e le conclusioni del documento preparato da detta commissione.

Ritornando ora al tema che ci interessa direttamente, durante la prima sessione del Concilio (ottobre-dicembre 1962) la Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano restò in attesa di precise indicazioni dalla Segreteria diretta da Monsignor Pericle Felici, su come si dovevano studiare le diverse questioni pertinenti. Alla fine di questa sessione fu evidente che i lavori conciliari non procedevano con la fluidità sperata. Per questo motivo, nel gennaio del 1963, la Commissione coordinatrice ridusse drasticamente il numero dei progetti che dovevano essere esaminati nell’assemblea generale e affidò alla Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano l’incarico di redigere, sulla base di tre schemi elaborati nella fase preparatoria, un progetto di decreto sui chierici, diviso in tre capitoli: I. La santità dei chierici. II. Lo studio e la scienza pastorale dei chierici. III. L’amministrazione dei beni ecclesiastici. Si aggiungeva, come appendice, una breve esortazione sulla distribuzione del clero nel mondo.

Come si può notare, questo progetto comprendeva temi pastorali e temi pratici che si riteneva opportuno trattare in un unico documento; per ciò che si riferisce alla teologia del sacerdozio, si sottintendeva che, nel caso si volesse suggerire una modifica — sebbene allora non si considerasse necessaria —, il luogo adatto per proporla poteva essere nello schema De Ecclesia, allora in elaborazione. La Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano redasse lo schema De clericis, che fu inviato ai padri conciliari perché trasmettessero per iscritto le loro osservazioni e le proposte di correzione.

Il Concilio, come ho già detto, avanzava lentamente. Per questo motivo, terminata la seconda sessione, la Commissione coordinatrice decise un nuovo taglio dei documenti da studiare in assemblea. Dispose anche che lo schema De clericis fosse drasticamente ridotto ai suoi punti essenziali e fosse sintetizzato in alcuni brevi enunciati o proposizioni. Si preparò allora lo schema di proposizioni De sacerdotibus — non più De clericis — che, in una successiva redazione, s’intitolò De vita et ministerio sacerdotali. Come era accaduto l’anno precedente, per rimediare alla brevità di questo testo dedicato ai sacerdoti, la Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano chiese alla Commissione coordinatrice l’autorizzazione a riscrivere un progetto di messaggio dei padri ai presbiteri del mondo intero.

Queste proposizioni furono discusse la prima volta nell’aula conciliare dal 13 al 15 ottobre 1964. La votazione del testo mise in evidenza che i padri desideravano un documento assai più ampio e organico sul sacerdozio. Come riferisce il cardinale Julián Herranz, allora aiutante del segretario della Commissione conciliare, la bocciatura di un progetto così ridotto fu accolta con immensa gioia da don Álvaro e anche dai membri della commissione, che avevano rispettato molto a malincuore le disposizioni precedenti di ridurre lo schema ad alcuni enunciati quasi telegrafici. Infatti, era vivo il desiderio di tutti di offrire ai sacerdoti un testo che essi potessero accogliere con soddisfazione, visto il ruolo rilevante e insostituibile che avevano nella Chiesa[5]. In questo modo fu abbandonato per la seconda volta il progetto di un messaggio ai presbiteri.

La Commissione sulla disciplina del clero e del popolo cristiano lavorò intensamente per sviluppare la teologia del sacerdozio, abbozzata al n. 28 della Lumen gentium, sui presbiteri e sulla loro missione nella Chiesa. Stabilite queste basi, seguivano logicamente le disposizioni pastorali, disciplinari e ascetiche. Un mese più tardi, il 20 novembre 1964, vigilia della promulgazione della costituzione dogmatica Lumen gentium e della fine della terza sessione conciliare, fu consegnato ai padri il progetto stampato del decreto De ministerio et vita presbyterorum. Il lavoro di don Álvaro come segretario della commissione fu improbo, perché si riuscì a concludere questo lavoro in un brevissimo lasso di tempo. D’altra parte, era ardua tutta l’attività di studio, di colloqui comuni e personali con le settanta persone di diciassette nazionalità — tra cardinali, vescovi e periti teologi e canonisti — che componevano la commissione. Malgrado la scarsezza di tempo, tra i componenti della commissione si dichiarò particolarmente contento monsignor Marty, allora arcivescovo di Reims e più tardi cardinale e arcivescovo di Madrid; oltre agli esperti che collaboravano più direttamente, tra i quali mi piace ricordare monsignor Onclin (decano della Facoltà di diritto canonico di Lovanio) e il padre Lecuyer, dei Missionari dello Spirito Santo[6].

Questo nuovo progetto di decreto fu discusso durante la quarta e ultima sessione del Concilio, nei giorni 14-16 e 25-26 ottobre 1965, e fu approvato praticamente all’unanimità come base per una rielaborazione, che la commissione realizzò in meno di venti giorni, di modo che il nuovo testo poté essere votato nell’aula conciliare nei giorni 12 e 13 novembre 1965, ottenendo un largo consenso in ognuno dei capitoli e degli articoli. Non mancarono, tuttavia, proposte di correzioni, in relazione alle quali il documento fu revisionato e ristampato; in questo intervallo, coloro che erano intervenuti nei lavori lodarono la capacità di sintesi e la profondità teologica e canonistica del segretario, che trovava le soluzioni redazionali più opportune. Alla fine, il decreto fu sottoposto a votazione il 2 dicembre 1965, ottenendo 2.243 placet e 11 non placet.

Questo documento, il decreto Presbyterorum ordinis, sul ministero e la vita dei presbiteri, fu promulgato da Paolo VI il 7 dicembre 1965, vigilia della solenne chiusura del Concilio. Alcuni giorni dopo, il cardinale Pietro Ciriaci scrisse a don Álvaro una lettera dalla quale traggo alcuni brani:

«Con la definitiva approvazione dello scorso 7 dicembre si è concluso felicemente, grazie a Dio, il grande lavoro della nostra commissione, che ha potuto in tal modo condurre a termine il suo decreto, che non è l’ultimo in importanza tra i decreti e le costituzioni conciliari». Dopo aver ricordato con gioia «la votazione plebiscitaria», il presidente della commissione che lo aveva elaborato aggiunge: «So bene quanta parte ha avuto in tutto questo il suo lavoro sapiente, tenace e amabile che, sempre nel rispetto della libertà di opinione degli altri, ha mantenuto una linea di fedeltà ai grandi principi orientatori della spiritualità sacerdotale. Nell’informare il Santo Padre, non mancherò di segnalare tutto questo. Frattanto, desidero che le giunga, con un caldo plauso, la mia gratitudine più sincera»[7].

III. Le coordinate del decreto

Questo decreto si basa sull’attuale n. 28 della costituzione dogmatica Lumen gentium, che presuppone la realtà del sacerdozio comune di tutti i fedeli (capitolo II di questa costituzione) e la dottrina sul sacerdozio ministeriale, enunciata nei numeri che trattano dei vescovi (capitolo III). All’interno di questo capitolo, il numero 28 della Lumen gentium comincia mettendo il sacerdozio dei presbiteri in relazione con la consacrazione e la missione di Gesù Cristo, ma anche con la gerarchia ecclesiastica nel suo insieme; prosegue con la descrizione dei vincoli che uniscono il presbitero al suo vescovo, ai suoi fratelli del presbiterio, agli altri fedeli e a tutti gli uomini, chiamati a far parte del popolo di Dio.

Il binomio consacrazione-missione, sullo sfondo della comunione ecclesiale, costituisce le coordinate sulle quali si sviluppa l’esposizione conciliare intorno al sacerdozio. La novità non consiste nel riformare la dottrina precedente, ma nell’inquadrarla, come scrive il beato Álvaro, all’interno del suo ambito naturale cristologico ed ecclesiologico; vale a dire nel quadro della «missione che la Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo», [che] «è unica, e la sua realizzazione è affidata a tutti i membri del popolo di Dio, resi partecipi del sacerdozio di Cristo [sacerdozio comune] mediante i sacramenti dell’iniziazione [...]. Un’unica missione, di ambito universale e, per realizzarla, un unico sacerdozio, quello di Cristo, del quale partecipano tutti i membri del popolo di Dio, benché in modo diverso»[8].

All’interno di questa unità, il sacramento dell’Ordine «è, essenzialmente e anzitutto, una configurazione, una trasformazione sacramentale e misteriosa della persona dell’uomo-sacerdote nella persona dello stesso Cristo, unico mediatore»[9], mediante la quale il sacerdote rimane suggellato con un carattere indelebile e costituito in perpetuo ministro per la predicazione del Vangelo, per dirigere pastoralmente i fedeli e per celebrare il culto divino, funzioni che convergono e raggiungono il culmine nella celebrazione dell’Eucaristia, che — come leggiamo nella Presbyterorum ordinis, n. 14, con una espressione che il beato Álvaro aveva sentito dire tante volte a san Josemaría — è centrum ac radix, il centro e la radice della vita di ogni sacerdote e di tutta la Chiesa. Infatti, ancora con parole della Presbyterorum ordinis (n. 5), «tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d’apostolato, sono strettamente uniti alla Sacra Eucaristia e a essa sono ordinati [...]. Per questo, l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione».

Intorno al binomio menzionato, consacrazione-missione del sacerdote, si constatarono tra i padri conciliari due tendenze, che accentuavano rispettivamente la consacrazione o la missione. Don Álvaro del Portillo descrive così la situazione: «Durante i dibattiti conciliari intorno al decreto sui presbiteri si erano manifestate due posizioni che, considerate separatamente, potrebbero apparire opposte o addirittura contraddittorie: da una parte si insisteva sull’annuncio del messaggio di Cristo a tutti gli uomini; dall’altra si poneva l’accento sul culto e sull’adorazione di Dio come fini cui tutto deve tendere nel ministero e nella vita dei sacerdoti. Fu necessario uno sforzo di sintesi e di conciliazione, e la commissione lavorò con tutto l’impegno per armonizzare le due concezioni, che non sono opposte né si escludono a vicenda»[10].

Secondo i commenti dei membri della commissione, alla fine fu decisivo il lavoro instancabile di aggiustamento e di concordia svolto da don Álvaro, con un responsabile contributo per arrivare alla conclusione desiderata. «In effetti le due diverse posizioni dottrinali sul sacerdozio — prosegue monsignor del Portillo nel suo scritto — acquistano pieno rilievo e significato quando vengono ambedue inserite in una sintesi più comprensiva, nella quale si mostri che si tratta di aspetti assolutamente inseparabili e complementari, che danno risalto l’uno all’altro: il ministero in favore degli uomini si comprende solo come un servizio prestato a Dio (cfr. Rm 1, 9), mentre la glorificazione di Dio richiede che il presbitero senta l’ansia di unire alla propria lode quella di tutti gli uomini [...]. Si ha così una prospettiva dinamica del ministero sacerdotale che, annunciando il Vangelo, genera la fede in quelli che ancora non credono (cfr. Rm 12, 1) in modo che appartengano al popolo di Dio e uniscano il loro sacrificio a quello di Cristo, formando un solo Corpo con Lui»[11].

Troviamo conferma a queste parole nel n. 2 della Presbyterorum ordinis: «È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto perché viene unito al sacrificio di Cristo, unico mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore. A ciò tende e in ciò trova la sua perfetta realizzazione il ministero dei presbiteri».

Il Santo Padre Francesco insiste incessantemente nel parlare di una Chiesa che non può rimanere chiusa in sé stessa, ma deve andare incontro a tutti gli uomini, però sempre in stretta unione con Cristo. Vale la pena citare qui un brano del suo recente discorso al clero di Napoli:

«Vorrei finire con tre cose. Primo, l’adorazione. “Tu preghi?” — “Io prego: sì. Chiedo, ringrazio, lodo il Signore”. — “Ma, adori il Signore?”. Abbiamo perso il senso dell’adorazione a Dio: occorre riprendere l’adorazione a Dio. Secondo: tu non puoi amare Gesù senza amare la sua Sposa. L’amore alla Chiesa. Abbiamo conosciuto tanti preti che amavano la Chiesa e si vedeva che l’amavano. Terzo — e questo è importante —, lo zelo apostolico, cioè la missionarietà. L’amore alla Chiesa ti porta a farla conoscere, a uscire da te stesso per andare fuori a predicare la Rivelazione di Gesù, ma ti spinge anche a uscire da te stesso per andare all’altra trascendenza, cioè all’adorazione. Nell’ambito della missionarietà credo che la Chiesa debba camminare un po’ di più, convertirsi di più, perché la Chiesa non è una ONG, ma è la Sposa di Cristo che ha il tesoro più grande: Gesù. E la sua missione, il suo motivo di esistere è proprio questo: evangelizzare, cioè portare a Gesù. Adorazione, amore alla Chiesa e missionarietà. Queste sono le considerazioni che mi sono venute spontanee in questo momento»[12].

IV. Struttura e contenuto della “Presbyterorum ordinis”

Il decreto Presbyterorum ordinis ci si presenta come un testo organicamente strutturato. L’introduzione espone il profondo interesse nel continuare a sviluppare la dottrina sul presbiterato, già trattata nella costituzione sulla sacra liturgia e nella costituzione dogmatica Lumen gentium. Si prosegue con tre capitoli: 1) il presbiterato nella missione della Chiesa; 2) il ministero dei presbiteri; 3) la vita dei presbiteri.

Il secondo capitolo, il più esteso (nn. 4-11), espone le funzioni sacerdotali: predicare la Parola di Dio, essere ministri dei sacramenti, soprattutto della Santa Eucaristia, ed educatori nella fede del popolo di Dio, espressione che qui è impiegata come sinonimo di cura pastorale dei fedeli. Nella realizzazione di questo compito, si esaminano poi le relazioni dei presbiteri con i rispettivi vescovi, con i loro fratelli nel presbiterio e con i fedeli laici.

Nella prima parte il linguaggio è prevalentemente teologico e, senza perdere questo carattere, nella seconda parte cominciano ad apparire alcune conseguenze pastorali, ascetiche e disciplinari. Queste ultime saranno messe in pratica e avranno una formulazione giuridica mediante successivi documenti pontifici postconciliari e, infine, nel Codice di Diritto Canonico del 1983 o nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990.

Tra queste conseguenze ascetiche e pastorali, qui possiamo ricordare la costituzione del consiglio presbiterale (n. 7), a parte le riflessioni che si espongono nel n. 8 intorno al vincolo sacramentale di fraternità esistente fra tutti i presbiteri, specialmente fra quelli che fanno parte di uno stesso presbiterio diocesano, uniti tra loro da speciali vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. Nessuno può vivere isolato, tutti abbiamo bisogno del sostegno cordiale di fratelli con i quali ci incontriamo spesso e che ci guardano con affetto, si rendono conto di ciò di cui abbiamo bisogno, contribuiscono a farci sorridere e ci appoggiano nella nostra vita di ogni giorno. Il testo prosegue entrando nei particolari delle relazioni tra sacerdoti giovani e meno giovani, e contemporaneamente esprime una grande stima verso le associazioni che promuovono la santità del clero nell’esercizio del ministero. Il paragrafo che stiamo commentando si chiude ricordando la particolare sollecitudine che devono dimostrare i sacerdoti, prodigandosi per quei fratelli che stanno attraversando alcuni momenti difficili.

Le relazioni del presbitero con i laici (n. 9) sono esposte da una prospettiva di servizio, ma anche di riconoscimento della funzione da loro svolta nella Chiesa e nella società civile. Mi permetto di dire che il sacerdote deve imparare ogni giorno ad amare le anime, una per una, senza nessuna eccezione. Sia nel rapporto individuale con ogni persona, sia nella pastorale della famiglia — la grande sfida dei nostri giorni — e, in generale, della comunità cristiana, il presbitero deve cercare continuamente di farsi tutto a tutti, come esorta san Paolo (cfr. 1 Cor 9, 22), contribuendo a creare attorno a sé quella «gioia del Vangelo — della quale parla Papa Francesco — che riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia»[13]. In tal modo crescerà nel popolo di Dio — sacerdoti e laici — la voglia di andare alla ricerca di molte altre anime, in modo che riescano a partecipare di questa gioia soprannaturale e umana che non può rimanere in un cuore, per quanto grande esso sia, e lotta sempre per traboccare ed estendersi senza limiti.

Prendendo come punto di partenza la sollecitudine per tutta la Chiesa, il n. 10 enumera anche alcune misure pratiche: la riforma della incardinazione stabilendo alcune modalità elastiche e la realizzazione di precisi compiti pastorali, che si riflettano a beneficio di quelle Chiese particolari che le mettono in atto, mediante diocesi o prelature personali che s’inseriscano armonicamente nell’organizzazione gerarchica della Chiesa, come ricorda la Communionis notio[14].

Questo capitolo II si chiude con il n. 11 del decreto sulle vocazioni al sacerdozio, che debbono essere oggetto di una costante sollecitudine da parte di tutta la Chiesa, e in maniera speciale dei vescovi e dei presbiteri. Come si può verificare nell’archivio del beato Álvaro del Portillo, questo numero del decreto diede origine a un conflitto di competenza, che si prolungò dal novembre del 1964 fino al maggio del 1965. Don Álvaro dovette risolverlo quasi da solo, avvalendosi dell’aiuto dei membri della commissione unicamente per posta, dato che erano ritornati nelle loro rispettive sedi. Il conflitto nacque perché la commissione — che stava preparando il decreto sulla formazione sacerdotale — aveva dedicato alla promozione delle vocazioni tutto un paragrafo del suo testo, i numeri 2 e 3 del decreto Optatam totius. Questa commissione si rivolse a don Álvaro, chiedendogli che questo argomento fosse ritirato dalla Presbyterorum ordinis. Il beato ritenne di non poter accedere alla richiesta, perché sarebbe stato inconcepibile un testo sui presbiteri nel quale non si accennasse alla sollecitudine per le vocazioni, che deve costituire il costante anelito di ogni sacerdote. Nella controversia intervennero la Segreteria del Concilio e la commissione coordinatrice; alla fine, fu deciso di sottoporre la questione al parere dei padri conciliari, quando si sarebbero riuniti nuovamente per la quarta e ultima sessione del Concilio. Si procedette così e la votazione diede come risultato che questo tema, pur essendo già ben esposto nel decreto Optatam totius, non poteva non essere trattato nel decreto sui presbiteri, dato che la sua omissione avrebbe costituito una lacuna inspiegabile.

A questo punto accennerò molto brevemente al capitolo III del decreto. Tratta della vita dei presbiteri (nn. 12-21) e si occupa direttamente di come essi devono tendere a una profonda santità, alla quale sono chiamati come tutti i fedeli. Penso che il nucleo di questo capitolo si trovi nel n. 14, dove sono descritte l’unità di vita e la carità pastorale.

La carità pastorale spinge il presbitero a santificarsi nell’esercizio del suo ministero. Il testo conciliare supera la concezione secondo la quale gli atti di culto e le pratiche personali di pietà erano considerati la sorgente che permetteva di accumulare energia spirituale, che poi si sarebbe sparsa sulle attività specifiche del ministero. Si prospettavano così due linee parallele: quella della santificazione personale e quella dell’attività sacerdotale. Il decreto unifica queste due linee e fa notare che la partecipazione del sacerdote alla mediazione di Cristo — operando in persona Christi capitis, in comunione con i vescovi e con tutta la Chiesa — ha inseparabilmente una proiezione verso Dio e, allo stesso tempo, verso gli uomini; proiezioni che si fondono armonicamente nell’unità di vita e si richiedono reciprocamente, in modo tale che non potrebbero esistere l’una senza l’altra; e anche in modo che tutti i suoi atti contribuiscano sia alla santificazione personale del sacerdote che al bene delle anime.

Il decreto termina con una esortazione alla fede e alla fiducia in Dio, che non abbandona mai la sua Chiesa. Proprio per questo la conclusione finale (n. 22) è un canto appassionato alla speranza, preso dalla lettera agli Efesini: «A Colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a Lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù» (Ef 3, 20-21).

Sono convinto che nelle righe del decreto sono chiaramente contenute tante considerazioni che appaiono nelle pubblicazioni di Monsignor Álvaro del Portillo che, già a partire dagli anni ’50 del secolo passato, dedicò molte energie e molto lavoro alla formazione spirituale e umana del sacerdote; e non dubito che si è fatto ricorso alla sua collaborazione sapendo della sua ininterrotta dedicazione a un’attività ecclesiale di tanta importanza.

Termino invocando la protezione della Mare de Deu dels Desamparats: Ella ci conduca per mano nel nostro cammino, in modo che iniziamo ogni giornata della nostra vita con l’impulso rinnovato di spenderci nel trattare Dio e nel donarci alle anime. Approfitto per chiedere a tutti di pregare per il Papa e per i suoi collaboratori nel governo della Chiesa; per i vescovi e i sacerdoti; per le vocazioni sacerdotali e religiose, e per la santità di tutto il popolo cristiano.

Valencia, 17 aprile 2015

+ XAVERIUS ECHEVARRÍA Prælatus Operis Dei

[1] C. MOELLER, “Il fermento delle idee nella elaborazione della Costituzione”, in G. BARAÚNA (ed.), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, p. 155.

[2] Nella fase conciliare il contenuto di questi progetti fu utilizzato parzialmente in altri documenti o restò archiviato in vista di essere studiato durante la futura revisione del Codice di Diritto Canonico.

[3] Cfr. J. HERRANZ, Nei dintorni di Gerico, Milano 2006, p. 82.

[4] Cfr. CARLO PIOPPI, “Alcuni incontri di san Josemaría Escrivá con personalità ecclesiastiche durante gli anni del Concilio Vaticano II”, in Studia et Documenta. Rivista dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá 5 (2011), pp. 165-228.

[5] Cfr. J. HERRANZ, “Mons. Álvaro del Portillo e il Concilio Vaticano II”, in Vir fidelis multum laudabitur. Nel centenario della nascita di Mons. Álvaro del Portillo, Pontificia Università della Santa Croce, Roma 2014, p. 87.

[6] Cfr. J. MEDINA BAYO, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Milano 2014, p. 413.

[7] Lettera del cardinale Pietro Ciriaci, presidente della Commissione conciliare sulla disciplina del clero e del popolo cristiano, a don Álvaro del Portillo, 14-XII-1965: AGP, APD D-17105 (originale in italiano).

[8] Á. DEL PORTILLO, Consacrazione & Missione del sacerdote, 3ª ed. it., Milano 2009, p. 25. Nella Lumen gentium, n. 10, si precisa che il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale differiscono non già in grado, ma essenzialmente (come già spiegava l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, 20-XI-1947, nn. 22 ss.); però si aggiunge che entrambi i sacerdozi si postulano reciprocamente.

[9] Ibid., pp. 55-56.

[10] Ibid., pp. 26-27.

[11] Ibid., pp. 27-28. Cfr. le riflessioni dell’allora cardinale J. RATZINGER, “Il ministero e la vita dei presbiteri”, in C. SEPE (ed.), Sacerdozio. Un amore più grande. Symposium internazionale in occasione dell’anniversario della promulgazione del decreto conciliare “Presbyterorum ordinis”, Milano 1996, pp. 90-91.

[12] PAPA FRANCESCO, Discorso al clero nella cattedrale di Napoli, 21-III-2015.

[13] PAPA FRANCESCO, Esort. ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 1.

[14] Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, 28-V-1992, n. 16.

Romana, n. 60, Gennaio-Giugno 2015, p. 86-97.

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